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Con il cuore nello zenzero: Raccolta di racconti e poesie
Con il cuore nello zenzero: Raccolta di racconti e poesie
Con il cuore nello zenzero: Raccolta di racconti e poesie
E-book148 pagine1 ora

Con il cuore nello zenzero: Raccolta di racconti e poesie

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Info su questo ebook

Emozioni e sensazioni vissute sulla propria pelle o soltanto immaginate fanno di questa raccolta un vero e proprio percorso di crescita e consapevolezza in cui immedesimarsi e ritrovarsi. Racconti e poesie accompagnano il lettore in un viaggio fatto di percezioni, di immagini e profumi, di fragilità e resilienza, di fantasie e desideri che possono essere assaporati singolarmente, legati tra loro da un inconfondibile elemento comune: l’amore per la vita. Un cammino tra sapori di vita reale e riflessioni su ciò che conta davvero, tra ricordi, malattia e passione, tra coraggio e amicizia, sensualità e tanto altro… Perché la vita è un viaggio imprevedibile attraverso mille emozioni, spezie indiscutibili della nostra esistenza. Possiamo viverle tutte, imparare ad amarle o cambiare quello che non va, uscire dagli schemi, scoprire nuovi punti di vista, cadere e rialzarci, ogni volta, sempre. Io mi ritrovo in Eleonora o Giulia, e tu?
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2024
ISBN9791223024270
Con il cuore nello zenzero: Raccolta di racconti e poesie

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    Anteprima del libro

    Con il cuore nello zenzero - Maria Rosaria Trovarelli

    Tra racconti e dediche speciali

    Come perla sulla soglia di una porta1

    Il rumore delle perline di legno che al mio passaggio urtavano la porta d’ingresso accompagna ancora i miei ricordi. Impilate in modo perfetto nei fili di quella tenda consumata dal sole, consentivano al varco di essere protetto ma a noi lo lasciavano sempre aperto.

    Li sento ancora oscillare, quei fili, mentre lì fuori esitavo un attimo prima di entrare. L’aria, che si faceva strada dalla finestra socchiusa in fondo al corridoio, anticipava il mio tocco, li accarezzava come capelli e li faceva vibrare come pelle che si corruga in preda a un fremito di vita.

    Oh nonna, sei ancora qui? Mi ascolti?

    Ecco, s’insinua adesso nei miei pensieri il profumo di quella purea color rubino che lasciavi bollire per ore sul fuoco. Nelle fresche albe d’agosto era una gran festa per noi bambini lavare quei frutti generosi in tini carichi d’acqua e dipingerci dal capo ai piedi di scarlatte pennellate. Quell’odore tra il dolce e il pungente del prodotto generato riempiva le mie sicurezze, avvolgeva ogni stanza, la veranda, il giardino, le narici. Spalancava le porte alla fame di fanciulla mentre giocavo a saltare con la corda e ti immaginavo indaffarata tra pentole e verdure appena raccolte nell’orto.

    E ti vedo ancora, oggi, com’eri allora.

    Il grembiule ti copriva la gonna, le calze velate color carne scese sul ginocchio sembrava stessero per scivolare giù da un momento all’altro prima che le sistemassi con le tue dita storte. Ai piedi le ciabatte pronte a essere lanciate se qualche nostra marachella ti faceva perdere la pazienza o se un pallone finiva sulle tue piante, così ben tenute. Le maniche della maglia sempre arrotolate fin sopra al gomito per lasciare libertà alle mani di poter provvedere a ogni faccenda, sempre impegnate a lavare stracci o nascoste tra petali di fiori.

    Le rughe sulle braccia, sul viso e sotto al mento, morbide ed evidenti come le pieghe di quelle sfoglie prima tirate ad arte col matterello e poi ripiegate su se stesse come fossero ali ricamate di un ventaglio che si chiude. Eri abile maestra nel ritagliare quella pasta che noi abruzzesi veneriamo tanto e che almeno due volte alla settimana deve guarnire le nostre tavole. E ti osservavo con ammirazione quando portavi avanti la tradizione di quei lembi di verdura colorati tra il verde e il giallo: le tue "sagne di legno2", che appendevi a seccare sul filo dei panni come fossero calzini stesi ad asciugare. Il sole ci passava attraverso e creava strani giochi di luce e riflessi in movimento su quel lastricato in cemento segnato qua e là dalle mie ginocchia sbucciate e dalle lacrime passeggere della mia esuberanza.

    E ancora, che dolci momenti rubati al tempo quando mi accorgevo che avevi sistemato nel punto più assolato della casa i fichi del tuo albero! Quel vecchio tavolaccio sembrava un piatto di gioielli serviti a tentar la gola. A malapena li ritrovavi lì, di numero sempre ridotto, che ingentilivano di nascosto il mio palato mentre correvo piena di vita dietro ai giochi della mia infanzia.

    Oh nonna, lo senti il mio cuore?

    Quei profumi di te, donna indipendente e capace, ormai svaniti, lasciarono il posto all’olezzo di disinfettante e medicinali, a quello di urina e di agonia, e conferirono a quel varco, protetto e sempre aperto, il senso di sottile confine tra la libera autonomia e le giornate obbligate tra quattro mura.

    Quegli odori freddi e pungenti non potevano godere della stessa magica fragranza di quelli di un tempo. No, non potevano!

    Impregnavano di sofferenza e di attesa l’unica stanza che ti ha circondata in quegli ultimi anni di non vita. Avvolgevano di compassione e senso del dovere anima e corpo di chi si è preso cura di te, di chi è stato al tuo fianco, di chi ti ha cercata e amata.

    Spalancavano le porte all’incertezza dei nostri epiloghi, come se guardando te fossimo davanti al riflesso delle nostre fragili esistenze, davanti alla dura consapevolezza di quanto effimera sia la vita.

    Quella vita che ci prende, ci fa correre, fugge via e ci fa ritrovare vecchi nel tempo di un arcobaleno. Veloce come il vento che tanto ti agitava, importante come l’amore che ha vissuto sempre al tuo fianco, complicata come una matassa in quelle risposte mai trovate, misteriosa come la morte che troppo a lungo ti ha tenuta in sospeso.

    Il salotto, che aveva accolto tante feste in famiglia, sembrava ormai una camera d’ospedale. Le bianche pareti vestite delle immagini di matrimoni felici e di nipoti sorridenti alle luci fluttuanti delle candeline contrastavano con quel letto alto con le sbarre. Scuotevano con brutale concretezza la riflessione sulla malattia che decide da sola come consumare e divorare ogni cellula, ogni ricordo, la voce.

    Su quel giaciglio il tuo corpo si è deformato, ha perso ogni autonomia. Anche le parole erano andate via e con loro i riflessi. Il pigiama – unico indumento a coprirti – un lenzuolo o una coperta, il catetere, la traversa, il pannolone, l’ago della flebo infilata nel braccio, il sondino per il tuo sostentamento fisico.

    Oh nonna, spero che tu non abbia mai vissuto con umiliazione e vergogna il tuo corpo nudo e impotente in balia degli altri, nell’attesa del rinchiudersi definitivo di quella porta. Senza più profumi delle tue antiche pietanze, gli occhi aperti e lo sguardo perso nel vuoto.

    Eppure al mio richiamo il tuo volto esprimeva sorpresa, la voce filtrava, ne sono sicura, e svolazzava dentro te raggiungendo chissà quale angolo delle tue consapevolezze stanche e abbattute, senza avere la forza di riconoscerne la provenienza. Sembrava di chiamare e cercare una te lontana e smarrita nell’oblio di una mente ormai incapace di funzionare.

    Perla ormai consumata, inerme, appesa su quella soglia di confine tra probabile coscienza e indubbia assenza, tra sofferenza e liberazione.

    Amata fino all’ultimo respiro del tuo fragile passaggio.

    La porta è chiusa, quella morte lenta è finita ma una nuova vita ti accoglie.

    Oh nonna, io ti sento ancora, e tu? Sì, anche tu ascolti me.


    1 Premio speciale della giuria al Concorso internazionale Lettera d’Amore di Torrevecchia Teatina (CH), agosto 2018. Primo premio al talent letterario Amici del Viandante, IV edizione.

    2 Si tratta di un’antica preparazione culinaria tipica dei paesi dell’entroterra abruzzese che consiste in zucchine tagliate a listarelle lunghe e sottili ed essiccate al sole, chiamate a Lettomanoppello (PE) sagne di legno. Vengono consumate come contorno dopo averle reidratate in acqua per alcune ore, bollite e ripassate in padella con aglio, olio, peperoncino e peperone secco dolce macinato.

    Libero, come un danzatore scalzo3

    Per sei anni della sua vita e altrettanti della mia sono sempre stata felice di accogliere il mio Alessandro ogni mattina nell’ampio ingresso della scuola primaria.

    In attesa del suo arrivo mi sedevo all’entrata su una delle due cattedre addossate al muro vicino alla fotocopiatrice e usate dalla bidella come ripiano per documenti, libri e quant’altro le servisse per svolgere il suo lavoro di assistente alle maestre.

    Alessandro arrivava sempre con qualche minuto di ritardo rispetto agli altri alunni. Le manovre degli scuolabus sul piazzale – con la fontana, la folla, lo schiamazzo, le spinte tra i compagni, i genitori che accompagnavano i figli – erano per lui causa di fastidio e confusione che con facilità potevano mandarlo in crisi.

    Gli alunni entravano dal cancello a frotte, e dopo una breve sosta di gruppo all’ingresso, che dava tempo alle insegnanti della prima ora di ricreare ordine e compostezza, si avviavano tutti verso le proprie classi. Le aule erano disposte ai lati del largo corridoio che attraversava da parte a

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