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Da parte di padre
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Da parte di padre
E-book229 pagine3 ore

Da parte di padre

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Info su questo ebook

Enrico non sa spiegarsi, nemmeno ora che ha 22 anni, quali intrighi e misteri taciuti abbiano sotterraneamente determinato le dinamiche affettive del microcosmo
rappresentato dall'azienda di sua madre, dove ha vissuto la sua infanzia e la sua adolescenza prima di trasferirsi a Bologna per frequentare l'Università. Intrighi e stranezze che, dietro una facciata di normalità borghese e operaia, minavano dall'interno la vita delle famiglie che vivevano nella grande corte dell'azienda, e il cui punto focale e nello stesso tempo di ribellione e di rottura era incarnato da un ragazzo particolare, ribelle e poetico, Ales, molto più grande di Enrico, il cui suicidio, avvenuto quando Enrico aveva sette anni, era stato seguito da una specie di damnatio memoriae. Incuriosito dalla personalità di Ales e annoiato per la decadenza dell'azienda,Enrico va a frugare nel bugigattolo sotto le scale scelto da Ales come base e camera da letto. Qui trova molti nastri di registrazioni incisi dal ragazzo e comincia ad ascoltarli sistematicamente, cercando di seguirne la progressione temporale. Viene così a conoscere e in parte intuire ,dai pensieri, dai racconti, dalle atmosfere evocate dalle cassette, alcuni aspetti dell'anima lucente di Ales, dei suoi rapporti con la madre, con il padre,con la stessa famiglia di Enrico. Enrico entra quasi misticamente dentro l'anima di Ales, compie delle indagini e infine ricostruisce la storia, lo “scandalo”, il sacrificio alla rispettabilità.
Enrico, indignato con tutti i protagonisti della “trattativa” e da quello che Ales nelle registrazioni racconta sui comportamenti di Zanni, decide di affrontarlo per chiedergli ragione della sorte di suo fratello, in una specie di rivalsa postuma. Poi affronta sua madre ed Eve. Quando trova nella camera il mangianastri originale di Ales, scopre al suo interno l'ultima cassetta registrata da suo fratello, e comprende che Zanni è responsabile della sua morte.
Va a conoscere, con un'esperienza affettivamente intensa, il migliore amico di Ales, e lo mette a parte della registrazione. Prova a contattare altri amici della stessa compagnia, ciascuno però chiuso nella sua vita.
Per Zanni Artieri sembra che si rinnovi un incubo ossessivo: Enrico ha la stessa età di Ales quando è morto, gli somiglia, soprattutto sa molte cose. Enrico porta il materiale di Ales alla polizia, che perquisisce la camera.
Cesare ed Enrico intuiscono che Artieri sta perdendo la testa e che vuole una resa dei conti definitiva con Ales-Enrico.
Finché una sera, mentre Enrico, come ha preso ormai l'abitudine di fare, dorme nella camera di Ales, Zanni Artieri si presenta, chiamandolo “Alessandro”..........

LinguaItaliano
Data di uscita25 ago 2018
ISBN9780463113240
Da parte di padre

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    Da parte di padre - Tere Rossignoli

    Da parte di

    padre

    Tere Rossignoli

    Pubblicato da Tere Rossignoli in Smashwords

    Copyright 2018 di Tere Rossignoli

    Questo ebook è disponibile in formato cartaceo presso i maggior rivenditori online

    Smashwords Edition, Licenza d’uso

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    1

    Ho aperto gli occhi sulle colline di San Francesco, tra due finestre bagnate di una pioggia leggera che saliva dal fondo della valle, verso l’ospedale. Il vapore freddo stendeva un velo opaco sui vetri e i bambini in visita alle neomamme tracciavano con il dito le loro prime prove sulla lavagna dell’inverno.

    Mia madre mi teneva nell’incavo del gomito, tanto ero piccolo; le scarpette di lana bianca erano riempite dai miei piedi solo per metà. Nell’altra mano aveva il bicchiere del tè portato dall’infermiera.

    Sotto la pioggia, le colline ondeggiavano come versi. Nella foschia, casolari e strade, greggi di pecore, camioncini del latte che traballavano su per la collina.

    Sono stato piccolo davanti a quel verde ondulato e vibrante, dentro quella verde fiamma mistica. Alla finestra la mamma in vestaglia bianca, credendo di farmi vedere il paesaggio lasciava che il paesaggio guardasse per la prima volta me.

    Della mia primissima infanzia ho conservato un’immagine mitica, naturalistica, preistorica quasi; un’immagine di miracolo.

    Alcuni anni dopo. quando salivo sui pascoli a mezza costa, gli animali non mordevano, sotto le dita sentivo la loro gengiva perennemente infantile, forse il dono che li aveva preparati all’Eden e che Dio si era scordato di togliere.

    Ales morì in modo infernale, sotto le colline, per overdose. In realtà si impiccò tra i fasci del tabacco che pendevano nell’immenso essiccatoio sorretto da travi di cemento, dove lavorava la sua famiglia. Suo padre era fattore della tenuta di mia madre.

    Ales passava la maggior parte del tempo in un sottoscala stretto.

    Io di lui non sapevo quasi niente, se non che aveva già provato diverse volte a vivere, ed era già vecchio di trent’anni. Venni dopo a sapere che ne aveva solo ventidue. La sua vita, così sfocata e pesante, si svolgeva parallela alla mia, ma le mie ore e quelle dei miei amici erano celesti. Lui era un fauno contorto che corre-va con gli zoccoli su per le colline, a due, a tre, a quattro zampe. I suoi giochi con la natura erano violenti.

    Il periodo precedente all’ultima scelta, come ho imparato più tardi, è costellato di affermazioni vitalistiche estreme, atti goffi, ultimi spasmi per afferrarsi a una zattera fessa. L’istinto di sopravvivenza e l’istinto alla felicità muovono le ultime carte per atti che nascono già morti. Anche i pensieri più elementari stanno morendo, ma si ribellano ancora, come bambini portati nella stanza dell’iniezione.

    Vedevo Ales sulle scale, al solito incongruo con tutto ciò che lo circondava. Passava in fretta e non guardava mai noi bambini.

    Caro Ales,

    per tutta la vita, o almeno nella sua parte iniziale, ognuno di noi fantastica di incontrare qualcuno o qualcosa con cui ingaggiare una bellissima lotta, amorosa e violenta. Anch’io ho sempre sognato la mia lotta con l’angelo, il più delle volte equivocando la natura della stessa.

    Tu, forse, non formulavi questo genere di pensieri.

    Sicuramente, però, hai avuto la tua lotta e ora comprendo fino a che punto ne sono stato spettatore.

    Sicuramente, Ales, non volevi crescere a quel modo, secondo patti che

    ti facevano scontare soprattutto la tua incongruità. Tu non c’entravi proprio con il lavoro di tuo padre, il grembiule di tua madre, il paese, i bambini come me, le distese di tabacco e di granturco, gli animali. Si può capitare o essere gettati nel posto sbagliato.

    Non so quale tua fondamentale scarsa abilità o qualità ti abbia impedito di andartene. L’azienda, la casa, erano la sede dei tuoi terrori, dei tuoi disamori. Se non lo fossero state, credo che ti saresti ucciso gettandoti dalla rocca di Montesanto o nel Tevere, non con sfregio e utilitarismo atroce scegliendo l’essiccatoio di tabacco sotto la stanza dei tuoi.

    Ma in qualche modo avevi lanciato anche a noi un messaggio di avvertimento. Presto anche per noi, occhi tranquilli sgranati preistorici, quel mondo tutto disteso sulla dimensione del nostro desiderio sarebbe finito. C’è sempre un angelo ad annunciare la fine del mondo, anche se si tratta della fine di un mondo, e l’angelo deputato a questo è tanto debole che le sue piume si sfaldano come il contorno di un foglio che brucia.

    Un pomeriggio, il più silenzioso su cui abbia mai fantasticato, un angelo con le ali di tabacco ha guardato per la prima volta me e i miei giochi; poi in qualche modo deve aver proferito la sua sentenza.

    Non posso dire che tu non mi abbia mai guardato.

    Sono le cinque. La sciocca colf-fantesca con le mani in mano, inopportuna nella sua larga bidimensionalità allineata sulla linea della porta, l’espressione che mostra a tutti tutti gli anni di servizio, una scusa dipinta sulla faccia, la voglia di fare bene il mio bene lasciando un momento la compagnia di mia madre, il viso a padella, la casacca pastello, il colletto di carta come quella per guarnire i vassoi, la pettinatura filata e zuccherosa che vorrei schiacciare, definitivamente stritolare la permanente di cartapesta. Ha chiamato qualcuno per me? domando. Fino alle cinque mia madre mi proibisce ogni contatto sociale, da quando il mese scorso ho rimediato una brutta figura all’esame all’università. Lei sa che sua madre desidera… Ma non desidera dico per questo si accanisce col mio desiderare.

    La teiera arroventata fuma, arrossisce. Consideri le cose da un altro punto di vista, suggerisce e non dice quale. Sguardo da volpe imbolsita. Il traboccare del tè mette in sordina la mia irritazione. È ridicolo che l’emanazione servile di mia madre abbia la sua razione di proteste, anche se troppo spesso mi sento le spalle specchiate nei suoi occhi da spia.

    Finto-stupita, finto-interrogativa, scompare. Conto i soldi nel cappotto: non tornerò tanto presto. Studio a Bologna e in genere resto fuori casa per tre settimane. Ogni volta che torno trovo in tasca le macerie del mese: pezzi di sigaretta, biglietti del cinema e dell’autobus. Mollettine per gli appunti, spillette pubblicitarie dell’OxyBar, avanzi di matita e mine di bic. Anche le gomme da correzione per i progetti e le gomme pane le tengo in tasca.

    Quando esco passo davanti all’ex magazzino del tabacco. Da anni non c’è più nessuno, i dipendenti, dopo le varie disgrazie, si sono trasferiti e nessuno ha preso il loro posto. Però mia madre, qualche zia a turno ed Eve, vengono qui almeno sei mesi all’anno.

    Dentro ci sono ancora le foglie secche, lunghe e sottili, giallo-brune; fragili e disidratate come delicati insetti spillati da collezione, sparse un po’ dappertutto, in un odore di polvere e di nicotina dilatato e inebriante. Dopo qualche passo, dal cemento, con un fruscio da santuario, si alzano falde di materia polverosa che dieci anni fa era qualcosa di vegetale.

    Le travi sono altissime, almeno secondo il punto di vista di un bambino.

    Provo a pensare cosa cercasse Ales qui dentro. Poniamo che, come Marcellino, avesse scoperto in quella soffitta un segreto.

    Evidentemente non una croce sola: una distesa di croci altissime e rovesciate, conficcate nel sottotetto.

    Quando in tarda serata gli operai se n’erano andati, Ales veniva al magazzino. Sotto il soffitto a capriate pendevano i fasci di tabacco accartocciati e legati con spaghi, affusolati nell’aria celeste come pipistrelli o larve giganti. Le fessure verticali delle prese d’aria illuminavano angoli durante il giorno del tutto insignificanti, fitti di attrezzi, dove lui si rifugiava.

    Delle sue notti di pura solitudine non saprei dire altro. Tutti ci tenevano all’oscuro e nessuno di noi piccoli si chiedeva nemmeno dove andasse o dove vivesse. I ragazzi come lui non si sa mai dove siano, sono un vento, un transito. A loro non interessano le case ma i passaggi, i varchi: su per una soffitta o dentro un sottoscala, dove non entra chi è arrivato prima o come me , dopo.

    Dottore- Quando è cominciato quello che chiami depaesamento? Forse intendi con questo lo stesso che spaesamento.

    Ales- No, intendo de-paesamento, scendere dall’alto verso il basso. In latino de indica questo genere di movimento. Vuol dire scendere dal luogo di prima.

    D- Verso quale altro luogo? Quello della malattia?

    A- Un altro luogo nel senso che il paese dove la malattia costringe ad abitare è un altro.

    D- La tua percezione delle cose risultava differente?

    A- Un ramo della mia famiglia è portatore di emofilia. In casa non se ne parla. Mio padre non mi ha mai detto più di due frasi che non riguardassero il lavoro, e per mia madre è più o meno lo stesso, anche per la superstizione che parlare dei mali porti male. Il fratello di mia madre è morto negli anni Cinquanta, quando le cure non funzionavano per più di un anno o due.

    Fino a diciannove anni non ho avuto sintomi. Prima di allora non sapevo dell’altro luogo, di avere un altro luogo sotto i piedi: voragine o pozzo. È un luogo che si può vedere solo quando la direzione dello sguardo è necessariamente dal basso verso l’alto. Tutti fanno già una gran fatica solo a starci affacciati. Forse non bisognerebbe odiarli per questo. Per quanto mi riguarda, se l’avessi saputo prima, se mi fosse stata data una possibilità, credo che non avrei voluto vivere sapendo di doverci cadere dentro. Nessuno può vivere a lungo in quel luogo. È acqua scura lavica, rovente.

    La sera di due anni fa - dopo alcuni mesi in cui andavo alle prime trasfusioni in day hospital, perché mi era capitato di perdere i sensi nel sottoscala, dove mi aveva trovato il socio di mio padre - ero al compleanno a casa di Henni. Avevo bevuto, e fumato. A casa mia non sto quasi mai la sera. Va a finire che mi guardano sempre come se stessi escogitando sintomi e disturbi per evitare il lavoro in azienda. Mio padre vuole acquistare l’attività e io non aiutavo in niente, neppure quando stavo bene. Da Henni mi prese un’emorragia come non l’avevo mai avuta. La cosa più grave sul momento mi sembrò il fatto di aver rovinato la festa per venire accompagnato in ospedale con l’asciugamano premuto sul naso, nell’auto dei suoi genitori.

    D - Cosa successe all’ospedale?

    A - Ci furono momenti in cui non ero del tutto presente a me stesso. Vedevo le persone che si muovevano intorno alla barella, come azionate da impulsi disconnessi, a scatti. Circa come l’effetto stroboscopico delle luci della discoteca. Gli oggetti mi abbagliavano. Erano definiti nei particolari ma senza profondità e senza ombra, gli era stata tolta la terza dimensione. Come se la pupilla fosse costretta a una dilatazione forzata. Per qualche istante ho cercato Henni. I suoi genitori e i medici mi fissavano senza pudore. Così alti, tutti in circolo, si piegavano su di me. La corolla si chiudeva, mi copriva. Stavo morendo.

    D- Senza quella trasfusione, forse.

    A- Girandomi dalla parte del braccio legato, prigioniero in un reticolo di tubi rossi, mi resi conto che gli aghi, le forbici, i bisturi e una serie continua di oggetti taglienti, stavano posati sul vassoio, in un ordine lineare perfetto e rivoltante. Ero certo che nessuno là dentro avesse mai avuto una percezione del quel tipo.

    Avrei dovuto alzarmi dal lettino, fuggire dall’invasione di tutto quel rosso e tutto quel bianco. Nessuno intuisce quello che mi passa per la testa. Impossibile cercare una spiegazione. Il cervello prosciugato. Sto morendo come molti altri, senza sapere se anche altri siano stati in questo luogo, accecati dalla violenza dell’ultima luce, sul limite percettivo della deformazione, della mostruosità. Crollano le normali difese dei sensi, come nella droga. La realtà tutta rivoltata contro di me, finalmente sincera nel mostrare il rovescio del guanto. Mi trovo a un passo da una verità che assomiglia molto alla rivelazione di un male assoluto. Muore la mia parte più nobile, il centro. Da circa un’ora non sono più qualcosa di legittimamente somigliante a un essere umano. Non capisco le leggi di questa terra, ha la natura di un luogo bellico. Non so se è ancora intatta la volontà, quali sono i neuroni colpiti e collassati e quelli che provano ancora a resistere. Non passa minuto senza che mi tocchi spendere tutte le energie per trattenere l’animale che preme dentro, mi avvolge di cori di parole invertite, convincerlo a calci e a pugni per un secondo. Se la Medusa molla la presa da una parte, si apprende dall’altra. Dicono che sia il trasformismo fantasioso dell’anossia, che precede la morte cerebrale. Sono io questa cosa, il luogo di nutrimento di un formicaio di geni alterati che hanno impiegato vent’anni per animarsi. È il loro momento, non il mio.

    Penso che la morte non lenirà in nulla questo dolore, che con ogni evidenza appartiene all’essere ed è eterno. Mi raggiungono immagini, ossessioni intrusive: corpi magri di animali strani, poveri esseri muti che a differenza di me non possono nemmeno battere i pugni sui muri e sfinirsi di parole. Una lunga fila di occhi, musi, zampe. So che stanno andando a morire da soli. Per loro la mia mente, prima di ogni altra cosa, piangeva.

    Anch’io ero una delle tante intrusioni erronee della vita, in qual-che zona cariata del cosmo; un errore universale che non era nemmeno in grado di azzerarsi e faticava a trovare il tasto off. Ho visto tutti quei piccoli esseri innocenti e feriti dentro la loro materia sensibile, dentro i loro piccoli corpi. Non era solo l’orrore di non riuscire più a respirare sotto la maschera dell’ossigeno, era dover immaginare tutti quegli occhi e vivere la loro agonia, lo sfinimento che mi dava la compassione.

    La morte dovrebbe risolversi, sciogliersi e annullarsi in noi in fretta, finché sentiamo, e non essere lei a trattenere la vita, a tenere in vita la vita .

    Ho interrotto la cassetta. Sono almeno due ore che ascolto la registrazione di Ales. Nel sottoscala, dentro lo scheletro della sua vecchia radio, ho trovato questi nastri. Da giorni ascolto le paro-le del passato di Ales e, molto di riflesso, del mio.

    Per quello che ricordo del padre di Alessandro, ho l’immagine di qualcuno che scende le scale, che parla con mia madre; è solo una voce, un volto in ombra sotto il cappello. Forse capelli scuri, come li aveva Ales. Dovrei cercare delle foto, compararle ai miei ricordi. Per esempio, a me sembrava alto, ma non credo che lo fosse tanto, il solito errore prospettico, da piccoli tutto è più grande, emergente, in rilievo. E infine l’ottusità impermeabile dei suoi si limitava per me a un mezzo sorriso, rivolto al figlio della padrona.

    È possibile che anche la figura di Ales mi apparisse un’emergenza tra le tante e che non scorgessi niente nel disordine del suo sguardo.

    A-Improvvisamente vidi, ma dall’interno delle pupille, con sguardo introiettato verso la mente come nel sogno, delle montagne altissime e innevate. Ricordavo un romanzo che avevo letto a quindici anni, in cui una ragazza caduta in coma veniva salvata attraverso un lunghissimo itinerario psichico-geografico da una persona che si faceva indurre un coma artificiale per andare a riprenderla. La salvatrice percorreva sentieri ripidi, ostili. Il suo itinerario psichico all’inseguimento di una coscienza che si era ritratta dalla superficie della realtà, le si parava davanti come paesaggio scabro e montano, spalmato gelidamente di colori smaltati e innaturali, come affiorati sullo schermo di un computer. Il cielo grigio metallico era privo di ombre. Cime altissime, una montagna che sembrava distante e invalicabile, stagliata su un altro piano prospettico. Nelle viscere erose che si inabissavano per centinaia di metri, la ragazza era precipitata in un buio di immobilità. La persona che aveva affrontato quel viaggio terribile, rischiava a sua volta di non poter più tornare dal coma indotto. Allungava le mani per guadagnare qualche chilometro o qualche millimetro; quando ormai non riusciva nemmeno più a distinguere gli elementi intorno, il paesaggio aveva perso luce e colore e lei aveva iniziato a precipitare sempre più a fondo. Quelli che credeva luoghi di attraversamento erano livelli di coscienza. Alla fine, in uno spazio senz’aria, le sue dita toccarono altre dita gelide. Dal buio profondissimo si alzava un gemito, come di neonato che a occhi chiusi chiamava; un neonato animale di una specie sconosciuta.

    La tomografia assiale illuminò con il liquido di contrasto le zone del cervello e sullo schermo in doppia proiezione speculare apparve:

    Alessandro Artieri.

    Stato di coma semivigile indotto da crisi anossica.

    Probabile compromissione neurologica.

    Sentii mia madre che chiedeva cosa significava, chiedeva dov’ero. Da quando era arrivata nessuno era stato in grado di calmarla. Il ragazzo ha sempre avuto una serie di problemi comportamentali. Annuivano. Inserimento a scuola difficoltoso. Debolezza e scostanza umorale. Svenimenti gli ultimi mesi. Personalità borderline con episodi maniaco-depressivi. Emofilia con manifestazioni emorragiche.

    La ragazza sentì le dita rigide, sporche di terra. Era impossibile da quella posizione afferrarle: avrebbe dovuto scendere. Ma scendere poteva significare non riuscire a respirare, cadere della stessa caduta.

    Sul lenzuolo le dita non si muovono più da alcuni minuti. Mi sembra di udire la mamma: è un lamento acuto e lontano, all’apertura eccezionalmente alta di un pozzo. Tutti devono essere affacciati lassù, ma io non sento nessuna mano.

    Mi sono alzato, ho messo il cappello a visiera di Ales e sono andato al magazzino. Sono entrato e ho preso il primo ferrovecchio che ho trovato, una pala enorme slabbrata. Ho cominciato a prendere di mira le finestre, la maggior parte delle quali già semidistrutte. Alcuni vetri si frantumavano al di fuori e altri sulla mia testa. Rimbomba tutto, ora che il vuoto è proprio vuoto. Una frotta di uccellini si è sparpagliata sopra le travi. Quando i vetri sono finiti ho dato delle insulse palate sui muri, spolverandomi di grigio.

    Ho voglia di chiudere i conti con questa bara maledetta, piena di larve e di rami al vento. Ho iniziato a mirare alle travi, ma sono troppo alte, non ne ho colpita nemmeno una. Mia madre è scesa in fretta, ha aperto con due mani il portone e si è affacciata; dietro si intravede la pettinatura gonfia di Eve. Ho dato altri due o tre colpi a vuoto, cercando di buttare giù un fasciame che penzola sulla mia testa . È divertente?. L’ironia scontata nella sua voce, che stavolta non ho intenzione di distinguere dalla preoccupazione, mi irrita. Mi volto come una serpe calpestata.

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