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In movimento: L'universo femminile: tasselli globali di un unico mosaico
In movimento: L'universo femminile: tasselli globali di un unico mosaico
In movimento: L'universo femminile: tasselli globali di un unico mosaico
E-book908 pagine13 ore

In movimento: L'universo femminile: tasselli globali di un unico mosaico

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Info su questo ebook

Questo volume raccoglie il percorso personale da giornalista e da direttore della testata TOTTUS IN PARI che è dal 1997 punto di riferimento delle Associazioni degli Emigrati Sardi in giro per il mondo. Ho pensato, in occasione dei 25 anni della pubblicazione online, di creare un focus nei confronti della figura femminile sarda che si è messa in luce attraverso le proprie competenze professionali nei vari ambiti: nella medicina, nella musica, nell’arte. Ma anche rincorrendo la passione per la scrittura, l’insegnamento e al volontariato. Ne sono emerse 184 storie raccolte attraverso i miei articoli e interviste in tutti questi anni, di diverse donne dell’isola che in giro per il mondo, ma anche una notevole percentuale in Sardegna, hanno fatto emergere con peculiarità sintetica, il loro ruolo nella società di oggi e in alcuni casi, anche del passato.

L'AUTORE

Massimiliano Perlato è nato a Saronno, in provincia di Varese, nel 1969. Risiede a Muggiò (Monza e Brianza). È da sempre legato alla Sardegna per vincoli affettivi. La mamma è, infatti, originaria di Terralba nell’oristanese. Per tantissimi anni ha avuto un ruolo attivo nell’associazionismo culturale presso il “Circolo A.M.I.S. – Emilio Lussu” di Cinisello Balsamo (Milano). Ha creato il portale “Tottus in Pari” (www.tottusinpari.it) nel 1997, divenendo in breve tempo punto di riferimento delle associazioni degli emigrati sardi sparsi nel mondo. Nel 2005 ha pubblicato il libro Occhi e Cuore al di là del mare, nel 2021 la piccola raccolta di poesie La luna spenta – canti d’amore. Dal 2006 è giornalista pubblicista. 
LinguaItaliano
Data di uscita13 gen 2022
ISBN9791220885751
In movimento: L'universo femminile: tasselli globali di un unico mosaico

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    Anteprima del libro

    In movimento - Massimiliano Perlato

    PREMESSA

    Nella prefazione al primo libro di Massimiliano Perlato Occhi e cuore al di là del mare. L’isola in movimento attraverso lo sguardo del mondo dell’emigrazione (Milano, Lampi di stampa, novembre 2004, pagine 517) ho scritto: «Il Circolo sardo AMIS - Emilio Lussu di Cinisello Balsamo pubblica regolarmente dal 1997 un giornale on line, Tottus in Pari. Anima del periodico, che esce puntualmente ogni mese (ed è consultabile sul sito web del Circolo), è il giovane Massimiliano Perlato, che, con questo volume, ha voluto dar conto del cammino percorso negli anni dal periodico da lui diretto offrendo una antologia degli articoli pubblicati che affrontano l’universo, cioè la generalità, delle problematiche riguardanti la Sardegna.

    Questa fatica di Massimiliano merita sicuramente attenzione e considerazione da parte di tutti i sardi (sardi emigrati o residenti) che hanno a cuore i destini della nostra isola. Personalmente e come responsabile Informazione e Comunicazione della F.A.S.I. (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia) gli rivolgo un incoraggiamento e un augurio: continui a far sì che Tottus in Pari sia una palestra per i giovani sardi che vogliono diventare esperti o addirittura professionisti del mondo della comunicazione. Ad essi voglio comunque ricordare, alla luce della mia lunga esperienza di giornalista pubblicista (con tesserino dal luglio 1982), che il giornalismo è un mestiere affascinante ma anche molto faticoso, che richiede continua applicazione sia nello scrivere (è ovvio) sia soprattutto nel leggere (e nello studiare)».

    Nell’ottobre 2004, quando scrivevo la nota che ho riportato, erano usciti esattamente 90 numeri del periodico (il n. 90 aveva 12 pagine; i numeri precedenti erano, in media, di 6/8 pagine).

    Posso affermare che Massimiliano, dotato della ferrea volontà di continuare a documentare le iniziative dei Circoli degli emigrati, sentendosi sardo al cento per cento e non soltanto al cinquanta per cento in virtù dell’origine terralbese della madre Maria (il padre è nato in Lombardia, a Calvisano in provincia di Brescia), non ha smesso di assemblare numeri del giornalino, con due/tre uscite al mese, e inoltre, trovata udienza presso il direttore, don Giovanni Pinna, di Nuovo Cammino (quindicinale della più piccola Diocesi della Sardegna, quella di Ales-Terralba), ha cominciato a inviare i suoi articoli sulle attività dei Circoli degli emigrati alla ospitale pagina inaugurata proprio da don Pinna e denominata Sardi nel Mondo (ad essa hanno collaborato anche il sottoscritto e Cristoforo Puddu, poeta illoraese trasferitosi, per ragioni di lavoro, in un paese della provincia di Pavia, Siziano).

    Sia Massimiliano sia Cristoforo, grazie a una pluriennale collaborazione con il periodico diocesano, dall’anno 2006 hanno potuto fregiarsi anch’essi del tesserino di giornalista pubblicista.

    Anche per il diffondersi, grazie a Facebook e agli altri social media, della conoscenza del servizio informativo offerto da Tottus in Pari, anche i Circoli degli emigrati sardi nei Paesi europei ed extraeuropei sono diventati fruitori e comunicatori delle notizie inserite giornalmente da Massimiliano nel Blog e poi riprese – impaginate – nel giornale on line, le cui uscite, dal giugno 2008, sono diventate settimanali.

    Tutto questo quotidiano, infaticabile lavoro volontario (Tottus in Pari, da quando esiste, non ha mai richiesto nessun contributo pubblico e nessuna sponsorizzazione privata) ha reso visibile e credibile, e quindi consultata e apprezzata, la testata presso tutte le organizzazioni degli emigrati sardi nel mondo e anche presso i competenti organismi istituzionali della Regione Sardegna.

    Tramite le sinergie, attivate da Massimiliano, con diverse testate, cartacee e online, pubblicate in Sardegna e fuori e, grazie all’apporto di associazioni culturali operanti nell’isola, il Blog Tottus in Pari offre da alcuni anni anche regolare informazione su eventi che si tengono nell’isola e, a ragione, si definisce oggi con il seguente sottotitolo: Emigrati e residenti: la voce delle due ‘Sardegne’ (con pubblicazione quotidiana di cinque notizie relative a manifestazioni culturali promosse nelle due ‘Sardegne’).

    Arriviamo al dunque di questa Introduzione.

    Dato che nel 2004 è stata una grande soddisfazione personale, per l’autore/curatore Massimiliano Perlato, riuscire a pubblicare un ponderoso volume come Occhi e cuore al di là del mare; anche se il poeta Massimiliano si è sentito appagato dalla edizione di un librino di versi intitolato La luna spenta: canti d’amore (Villanova Monteleone, Soter, febbraio 2021, pagine 29); non c’è dubbio che è da diverso tempo che il Massimiliano giornalista pubblicista accarezzava l’idea di dare una raccolta antologica esemplificativa dei testi da lui realizzati, a partire dall’anno 2004 fino ai giorni nostri per il Blog e riproposti puntualmente nel giornale Tottus in Pari (mentre scrivo queste righe, l’ultimo fascicolo settimanale visibile on line porta il numero 887; e ha 20 fitte pagine, come peraltro tutte le raccolte settimanali uscite a partire dal numero 550, datato febbraio 2015).

    Massimiliano, dovendo operare la scelta di un intrigante filo rosso tematico, ha deciso di valorizzare le interviste da lui effettuate a 184 donne legate alla Sardegna. Lette tutte di seguito, queste 184 interviste, come lui scrive, sono illuminanti "tasselli di un unico mosaico nell’universo femminile in movimento".

    Questa espressione finale rimanda esplicitamente al sottotitolo del primo libro di Massimiliano e documenta quindi la costanza dell’interesse dell’autore per le realtà sarde (in senso lato) che indicano ciò che in esse si muove (nel 2004, nell’universo, per così dire, dell’ isola virtuale, fuori della Sardegna geografica, costituita, nel pianeta, dalla rete degli emigrati; nel 2021, nel mondo delle donne testimonial autorevoli delle caratteristiche e delle potenzialità dell’isola) con una prospettiva comunque che dall’esterno vuol dare informazioni e suggestioni indirizzate all’interno dell’isola materna (in tutti i sensi).

    Chiuso questo capitolo, Massimiliano, mettiti dunque in movimento verso altri alti traguardi! Auguri!

    Paolo Pulina

    PREFAZIONI

    Il punto di vista degli emigrati. ‘La Sardegna, la gemma elusiva del Mediterraneo’: questo il titolo di una guida turistica sull’isola che vidi tempo fa. Nessun aggettivo sarebbe più adatto alla nostra isola. La Sardegna rimane elusiva, sfuggente, misteriosa. Tra le grandi isole del Medesimo è indubbiamente la meno conosciuta. Come sarda emigrata all’estero da quasi vent’anni, sono ogni giorno testimone di questa realtà. Per questa ragione le iniziative come Tottus in pari sono di grande importanza e devono essere sostenute e divulgate.

    Per venticinque anni la rivista ha continuato a diffondere, con entusiasmo e professionalità, la cultura sarda nel mondo. Ha dedicato le sue pagine ad ogni possibile aspetto delle espressioni ed esportazioni sarde, spaziando dall’arte, alla letteratura, all’ambiente, ad attività professionali, sociali e scientifiche, ai prodotti enogastronomici, allo sport.

    Ma soprattutto ha dato voce all’esportazione più importante della Sardegna: il suo capitale umano. L’emigrato, con la sua attività, la sua iniziativa, la sua quotidianità, è ogni giorno testimonianza vivente della nostra isola.

    I sardi in Italia e nel mondo. Siamo tanti, tantissimi, un piccolo esercito: 500 000 nel resto d’Italia e oltre 120 000 residenti all’estero. Dal nord al sud della penisola, dalle Americhe all’Australia, sparsi in ogni angolo del mondo. Artisti, scienziati, professionisti, imprenditori. Siamo tutti qui ‘fuori’ con lo sguardo puntato sulla nostra isola. È dunque di forte rilevanza per noi emigrati avere un punto di riferimento che raccolga le nostre esperienze. Per questa ragione siamo grati a Massimiliano Perlato di aver raccontato le nostre storie, la nostra identità, il nostro essere messaggeri quotidiani della Sardegna.

    La pubblicazione ha contribuito a rafforzare il nostro senso di coesione e appartenenza.

    Lo sguardo dell’emigrato sulla Sardegna è uno sguardo doppio, triplo, caleidoscopico. È lo sguardo, come dice Massimiliano stesso, che ha ‘la ricchezza di una doppia, a volte, triplice cultura, che rende più fertile e creativa la loro origine sarda’. Lo sguardo di chi la conosce e di chi la ama, ma anche di chi la vede dall’esterno, ne ravvisa e ammira la specificità e l’unicità e ne percepisce anche i difetti, senza per questo smettere di amarla in modo viscerale.

    La rivista ha inoltre costituito in tutti questi anni un nodo informativo importante e utile per le attività dei circoli e delle associazioni culturali sarde nel mondo. Il suo valore e la sua diffusione sono cresciuti in maniera costante negli ultimi tempi, grazie anche a un sapiente uso dei social network che permettono facilmente di annullare le distanze e quindi di portare un po’ di Sardegna ovunque, in qualsiasi parte del mondo.

    La testata è visitata da centinaia di migliaia di lettori ogni anno, un numero impressionante, testimone dell’interesse crescente che la pubblicazione (e di conseguenza, la cultura sarda in senso lato) sta ricevendo.

    Il mondo femminile. Il libro raccoglie le storie al femminile raccontate dalla penna di Massimiliano Perlato e mette in evidenza il ruolo di questa componente nel movimento dei sardi all’estero e in Italia. Un mondo in continuo divenire (ricordiamo che in Sardegna la presenza femminile in politica e nei ruoli di responsabilità è - per ragioni e retaggi culturali - ancora minoritaria) che avanza, che aumenta, che acquista sempre più rilevanza, che costituisce un elemento fondamentale del futuro dei sardi e della Sardegna. Nel descrivere l’emigrazione femminile italiana, Massimiliano la definisce ‘Un fiume silenzioso ma possente che rappresenta anche una straordinaria opportunità di emancipazione e uno strumento di risveglio per le comunità di origine.’

    Mi perdonerà se contesto l’aggettivo ‘silenzioso’, o se affermo che questo silenzio non durerà ancora a lungo: il fiume ha cominciato a ruggire, a farsi sentire e a essere ascoltato, come afferma l’autore stesso poco più avanti: ‘Le donne sarde nel mondo sono sempre più coinvolte nelle strutture sociali, economiche e politiche dei paesi di accoglienza, contribuiscono con la loro presenza ad accelerare il processo di internazionalizzazione della Sardegna.’

    Siamo quindi ‘tasselli di un unico mosaico nell’universo femminile - in movimento’ come recita il sottotitolo e titolo. Il movimento narrato è quello delle ragazze e delle donne sarde nel mondo, rappresentato dal fiume sopracitato e quindi dall’acqua, simbolo per eccellenza dell’energia femminile grazie al suo spirito di adattamento e alla sua forza. Chiudo quindi questa prefazione con un proverbio orientale che dedico alla forza delle donne sarde:

    Noi siamo come l’acqua, che si adatta al cavo della mano più piccola ma che, nel corso dei secoli, plasma anche le montagne.

    Claudia Desogus

    Sardegna è magia. Il milione di situazioni che la decorano a festa rende idilliaco il pensiero di una tranquillità interiore che non ammette paragoni. Luoghi paradisiaci che cantano soavi il loro benessere. E poi la natura che dipinge con colori armoniosi la tavolozza della propria esistenza non appena se ne assapora il contenuto. Ed è così da quando sono bambino. […] Sardegna è magia e l’atto finale prima del congedo, nonostante i vent’anni in più, è lo stesso: è un rito che si consuma sempre uguale a sé stesso, lungo la balaustra di una nave sovraffollata e concitata. Rimanere lì, nella notte scura ed ombrosa, a cercare di scorgere l’ultima luce che si spegne nella lontananza, in modo da non far luccicare il riflesso di una lacrima che scende inevitabilmente sul viso colmo di tristezza.

    Questi pensieri, bellissimi e autentici, scriveva Massimiliano Perlato, alla guida di Tottus in Pari da venticinque anni, nel suo primissimo articolo. Sì, perché la Sardegna sa essere Madre, se lo vuoi. Sa cullarti, se glielo permetti. Sa accompagnarti nel tuo percorso, se ti va di abbandonarti a lei. E sa entusiasmarti e stringerti al petto, sempre. Anche se non la percorri ogni giorno. Anche se non vedi le sue albe ogni mattina e i tramonti ogni volta che la giornata si appresta a finire e le luci si fanno soffuse. Anche se non senti rimbombare costantemente nell’aria quell’accento così caratteristico. Basta che tu ci abbia lasciato il cuore, in questo lembo di terra così carico di emozione, di tradizione, di credenze, di peculiarità. Ti lega a sé a doppio filo, quest’Isola dai dialetti aspri e dai modi cordiali, ti prende il cuore e lo custodisce tra le sue grosse mani di fata, di jana.

    E Massimiliano Perlato è figlio di questa terra. E la ama, follemente. E la rispetta, con grande ardore.

    È fixu, Massimiliano. Figlio dei dialetti, figlio dei suoni. È figlio delle falesie e dei mari turchesi – che lo sanno essere in modo magico e senza alcun filtro. È figlio delle montagne imponenti e delle colline dolci. È figlio dei segreti da tramandare di padre in figlio vicino a su focile, a calore ‘e fogu. È figlio delle usanze. Degli atitos. E, come ogni sardo che non ha sotto di sé la terra dell’Isola, sente come bruciante questa mancanza. È un distacco doloroso, quello del Perlato per la Sardegna, acuto, devastante.

    Ma, tramite parole e spazi e titoli, lui è vicino. Allungando le mani dalla mia Ogliastra, amata patria di cuore e d’anima, posso toccare le sue, sentirlo con me. Tottus in Pari lo tele-trasporta qui, infatti, e l’impegno che mette nel collegare tutti i sardi tramite un unico, dorato filo dimostra questo folle attaccamento. Questa passione. Questo legame. 

    Lunghi anni di interviste, di pezzi incentrati sui talenti dell’Isola, di interesse verso la terra che Perlato chiama casa.

    «È sempre stato il mio ombelico del mondo, il mio punto di riferimento affettivo» mi ha detto un giorno abbastanza vicino – parole che mi sono rimaste impresse nella testa, lasciandomi anche un brivido nella schiena. «E nei momenti di difficoltà che la vita mi poneva di fronte, facevo i bagagli e partivo. Cercavo me stesso nelle lunghe passeggiate invernali sulla spiaggia. Dove c’eravamo solo io e il mare con il suo ruggito, in un dialogo interiore che mi aiutava a riacquisire forza e sicurezza. La Sardegna per me col trascorrere del tempo è diventato un unico ed inimitabile amore. Un mondo da scoprire non solo dal punto di vista ambientale, ma anche e soprattutto culturale.»

    E quale modo migliore di celebrare questi due decenni e mezzo di amore pazzo e viscerale se non con un libro di sfumature isolane e femminili? Un testo, mille storie. Storie di donne, di scrittrici, di cantanti, di ambientaliste, di antimilitariste, di attrici e studentesse. Di infermiere, operatrici, antropologhe, insegnanti, reporter. Di modelle, soprani, agricoltrici. E non solo, ma occorre leggerlo per comprenderne la vastità. La completezza. Perlato ha dato voce a molte personalità, sempre attento a stare dalla parte giusta del mondo, quella colma di comprensione, umanità, talento e umiltà.

    L’universo femminile, tasselli globali di un unico mosaico è questo e molto altro. È sia un occhio all’Isola, tramite le storie di persone che si impegnano affinché il nostro sia un mondo migliore, che un traguardo, di quelli da tagliare con il sorriso e una lacrimuccia che cade. Eh, non sono mica uno scherzo, venticinque anni… venticinque anni di un giornale che dà la possibilità anche a chi è fuori di sentire il profumo del mirto pur non essendo qui. Di sentire i racconti isolani. Di lasciarsi scivolare tra le dita i granelli di sabbia. Di vedere le guglie. Di amarlo, questo luogo per alcuni così chiuso e per altri aperto come le porte del mondo. Tramite gli articoli, direte? Esatto, perché non c’è modo migliore, per sentirsi in un posto lontano, di chiudere gli occhi, sorridere e immaginare di essere lì.

    E Perlato dona nientepopodimeno una navicella spaziale per tornare, anche se per poco e solo con l’immaginazione. 

    Le donne sarde, nel corso dei secoli, sono state veramente ‘isola nell’isola’? si domanda Perlato nella prefazione all’opera. Probabilmente sì, ma insularità non significa solo isolamento: indica una particolare forma di cittadinanza, sarda e femminile, che ha portato, nel personale e nel pubblico, alla realizzazione di importanti processi di auto-identificazione e di crescita.

    184 storie, tutte al femminile. La donna, spesso maltrattata, violentata, seguita e uccisa, è il centro di un lavoro che vuole ricordare quanto sia importante valorizzarla, lei che è custode, lei che è portatrice di sogni, lei che è talentuosa e che spesso deve impegnarsi più degli uomini per un riconoscimento, lei che lotta – unghie e denti come le donne sarde sanno fare, petto in fuori e testa alta – per sé, per i suoi figli, che siano veri, di carne, o di carta sotto forma di progetti.

    Ed ecco anche perché è così importante leggere ogni singola storia, ogni intervista, ogni bramato pezzo di storia per comprendere l’essenza stessa dell’Isola. 

    Federica Cabras

    INTRODUZIONE

    Alcuni concetti si sono affermati concordemente: uno di questi è che gli uomini siano stati privilegiati, con i condizionamenti del paese d’origine e dell’epoca, nei ruoli di comando. La donna è un essere ragionevole e sensibile, ma si è spesso trovata in una situazione di dipendenza e di essere, o addirittura sentirsi, inferiore all’uomo per retaggio culturale, essendo obiettivamente più debole e più portata al sacrificio.

    Siamo purtroppo consapevoli che la presunta superiorità del maschio nella specie umana è attualmente non di rado espressa in violenza e possesso, talvolta in disprezzo, mentre è venuta a mancare la forza protettiva. Virtù e conoscenza rendono in ogni modo l’umanità più civile e meno brutale e, tornando indietro nel tempo, sembra che queste capacità non mancassero ai Protosardi. Estremamente importante il ruolo della donna: il simbolo è la figura della madre con la mano destra alzata in atto di preghiera-saluto e il figlio morto o gravemente malato in grembo, resa con grande drammaticità nel famoso bronzetto di Urzulei, denominato madre dell’ucciso. Fa venire in mente, con le debite proporzioni e prospettive storiche, la Pietà di Michelangelo.

    L’attività della donna di allora era legata al focolare, come in tutte le società preindustriali, e inoltre alla cura della crescita e all’educazione dei bambini, alla produzione di vasellame, alla raccolta di frutti e erbe selvatiche e all’allevamento degli animali da cortile. Il suo ruolo nella famiglia e la sua affettività erano grandemente considerati. La solennità e la fierezza della donna sarda, ben inserita nel suo contesto tribale, rende acuto il contrasto con la donna attuale, spesso sola e costretta in parti di donna-oggetto, che finisce per sminuire la propria potenzialità. La vita di allora era comunque senz’altro più difficile dell’attuale, l’economia e la medicina meno sviluppate, le carestie e i combattimenti assai frequenti, gli oggetti di consumo infinitamente più rozzi e poveri. Le possibilità di variare i propri compiti erano limitate al minimo, perché la società era più semplice dell’attuale. I bronzetti e le statuette in argilla raffigurano donne d’alto rango, vestite con lunghe tuniche e avvolte in scialli e mantelli, e donne di bassa estrazione, vestite con tuniche più corte, che recano in testa ceste o anfore. Non mancano alcune figure di sacerdotesse con cappelli a punta e larga falda, coinvolte in gesti di preghiera e di adorazione nei confronti di divinità da identificare nelle forze della natura, come acqua, fuoco, cielo, toro.

    Ci si può fare un’idea dell’esistenza delle donne dell’età del bronzo e del primo ferro con la lettura dell’Odissea, che narra le gesta di Ulisse, vissuto contemporaneamente ai Nuragici. Ulisse, come altri Greci, Etruschi, Egiziani, era un navigante e non è improbabile che anche i Protosardi andassero per mare, con tutte le conseguenze che la marineria comporta. È invece più che verosimile che le donne restassero a terra, perché erano legate alla famiglia, alle incombenze domestiche e al bestiame. Andava per mare una minoranza di uomini validi, altri praticavano la transumanza, come Ulisse andavano incontro a pericolose avventure, forse come lui volevano tornare al loro villaggio. Tornare alla loro vita, semplice solo in apparenza, alle donne scelte per compagne, ai figli, ai cani, alle mandrie. Allora il villaggio costituiva un microcosmo e si era ben lungi dal villaggio globale in cui siamo destinati a vivere. La donna in epoca nuragica lavorava in casa, e lo evidenziano gli utensili individuati come accessori: le fusaiole, le macine per il grano, le stoviglie; sono stati trovati anche alcuni specchi ovali in lamina di bronzo, talora finemente decorati, collane in vaghi di bronzo e di ambra, braccialetti in argento e bronzo. Le relazioni amichevoli e gli scambi con i popoli insediati sulle coste del Mediterraneo, attestati da ceramiche e bronzi sardi in Etruria e nelle isole Eolie e da oggetti di importazione in Sardegna, che dovevano ruotare intorno alle materie prime presenti nell’isola e ai suoi approdi lungo le coste, favorirono incontri fra donne sarde e stranieri e non sono improbabili contratti matrimoniali politici per ingraziarsi i principi forestieri.

    La donna, tradizionalmente portatrice di cultura, intesa come trasmissione di usi e costumi, ovvero in senso antropologico, contribuì in tal modo a formare un clima d’internazionalità e di tolleranza reciproca, presto interrotto dal sorgere degli imperialismi di Cartagine e Roma. Per concludere, quindi il ruolo della donna nella civiltà nuragica fu molto incisivo e aveva compiti differenti rispetto all’uomo. Il suo potere però era limitato alla casa e a responsabilità tribali ben precise, mentre il potere politico era senza dubbio, come testimonia Omero, in mano a uomini guerrieri. Allora la politica era strettamente legata al comando militare e quindi più consona alla determinazione e all’aggressività maschile.

    Le donne sarde, nel corso dei secoli, sono state veramente isola nell’isola? Probabilmente sì, ma insularità non significa solo isolamento: indica una particolare forma di cittadinanza, sarda e femminile, che ha portato, nel personale e nel pubblico, alla realizzazione di importanti processi di auto-identificazione e di crescita. La storia dell’emancipazione femminile è stata spesso dolorosa non solo in Sardegna ma nel meridione, dove le condizioni economiche e sociali hanno imposto tempi di crescita più lunghi che altrove. Il fascismo aspirava a dare della situazione italiana un’immagine omologata e patinata.

    Le donne antifasciste venivano emarginate, come risulta dai documenti della Polizia che, anche quando si riferivano a donne, venivano compilati al maschile e dal fatto che negli stessi documenti venivano spesso definite donnicciole quelle che partecipavano alle numerose manifestazioni antistatuali, o per chiedere pane e lavoro o per protestare contro le tasse. Vere storie singolari di donne che hanno vissuto sino in fondo la propria militanza antifascista: sarde e non come, tra le altre, Mariangela Maccioni Marchi, Graziella Secchi Giacobbe, Antonietta Pintor Marturano, Nadia Gallico Spano, Bianca Ripepi Sotgiu, Joyce Salvadori Lussu.

    Diversi studi hanno evidenziato quanto siano complicati e ambivalenti i processi di crescita verso la modernità. Sul piano del costume, si sottolinea la difficoltà della donna sarda quando ha iniziato a vestire alla cittadina, mettendo in ridicolo la vita paesana, vagheggiando la vita continentale. A dimostrare ciò è una famosa rappresentazione letteraria, Cosima, il romanzo postumo di Grazia Deledda. In esso vengono descritte due fotografie: la prima contiene un’immagine della scrittrice corrucciata, sarda, la seconda un’immagine urbana, costruita sui modelli propositivi.

    Anche le artiste sarde, in contesti diversi, hanno sperimentato la difficoltà di affermare sé stesse in un mondo che privilegiava la creatività maschile. Edina Altara si è proposta con un’immagine di una donna bambina, autodidatta, legata alla raffigurazione di temi sardi, in un’epoca in cui l’industria culturale nazionale esigeva un’immagine della Sardegna primitiva e selvaggia. Francesca Devoto, invece, ha proposto un’immagine diversa, seria e introspettiva, quasi maschile. Il processo che ha portato le donne sarde da un ruolo tradizionale (in cui lo spartiacque tra il maschile e il femminile era netto, e alle donne veniva riservata la sfera della domesticità) a una difficile modernità, è stato lungo. Il doppio ruolo, la doppia presenza, anzi le molte presenze, dal momento che molteplici e incerti sono i modelli di riferimento. In Sardegna è stata decisa la rottura con il mondo tradizionale contadino avvenuta negli anni Cinquanta con un atto di disobbedienza, quando le ragazze hanno detto no alla famiglia patriarcale e alla scuola ed al lavoro non contadino. Si vedono di conseguenza donne impegnate direttamente nell’emigrazione, nella lotta al fascismo e al nazismo, nella partecipazione attiva alla vita politica nel periodo della Costituente. Nel delicato momento storico che l’Italia attraversa, le donne possono lasciarci un’eredità importante.

    Nello scenario ormai planetario della migrazione di popolazioni, in tempi di globalizzazione, sono loro le vere protagoniste di questo fenomeno. Sono oltre 2,5milioni le donne italiane migranti nel mondo, più del 50% del totale. Un fiume silenzioso ma possente che rappresenta anche una straordinaria opportunità di emancipazione e uno strumento di risveglio per le comunità di origine. Come era successo all’emigrazione sarda degli anni Settanta del Novecento e come succede ancora in parte, le donne sono emigrate e migrano per ragioni diverse, la maggior parte per lavorare in tutte le categorie professionali. Spesso sono super sfruttate, ma ci sono anche rifugiate e richiedenti asilo politico. Possono essere giovani, anziane, sposate, single, divorziate o vedove. Molte emigrano con i figli, altre sono costrette a lasciarli nel loro paese di origine. Eppure, solo di recente la comunità internazionale ha cominciato a comprendere quanto queste donne contribuiscano all’economia e al benessere sociale sia dei Paesi di origine che di quelli di accoglienza. Oltre le rimesse economiche ci sono le rimesse sociali e queste sono le idee, le competenze, gli atteggiamenti, le conoscenze, i saperi.  Salute e istruzione sono dunque fondamentali per innalzare la qualità della vita, e le donne che hanno avuto fortuna portano nei paesi di origine i semi di un possibile risveglio sociale e culturale. Le prospettive su questi aspetti del fenomeno migratorio fino ad ora forse non erano state prese in considerazione. Dunque l’emigrazione delle donne come conquista. È stato un lungo percorso storico nei secoli che trova riferimenti e archetipi anche nella mitologia. Se pensiamo alla cultura occidentale, la donna è stata sempre tradizionalmente caratterizzata dall’immobilità e attaccamento alla terra in cui è nata. L’immobilismo femminile è stato duro a morire nei secoli, solo l’Ottocento apre un capitolo importante sulla storia della mobilità femminile ma riguarda donne di alta estrazione sociale e con disponibilità economiche. Per le donne appartenenti ai ceti sociali operai e contadini era necessità occupazionale ed è in relazione a questo fenomeno che si è trasformata l’identità femminile. Il viaggio infatti è di per sé una forza in grado di trasformare le mentalità individuali e i rapporti sociali. Superando pregiudizi radicati nella nostra cultura, si è arrivati a concepire l’idea che anche una donna potesse partire, emigrare da sola. La scelta di abbandonare per necessità, per scelta o per decisione autonoma ha provocato mutamenti profondi nella vita, nelle aspirazioni, nella consapevolezza di sé dell’universo femminile. Per le donne che restavano ad aspettare e per quelle che partivano, l’emigrazione ha significato comunque mutamento della vita quotidiana, del carico di responsabilità e di lavoro. Nella Storia della nostra emigrazione, le nostre donne hanno percorso questi e molti altri passaggi storici alcuni dei quali sicuramente simili a quelli delle migranti extracomunitarie di questi tempi. Oggi le donne sarde emigrate, in particolare all’estero, di seconda e terza generazione possiedono, per lo più, la ricchezza di una doppia, a volte, triplice cultura, che rende più fertile e creativa la loro origine sarda, che esalta il valore dell’identità, della solidarietà, soprattutto verso la partecipazione al  percorso di integrazione delle donne di altri continenti, che affronta la complessa questione del rapporto tra le culture d’origine e quelle dei paesi d’accoglienza, e mette a confronto e dibatte le esperienze di lavoro, di vita quotidiana, di vita familiare e lavorativa e di associazionismo, con proposte e  progetti, non solo all’interno dei Circoli e federazioni, ma anche in altri contesti istituzionali. La donna sarda ha svolto un ruolo importante e spesso determinante nella difficile quotidianità dell’emigrazione, anche per la mediazione che ha dovuto svolgere quotidianamente in famiglia e nelle associazioni fra caratteri e generazioni, fra figli e ambiente esterno, fra differenti mentalità ricreando con l’unità familiare una struttura di sostegno tale da ridurre per l’uomo le difficoltà ambientali ed il peso del lavoro. Le donne sarde nel mondo sono sempre più coinvolte nelle strutture sociali, economiche e politiche dei paesi di accoglienza, contribuiscono con la loro presenza ad accelerare il processo di internazionalizzazione della Sardegna caratterizzandosi come strumento prezioso di penetrazione culturale e politica, con enormi riflessi positivi a beneficio della nostra Isola. Le donne sarde emigrate in Italia vivono, condividono e lottano con le altre donne problemi che ancora oggi non sono risolti o sono in discussione o possono migliorare. Il loro profilo o identikit è quello di donne italiane europee che devono far sentire la loro voce per raggiungere obiettivi di successo e realizzazioni che la retorica modernista dà come acquisiti in Italia ma che invece, forse, sono realtà in altri paesi europei.

    Oggi le donne sarde nel mondo sono più che mai capaci di coniugare la difesa dell’identità come valore e collocarlo nel multiculturalismo: identità e integrazione quale scambio, confronto dialettico. Sono capaci di capire e meglio valorizzare le nuove identità individuali che affondano nelle radici educative della moderna contemporaneità.

    ELISA ABIS – MONTRÉAL

    (GLI ARRIVI E LE PARTENZE, CON

    LA SARDEGNA NEL CUORE, DAL LONTANO CANADA)

    (Settembre 2014)

    Ogni storia personale ha inizio in un dato spazio e in un dato tempo, si muove entro coordinate spazio-temporali ben precise. La storia di Elisa Abis, che non prevede in sé comunque nulla di eclatante, se non delle partenze, degli arrivi e dei ritorni, inizia qualche anno fa a Castiadas, nella regione del Sarrabus. "Mi sono sempre posta molti quesiti sulla mia condizione di isolana. Sin da quando, appena adolescente, mi recavo nella vicina spiaggia ad interrogare il mare, come si fa con un oracolo, ad implorarlo di ritirarsi e mostrarmi cosa ci fosse al di là del suo orizzonte impenetrabile, era già chiaro che la curiosità mi avrebbe portata lontana, ma che le mie radici sarebbero sempre rimaste ancorate a quella spiaggia, a quei paesaggi e a quelle genti che li popolano con fierezza".

    Il modo migliore per scoprire le proprie radici per la giovane Elisa, per amarle indistintamente, è proprio quello di perderle e doverle ritrovare. "Nel momento in cui lontani da casa si è privati della propria identità o, comunque, si entra in contatto con delle identità predominanti, nasce l’esigenza di proclamare la propria al mondo.  Ed ecco che oggi vivo in Canada, certamente in veste di cittadina con grande apertura verso tutto ciò che è sinonimo di multiculturalità e plurilinguismo, ma soprattutto ci vivo da sarda.  La mia isola la porto con me, sempre."

    Parlaci del tuo percorso di vita, Elisa. Il mio, un percorso come tanti: l’infanzia e l’adolescenza trascorsi a Castiadas, sino alla maturità scientifica conseguita a Muravera, e gli studi universitari proseguiti a Perugia. Il mio corso di laurea, in Scienze della Comunicazione, durava cinque anni, uno dei quali l’ho trascorso in Francia per perfezionare il francese, da sempre la mia lingua di studi. La prima volta Parigi, per via di uno scambio universitario tra la mia facoltà universitaria e il dipartimento di Scienze umane e sociali della Sorbonne, e la seconda volta, in veste di tirocinante presso l’Istituto italiano di cultura di Grenoble; esperienza quest’ultima che mi ha consentito di sviluppare le mie capacità di relazione con un vasto pubblico di utenti stranieri.

    Una novità assoluta per te, Elisa? Direi di no. Non era comunque la prima volta che mi confrontavo con un pubblico, poiché la mia famiglia da circa venticinque anni gestisce una piccola attività turistica proprio a Castiadas vicino al mare, dove tutti noi figli (cinque!) abbiamo sempre contribuito in modo diretto.

    In seguito, cosa è successo? "Dopo aver conseguito la laurea nel 2006, mi sono spostata a Roma con il progetto Master and Back, borsa di studio della Regione Sardegna che ha procurato gioie e dolori un po’ a tutti noi studenti vincitori. La gioia di ricevere dei finanziamenti per proseguire gli studi o per iniziare un percorso nel proprio campo d’interesse e, nel contempo, il dolore nel vedere i sogni infranti a contatto con le realtà lavorative sarde, totalmente incapaci per questioni endemiche di poterci accogliere in seno. A Roma ho seguito un master in Organizzazione di Eventi culturali, presso l’università della Sapienza e ho mosso i primi passi nel campo del mondo della cultura. Tutto il tirocinio del Master l’ho svolto al Teatro Eliseo, uno dei teatri più importanti in Italia e la cui la storia è nota. Dopo Roma, nuovamente la Sardegna per portare a termine il mio percorso (il famoso Back) ancora in un’impresa culturale, un teatro di Cagliari diretto da uno dei più importanti esponenti del teatro di prosa in Sardegna: Mario Faticoni."

    Il ritorno a casa è sempre una gioia. Ma sei ‘fuggita’ ancora. Perché? Un periodo molto importante in cui ho potuto riassaporare la felicità di vivere nell’isola, di godere dei suoi paesaggi, di stare a due passi dalla famiglia, dagli amici e dalle comodità. Tuttavia il senso di frustrazione rispetto alle condizioni lavorative precarie era sempre presente e così ho iniziato a pensare a nuove mete da percorrere.  Il Canada si è presentato casualmente nella mia vita. Una mia carissima cugina, con cui avevo condiviso i famosi turbamenti dell’adolescenza, si era trasferita a Montréal per motivi di lavoro. I suoi racconti, colmi di entusiasmo, mi hanno trasmesso la voglia di conoscere il paese da vicino. Sono arrivata in un freddo mese di ottobre di due anni fa. La temperatura era glaciale, una grande sfida da intraprendere per un’isolana abituata a temperature miti, anche in pieno inverno.

    Il Canada è ciò che di più lontano si può ipotizzare rispetto al clima mediterraneo di casa. Motivo per il quale i sardi emigrati in Canada non sono numerosissimi. Il primo periodo è stato di adattamento e di ricerca di un impiego. Sono arrivata con il progetto Vacance-travail quindi già in possesso di un working visa della durata di sei mesi, ma sei mesi non sono un tempo sufficiente per trovare un buon lavoro quindi, come tutti gli emigrati alle prime armi, mi sono buttata nel campo della ristorazione. Ho lavorato per qualche tempo in un panificio italiano, dove di italiano credo ci fosse solo il nome, ma questo lavoro mi ha consentito di sbarcare il lunario! Un pomeriggio, seduta in un bar del centro città, presa dallo sconforto delle difficoltà iniziali, ho digitato su Google ‘impiegata italiana cercasi Montréal’ ed è magicamente comparso un annuncio che corrispondeva appieno al mio profilo e alle mie esigenze di quel momento. Così ho trovato il lavoro che mi ha concesso di prolungare il mio statuto in Canada e che mi ha aperto delle porte verso altri impieghi. Quindi ora di cosa ti occupi? "Attualmente, lavoro a tempo pieno anche come insegnante di cultura e lingua italiana e ho iniziato il processo di selezione, del Governo del Canada, per l’ottenimento della carta da Residente Permanente. Un processo lungo, doloroso, per via della nostalgia che sempre attanaglia noi emigrati, e complesso. Recentemente ho fatto il mio ingresso nell’organico dell’Associazione dei Sardi del Québec, che si occupa di promuovere la Sardegna per mezzo di eventi culturali ed enogastronomici. Abbiamo creato un team molto affiatato che concepisce idee una di seguito all’altra e testimonio che c’è molta curiosità rispetto alla nostra isola, le sue tradizioni e i suoi costumi; personalmente non perdo mai occasione per parlarne o per divulgarne le bellezze!  Il mio percorso qui è ancora in divenire, una storia ancora tutta da scrivere che spero di poter condividere!"

    ELISABETTA ANTICO – ROMA

    (FRA EMOZIONI E STAR DEL CINEMA,

    È COSTUMISTA CHE LAVORA DIETRO LE QUINTE DI CINECITTÀ)

    (Ottobre 2016)

    Lei è una cagliaritana che una trentina di anni fa, dopo aver studiato, ha avviato il mestiere di costumista nel cinema. Opera su adattamenti di differenti epoche, a seconda del copione, principalmente a Cinecittà e vive a Roma. Ha lavorato per diversi film. Adesso ha riscosso un riconoscimento rilevante con la nomination per il premio di miglior costumista nel festival del cinema brasiliano. Compiacenze professionali, lavorative ma anche personali. Elisabetta Antico è nata a Cagliari, vive a Roma dai tempi dell’università, sposata con Massimo, fin da piccola ha avuto la passione per le stoffe, la maglia, i colori e i materiali. Passione che si è realizzata nell’adolescenza confezionando maglioni multicolori, vestiti, dipingendo tessuti, lavorando al macramè e facendo gioielli di cartapesta.

    "Dopo le superiori – racconta Elisabetta – ho preso un anno sabbatico nel quale ho lavorato come sarta di scena al Teatro lirico di Cagliari. Quella esperienza mi ha fatto capire quale era la mia strada. Quindi ho deciso di lasciare la Sardegna e mi sono iscritta alla Accademia di Costume e Moda di Roma. Già dal primo anno ho cominciato a lavorare in teatro – dice – con Giancarlo Nanni e Emanuela Kustermann, in seguito con Dario d’Ambrosi e Riccardo Reim per il quale firmai i costumi del ‘Poliziano’. Dopo un mese dalla fine dell’Accademia, Elisabetta Montaldo, che avevo conosciuto mesi prima in Sardegna, fece il mio nome per una collaborazione, come volontaria, per il film ‘Il Barone di Münchausen’ di Terry Gilliam, costumi di Gabriella Pescucci. Dopo questa esperienza iniziò un rapporto lavorativo con Elisabetta Montaldo, che durò diversi anni. Tra le belle esperienze che ricordo di quel periodo c’è il viaggio in Africa a girare ‘Tempo di uccidere’ di Giuliano Montaldo, con Nicholas Gage e Giancarlo Giannini, e l’allestimento delle opere ‘Turandot’ e ‘La Bohème’ all’Arena di Verona. Le lingue che ho studiato, il francese e l’inglese e poi lo spagnolo, mi hanno aiutato a lavorare con costumisti e produzioni straniere, sia a Roma che all’estero, con grande soddisfazione. Il mio primo film come capo reparto è stato ‘Stai con me’ di Livia Gianpalmo, con Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini e poi ‘Il più crudele dei giorni’ di Ferdinando Vicentini Orgnani, sceneggiatura del regista e di Marcello Fois, che racconta l’omicidio di Ilaria Alpi. Una storia vera, drammatica, che è stato doloroso e interessante ricostruire, girata, tra l’altro, in Nord Africa. Un’altra storia vera e drammatica, della quale ho firmato i costumi, è stata raccontata dal film ‘A Estrada 47’ (titolo brasiliano) che narra le avventure di una pattuglia di soldati brasiliani, nell’Appennino tosco-emiliano, durante la Seconda guerra mondiale. Per questo film sono finalista per i migliori costumi alla Accademia del cinema brasiliano. Negli anni ho collaborato con Francesca Sartori (costumista) per registi italiani e stranieri: Paolo Virzì, Mario Monicelli, Ermanno Olmi, Carlo Mazzacurati, Marco Tullio Giordana, Lee Tamahori. L’estate scorsa ho firmato, con Beatrice Giannini, i costumi del film di Giafranco Cabiddu, ‘La stoffa dei sogni’ un film poetico, fra il sogno e la realtà, il cinema e il teatro, girato in un luogo affascinante come l’isola della Maddalena. Purtroppo non ho potuto vederne la prima al cinema perché ero impegnata in Sud Africa, a Cape Town, dove sono stata, per sette mesi, a girare la quarta stagione della serie TV americana Black Sails. Ho lavorato per il remake di ‘Ben Hur’ di Timur Bekmambetov, che uscirà nelle sale a breve. Ho scritto ‘Fare costumi’ un manuale in due volumi per Dino Audino editore, sul mestiere del Costumista, con una collega, Paola Romoli Venturi. Il libro, che è alla seconda edizione, lo presentiamo in tutta Italia, raccontando con passione i diversi aspetti del nostro mestiere che, dopo oltre 25 anni di lavoro, non smette di stupirci e di entusiasmarci".

    PAOLA ANTONELLI – NEW YORK

    (ALLA GUIDA DEL MoMA,

    È TRA LE PERSONE PIù INFLUENTI A LIVELLO MONDIALE NEL SETTORE DELL’ARTE)

    (Luglio 2020)

    È nata in Sardegna ma ha trascorso la maggior parte della sua vita lontano dall’isola. Paola Antonelli è oggi valutata una delle persone più autorevoli a livello mondiale nel settore dell’arte. È la curatrice del Dipartimento di Architettura e Design e Direttrice della Ricerca e dello Sviluppo al Museum of Modern Art (MoMa) di New York. Sono nata a Sassari perché mio padre, chirurgo e professore universitario, esercitava in quella città. Quindi ho avuto il favorevole destino di nascere nell’Isola e di viverci per diversi anni. Poi ci siamo spostati a Ferrara prima e a Milano poi. Con la Sardegna però ho mantenuto un rapporto energico, peculiare. Ho studiato al Politecnico di Milano. Poi tutto è avvenuto sistematicamente, nel senso che ho avuto la sorte di avere genitori che mi hanno spinto a imparare le lingue, a viaggiare, che non mi hanno mai fermata quando intraprendevo avventure all’estero, come quando ho deciso di trapiantarmi a Los Angeles e poi a New York.

    Figlia come detto di un chirurgo e di un’anatomopatologa, dopo aver fantasticato di divenire astronauta, fisico nucleare, economista, si laurea in architettura ma percepisce in cuor suo di non aver la stoffa per la professione. Sceglie allora il giornalismo e l’insegnamento: negli Stati Uniti è docente all’UCLA University della California per tre anni e mezzo, e, dopo alcune sperimentazioni da freelance curator, diventa – trentenne e donna – curatrice del più importante museo di arte contemporanea al mondo, il MoMA. E da quel giorno sono trascorsi 26 anni. "Sono fortunata. Per quanto concerne New York, mi sono stabilita qui rispondendo a un annuncio sul giornale per questa posizione al MoMA. Lo sbarco negli States avvenne per amore. Gli anni di contratto alla UCLA e, di lì a poco, il primo incarico a New York, sono stati impegni che ho accettato rimboccandomi le mani: quanto a design era ferma alle realizzazioni in Das, ho creato il sito internet del Museo, assimilando per l’occasione l’HTML. La mia italianità, l’arte di arrangiarsi, mi hanno aiutato".

    Paola ricorda l’approccio esistenziale alla Grande Mela. Ero, come si dice negli Stati Uniti, ‘un cervo nelle luci della macchina’, come quando questi animali si bloccano nel mezzo della strada perché sono abbagliati e non sanno più cosa fare. È stato sufficientemente difficoltoso. Poi, appena mi hanno dato la prima mostra, mi sono messa a lavorare ed è tutto passato. Il vero trauma è stato trasferirmi a New York da Los Angeles, perché è un modo di vivere totalmente differente. Adesso sono molto contenta e fiera di essere qui: quando ti concretizzi a New York lo vedono tutti, è una piattaforma globale unica.

    La funzione di direttore del dipartimento di Ricerca e Sviluppo del MoMA richiede una responsabilità costante nel comprendere i criteri più efficienti per arrivare al pubblico. Credo fermamente che i musei agiscano come un’agopuntura culturale per la società. Cerco di riflettere sul contesto in cui la vita si srotola, con le laboriosità, le tensioni e le pressioni. E in quest’ottica ampia ponderare i musei unicamente come luoghi dove andare a vedere arte è parecchio riduttivo.

    Ha curato mostre, oltre che negli Stati Uniti, in Giappone, Francia e Italia. Collabora con riviste specializzate ed è autrice di numerose pubblicazioni. Il dialogo con l’Italia è rilevante, in particolare con Milano. Certa che sia ancora la capitale mondiale del design, Paola afferma che alla design week si potrebbe fare molto di più, spostando le attenzioni dal mobile al design in generale. Certo, non se ne occuperà lei: abdicare al MoMA è impensabile. Tutte le proposte che ho ricevuto, non solo dall’Italia, non mi garantivano la visibilità e il potere che ho qui a New York. Al MoMa se alzo il telefono raggiungo chiunque, sempre. È il posto di lavoro ideale.

    Però le opportunità di collaborare non mancano. L’ultima è stata addirittura l’impegno per la XXII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano nel 2019.

    Paola Antonelli, "She", intelligente, intuitiva, tagliente, personalità autorevole, da sempre promulga il design come materia universale e filosofica al servizio della società, sostenendone la funzione di catalizzatore di cambiamento nel mondo, connessione tra pensiero e vita. È una rivoluzione garbata e ostinata la sua, che svolge attraverso la didattica, l’attività divulgativa in congressi internazionali e design week, le visite alle scuole e negli studi. Per lei ‘il design è tutto e ovunque’: nella politica, nella tecnologia, nella genetica, come nella digitalizzazione. Ama innalzare ponti tra i saperi, che riassume in costrutti potenti, contro ogni preconcetto. Nel mentre si dedica alla ricerca, all’ascolto e alla difesa dei valori in cui crede.

    Sulla tanto dibattuta ‘fuga dei cervelli’ dall’Italia ha un’idea chiara: "L’Italia è ancora al top, almeno per quanto riguarda il settore design. Finiamola con la storia che i talenti italiani scappano tutti e soprattutto ricordiamoci che i marchi italiani attirano, oggi come in passato, designer da tutto il mondo".

    E la professoressa menziona con piacere i suoi esordi: Non è facile affiorare, talmente tante sono le sfide che devi affrontare. Ci sono così tanti festival e fiere in giro per il mondo che alla fine diviene arduo farsi notare. Ma proprio questo è uno dei lati che amo di più del mio lavoro: le numerose chances che dona a chi è capace e voglioso di mettersi in luce.

    Un’analisi è sul differente modo d’approcciarsi al lavoro negli Stati Uniti rispetto all’Italia. In America l’organizzazione è molto impostata, raramente ci sono intoppi, c’è limpidezza e credibilità nelle informazioni che vengono fornite. Questa è una forza degli americani ma anche una loro debolezza perché a volte c’è necessità della ‘fluidità’, della capacità tutta italiana di far funzionare comunque le cose. Di diversità così ce ne sono molte e posso dire di essere felice a poter esercitare in ambedue le realtà.

    A chi le domanda della Sardegna, Paola con orgoglio ribatte di appartenere a quella terra. Quando sono nell’isola sto bene come in pochi altri posti e devo dire che ho preso le decisioni più importanti della mia vita sugli scogli sardi. La scelta che mi ha cambiato la vita, quella di lasciare gli studi di Economia per passare ad Architettura, l’ho fatta mentre mi trovavo a Isola Rossa. Che dire? Quando sono nel mare della Sardegna mi pare di essere nel mio brodo primordiale. Sono soddisfatta come non mi succede spesso altrove!.

    VERONICA APPEDDU – BERLINO

    (UNA VOCE DALLA BARBAGIA AL CUORE DELL’EUROPA:

    UN MEZZOSOPRANO SPECIALIZZATO IN MUSICAL)

    (Novembre 2018)

    Si denuncia sempre la ‘fuga dei cervelli’ all’estero. Ma alle voci, chi ha pensato? Anche nel teatro musicale ci sono talenti che intraprendono la carriera in Italia per ‘esplodere’ poi all’estero. Perché? Lì si è più preparati a offrire opportunità agli artisti emergenti? Veronica Appeddu, originaria di Nuoro, è una cantante ed interprete di Musical. Nel 2012 si diploma presso la Bernstein School of Musical Theatre di Bologna, sotto la direzione di Shawna Farrell. Nello stesso anno viene scelta per il ruolo di Eponine nella produzione del musical Les Misérables al teatro comunale di Bologna e con la sua interpretazione ottiene un Italian Musical Award come miglior attrice in un Musical. Viene scelta come Bianca nella serie televisiva argentina ‘Señales del fin del Mundo’, in Italia conosciuta come ‘Cata e i misteri della sfera’. Nel 2014 ricopre il ruolo della protagonista Jenny in ‘Love Story’ e successivamente quello di Maria Roberta nella produzione italiana di Sister Act. Nel 2016 debutta in Germania come protagonista del musical cult ‘Tanz der Vampire’, basato sul film di Polanski ‘Per favore non mordermi sul collo’. Nel 2017 ha interpretato il ruolo di Maria in ‘West Side Story’ al teatro Carlo Felice di Genova. L’anno successivo, in Svizzera, è Olivia nel musical ‘Matterhorn’, sotto la direzione di Shekhar Kapur.

    È ora a Berlino, dove vive e lavora da circa un anno, colma dell’energia imprigionata nella sua Nuoro, e reduce da uno spettacolo all’auditorium dell’ISRE che ha fatto il pienone. Applausi a scena aperta per lei e il suo partner del musical che li ha visti protagonisti. Per alcuni, è stato un brivido di emozione, per tutti gli altri una piacevole scoperta di un talento ‘made in Nuoro’ ancora da rincorrere. Veronica Appeddu, 28 anni, è una bella ragazza che da piccola fantasticava ad occhi aperti di entrare nel mondo dello spettacolo e, ora che in quel mondo vive da ben sei anni, non può che ringraziare i genitori che l’hanno sorretta in questo percorso non semplice. La stoffa c’è e si vede, e l’affetto dei nuoresi dopo lo spettacolo non è di sicuro arrivato per caso.

    Viso mediterraneo, fisico minuto ma equilibrato, ha lo sguardo dolce ma deciso di chi sa cosa vuole e come prenderselo. Senza tuttavia sgomitare. Voce senza alcuna cadenza, frutto dei corsi di dizione, si definisce "cantante, attrice e ballerina", con una predilezione per il genere musical, che la vede negli ultimi anni protagonista di diversi spettacoli in giro per l’Europa. Racconta: "Avevo capito che volevo fare l’attrice e cantante già da presto. A 13 anni sentivo già che questa sarebbe stata la mia strada. I miei genitori, che sono molto appassionati di musica, mi portavano sempre ai concerti e poi mio padre almeno una volta al mese mi accompagnava al negozio di musica Brillantina per acquistare un cd. E poi mi hanno sempre incoraggiata."

    Liceo classico a Nuoro poi via fino a Bologna per frequentare un’importante accademia privata (BSMT, Bernstein School of Musical Theatre) dove si è formata. L’ho frequentata dai 19 ai 22 anni ed è stata un’ottima scelta. Poi è iniziato il mio percorso sul campo. Tante audizioni e i primi spettacoli soprattutto nel musical, che è davvero il genere che preferisco, racconta l’artista con l’estensione da mezzo soprano. Lavoro per un teatro in Svizzera, vicino a San Gallo, ogni weekend c’è il mio spettacolo in cartellone e ci arrivo da Berlino. Una città molto bella e ricca di vita e occasioni per chi fa il mio lavoro.

    Così, dopo aver vissuto prima a Bologna, Milano e Roma dal 2016 è approdata in Germania. Appena può torna nella sua città con un atteggiamento positivo per farsi cullare dall’affetto della famiglia allargata e godere di una natura unica che si porta sempre nel cuore nei suoi viaggi di lavoro. Vengo soprattutto d’estate per una o due settimane. Più tempo sto fuori e più mi piace e apprezzo tornare a casa, rimarca Veronica Appeddu, crescendo apprezzo sempre di più la mia terra. Penso che siamo fortunati.

    Se sarà famosa ancora non lo sa, ma non se ne fa un cruccio. Piedi ben saldi per terra e realismo sono le altre carte vincenti da esibire con sicurezza. I sogni? Sì, alcuni ci sono. Ma è già tanto se riesco a vivere con il lavoro che mi piace. Le cose arrivano perché devono arrivare. Io intanto faccio del mio meglio: mi tengo in forma e mi preparo. Poi a volte per trovare la carica torno a casa almeno con la melodia e le armonie che abbiamo dentro. Per esempio la poesia e la bellezza di ‘No potho reposare’, la sento anche sul cielo sopra Berlino.

    MARIA ARCA – SANTA CRUZ DE LA SIERRA

    (IN BOLIVIA, AL CENTRO DEL SUD AMERICA,

    DOVE LA POVERTÀ È DIFFICILE DA SPIEGARE)

    (Gennaio 2014)

    Avevo 12 anni la prima volta che ho sentito parlare di Missione, seduta in una sala della casa dei Missionari Saveriani a Macomer. Padre Sergio raccontava a noi, piccole e adolescenti, i suoi anni in Brasile e io lo ascoltavo incuriosita, guardando le sue diapositive, incantata. Avevo 12 anni e tornata a casa, ho detto ai miei genitori: ‘A 18 anni parto!’.

    Adesso che di anni ne ha 24, Maria Arca vive a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia. È qui che mi ha portato quello sguardo di curiosità verso un mondo che mi sembrava così lontano, è qui che da più di 4 mesi presto il mio servizio di volontariato internazionale. Passando per le esperienze estive nella Repubblica Democratica del Congo e in Sierra Leone, da Macomer a Torino per conseguire la laurea in cooperazione allo sviluppo, dalla casa dei Missionari Saveriani all’Oratorio Salesiano in zona San Paolo a Torino, Maria ha sempre pensato di aiutare il prossimo. A Santa Cruz, il Progetto Don Bosco, nato grazie a Padre Ottaviano Sabbadin, salesiano 74enne e missionario prima in Ecuador e da 20 anni in Bolivia, è formato da 7 case, di cui il cuore è l’Hogar Don Bosco, un istituto per bambini e adolescenti, tra i 6 e i 18 anni, con problemi familiari; esso accoglie più di 180 ragazzi e offre loro alimentazione, assistenza medica, sostegno scolastico e studio. Il gruppo nel quale sto prestando servizio è un po’ particolare: si tratta della classe dei minori con ritardo mentale o scolare; il mio compito è quello di appoggiare Roxana, educatrice esperta, che, da anni, lavora in Hogar. I ragazzi hanno dai 12 ai 17 anni e lavorare con una fascia di età così larga e con problematiche differenti non è sempre facile.

    Il primo ostacolo che ha incontrato Maria è stata la lingua. Diciamo che potrebbe essere vera la frase ‘Il sardo è molto simile allo spagnolo’, ma dipende sempre da chi parla: gli abitanti di Santa Cruz hanno una parlata molto stretta e svelta, utilizzano tantissime parole che non sono proprie del castigliano e, ancor più, lavorando con i giovani, saltano fuori mille modi di dire, che anche gli adulti faticano a comprendere.

    E poi la cultura. "Mi sono scontrata con una cultura differente, in cui la figura maschile prevale su quella femminile; ciò lo riscontro non solo nella vita quotidiana, in città, ma anche nel rapporto con i ragazzi che non si permetterebbero mai di insultare un educatore, ma non hanno nessun problema a farlo con una educatrice, ancor più se giovane, volontaria e straniera. Tutto questo fa parte di una situazione sociale che colpisce in particolar modo i poveri della città, cresciuta a dismisura negli ultimi 40 anni."

    È difficile spiegare la povertà con cui Maria ha a che fare quotidianamente. "Non è la povertà che siamo abituati a vedere nelle pubblicità progresso che ci mostrano il video del bambino africano, scalzo e con la pancia gonfia. Quello che vedo è una povertà di valori in una città in continuo sviluppo economico, dove si apre sempre più il divario tra ricchi e poveri. Scorgo la povertà in una madre che lascia il bambino in Hogar perché non ha la disponibilità economica per farlo mangiare e studiare, così come la vedo in quella madre che decide di abbandonare suo figlio dimenticandosi di lui. Sono povertà differenti e la seconda mi fa arrabbiare, ma mi spiazza anche, perché non so come affrontarla, perché mi mette in discussione come persona e ancor di più come donna. Più di una volta mi son chiesta cosa posso fare per questi bambini che hanno alle spalle un passato problematico e non riescono a sognare un futuro. Riesco a darmi poche risposte, ma credo che in ogni parte del mondo l’essenziale risieda nella semplicità! Ancor più credo nella veridicità di questo concetto se penso a Darwin, 14 anni: abbiamo deciso di premiarlo perché per tutto il mese di giugno si è comportato bene; ha quindi avuto la possibilità di scegliere un premio. Alla mia domanda su cosa desiderasse mi sono sentita rispondere ‘un kiwi, perché non ne ho mai mangiato uno!’"

    Si commuove Maria pensando al ricordo del suo grande sguardo mentre assaporava quel frutto, che aveva sempre visto ma che non poteva comprare perché troppo costoso per lui e ancor più per l’Hogar che serve pasti a tutti i 180 ragazzi ogni giorno. Quando mi chiedono cosa faccio, un po’ mi sento in imbarazzo perché in realtà non faccio niente di particolare, niente che non avrei potuto fare a Macomer o a Torino, semplicemente vivo problematiche diverse, in una cultura diversa, facendo tanta fatica, ma anche prendendomi tutti gli attimi di gioia che questi bambini e ragazzi vivono e mi regalano! Da parte mia penso di dar poco e di ricevere tanto, nel bene e nel male, in una discussione e in un abbraccio perché non si tratta di fare, ma di stare, conoscere, vivere e condividere. Darwin mi ha regalato il suo attimo di gioia e io lo conserverò, perché anche quel momento è entrato a far parte di quel bagaglio di esperienze che riempiono la mia vita e la fanno così bella e sorprendente. Ciò che desidero per questi ragazzi è che imparino a sognare, per poter arrivare a fare di un sogno il loro progetto, per poter arrivare, una volta grandi, a vivere quel desiderio pensato da adolescenti, proprio come lo sto vivendo io. Per poter arrivare a dire, nonostante le fatiche e le difficoltà: ‘Sono felice!’ .

    MAURA ARDU – NEW YORK

    (È MANAGER PER UNA SOCIETÀ ITALIANA DI GIOIELLI

    E VINCE IL PREMIO MISS CHEF 2018)

    (Novembre 2018)

    Maura Ardu, chef-manager di origine sarda, trapiantata da oltre dieci anni nella Grande Mela, è la vincitrice della quinta edizione USA di MISS CHEF® New York 2018, la kermesse internazionale che si è svolta nel ristorante di Manhattan, ‘Norma’. È la prima competizione tra alcune delle migliori Chef Donne italiane ed estere con la proposizione, tutta in rosa, dei più rinomati menù della tradizione culinaria italiana e non, tra ieri ed oggi, valorizzando le eccellenze eno-gastronomiche di nicchia. Il Premio è stato ideato da Mariangela Petruzzelli, giornalista e autrice tv anche per la Rai, direttrice artistica e producer del format. La prima e la seconda edizione del Premio si sono svolte ad Ischia nel 2012 e nel 2013. Nel 2014, MISS CHEF è diventato itinerante toccando varie regioni e territori italiani per giungere fino a New York, nel periodo del Columbus Day, realizzando la sua prima tappa internazionale, oggi giunta alla quinta edizione. Maura Ardu ha vinto il titolo di Miss Chef NY 2018, realizzando un rinomato secondo piatto a base di pesce spada su letto di caponatina, mettendo d’accordo, a pieni voti, le due giurie del premio. Maura nella vita fa la manager a New York per una società italiana di gioielli ma, allo stesso tempo, ama cucinare per gli amici nel suo appartamento di Wall Street che lei ha ribattezzato Casa Italia. Sono molto contenta ed onorata di aver vinto questo titolo, contenta soprattutto perché sono riuscita ad elaborare un piatto semplice ma ricco di sapori e ricordi del nostro Sud Italia.  Sono anche riuscita a comunicare con un bite tutta la mia passione per la cucina, che è conoscenza culturale territoriale e ricercatezza delle eccellenze gastronomiche. Ho origini sardo-calabro-piemontesi ed aver gareggiato con un piatto siciliano è stata una sfida ben accetta e superata con orgoglio! ha detto Maura. "Spadellare – continua Maura – è un ottimo antistress per me, perché no? A essere sincera mi piacerebbe fare la private Chef, ma ho un lavoro altrettanto bello che mi porta al contatto con la gente. È solo la mia unica passione, non cucino per sfamare nessuno, cucino per condividere sensazioni, cucino per comunicare tradizioni, cucino per sedurre, cucino per essere ricordata. A Casa Italia non ci sono clienti, tutti amici, tanti amici, adorano tutto ciò che cucino per loro, mi adorano ed io adoro loro. Cucino di tutto, dai piatti regionali piemontesi a quelli più mediterranei: pasta fresca fatta da me inclusa pasta ripiena, risotti, zuppe, brasati, stufati mentre in estate adoro il BBQ".

    Protagoniste della gara, sia in Italia che all’estero, sono chef donne professioniste, selezionate per curriculum professionale e meriti. Le Miss Chef in competizione, per ogni tappa territoriale, sono quattro e devono cimentarsi nella realizzazione di un piatto seguendo il Regolamento del Premio. La gara consiste in uno show-cooking seguito dalla degustazione dei piatti, presentati al cospetto di due giurie: una Giuria Tecnica e una Giuria Istituzionale. La somma dei voti delle due Giurie elegge la Miss Chef. Le altre chef in gara a New York sono state: Stefania Calabrese, Sena Yaras ed Elda Buonanno Foley, selezionate sulla base delle loro esperienze; come Maura, anche loro hanno preparato un piatto tipico che ciascuna ha interpretato in maniera originale. "Un bilancio molto positivo per questa quinta edizione che stavolta ha premiato Donne Chef estrose e ricercate facendo trionfare la Cultura e l’Ars della cucina tradizionale siciliana nell’innovazione. Stiamo crescendo e stiamo dando al Premio un respiro sempre più internazionale estendendo il format anche ad altre cucine estere e non solo a quella italiana – dice la fondatrice di Miss Chef Mariangela Petruzzelli –. L’idea di MISS CHEF nasce dopo aver intervistato, durante la mia carriera di giornalista, molti chef uomini che legavano il segreto del proprio successo alle ricette delle loro mamme e delle loro nonne. Visto il mio impegno e interesse per le storie delle Donne, sia dal punto di vista sociale che imprenditoriale, ho pensato che bisognava raccontare il mondo delle Donne Chef professioniste in un settore, quello della cucina appunto, ancora troppo appartenente agli uomini".

    Presidente della giuria tecnica di questa quinta edizione newyorchese è stata la Chef internazionale Paola Aranci, che ha dichiarato: "La passione per la cucina è qualcosa che coltivo fin da bambina. Essere donna e scegliere questa professione mi è costato impegno e sacrificio. Il mio sogno oggi si è realizzato e i successi legati alla mia carriera professionale sono motivo di soddisfazione personale e di orgoglio italiano".

    La gara di questa quinta edizione americana si è svolta da ‘Norma - Gastronomia siciliana’, accogliente ristorante dello chef e proprietario trapanese Salvatore Fraterrigo, che valorizza e promuove la cultura della cucina siciliana, con piatti come il couscous alla trapanese, le arancine, la caponata. "È stato un vero piacere ospitare Miss Chef nel mio ristorante – dice Salvatore Fraterrigo –. Sono legato alla cucina delle donne,

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