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Torino capitale
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E-book938 pagine11 ore

Torino capitale

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Dal 1861 al 2011: centocinquanta anni di primati per la prima capitale d’Italia

Una storia lunga più di duemila anni, quella di Torino: capitale di un ducato, poi di un regno e, infine, prima capitale d’Italia. Sede di antichi palazzi che hanno ospitato il Parlamento o che hanno visto nascere i protagonisti e i sovrani del Risorgimento. Nel corso della sua lunga esistenza la città è sempre stata protagonista nell’arte e nella cultura, basti pensare al prestigioso Museo Egizio, all’Accademia delle Scienze o alla moderna editoria. Ma anche nel cinema, nella moda, nella religiosità sociale come nello sport. All’avanguardia nelle scienze e nella tecnica, è la patria del made in Italy automobilistico. Il capoluogo piemontese ha assistito alla nascita di progetti importanti, di idee innovative e invenzioni che si sono diffuse in tutto il mondo. Claudia Bocca, raffinata studiosa della realtà locale, intende celebrare l’eccellenza e i successi della sua Torino. Un atto dovuto che restituisce alla città il ruolo di avanguardia nazionale e internazionale che le spetta, un’immagine di “capitale”, non certo politica ma culturale e sociale.

Claudia Bocca

è nata a Torino nel 1961. Docente di materie letterarie, da anni si occupa di tematiche relative alla storia e alla lingua del territorio piemontese. Giornalista e saggista, ha pubblicato articoli e oltre una ventina di saggi, anche con altri autori. Per la Newton Compton ha scritto tra l’altro I Savoia, Proverbi e dizionario piemontesi, Gli assedi di Torino, I personaggi che hanno fatto grande Torino, Torino capitale.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854129030
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    Anteprima del libro

    Torino capitale - Claudia Bocca

    Storia di una capitale

    Frontespizio dell’opera Augusta Taurinorum di Filiberto Pingone.

    Torino capitale di un ducato

    Forse l’ingresso ufficiale di Torino nella Storia potrebbe essere considerato il 218 a.C., quando Annibale, disceso dalle Alpi, assedia e conquista dopo tre giorni la città dei Taurini. Quelli che Plinio il Vecchio definisce «di antica stirpe ligure» e Appiano gli abitanti di Taurasia, «città celtica», erano sicuramente una tribù indigena di ascendenza ligure, poi celtizzata, tipico esempio della profonda e progressiva assimilazione che si stabilì tra i due popoli nel territorio subalpino. Sappiamo che i Taurini erano insediati tra il Po, la Dora Riparia e le colline torinesi, ma la loro città, Taurasia, con buona probabilità non sorgeva alla confluenza tra il Po e la Dora, dove la tradizione ha visto una continuità di insediamento con quella che sarà la colonia romana. Bisogna infatti considerare i rischi di inondazione e le difficoltà di difesa di un simile sito, che portano ad ipotizzare un’altra soluzione. Questi popoli preferirono una serie di piccoli insediamenti a carattere difensivo, che fecero del territorio, secondo la definizione di Polibio, un «paese senza città». Quindi Taurasia, come gli altri centri principali, doveva essere suddivisa in varie cellule abitative, anche non contigue, disposte preferibilmente a mezza costa o su alture facili da difendere. Scoperte archeologiche degli ultimi decenni sulla collina torinese, in molteplici siti hanno messo in luce copioso materiale che confermerebbe l’esistenza di una rete di nuclei di insediamento, nei pressi delle sorgenti, abitati e difesi da quei Taurini che, proprio grazie alla favorevole posizione, riuscirono a resistere all’esercito annibalico.

    Solo dal II secolo a.C. Roma incominciò ad interessarsi dell’Italia del Nord, con una serie di conquiste e di guerre che miravano ad uno stabile controllo dei valichi alpini. Dopo una prima fase di scontri e alleanze con i popoli subalpini, si ebbe un consolidamento delle conquiste con fondazione capillare di città e la creazione di una efficiente rete viaria. In tale contesto venne fondata, alla confluenza tra il Po e la Dora Riparia, la colonia di Julia Taurinorum, ascritta alla tribù Stellatina con la Lex Julia Municipalis nel 45 a.C. Con buona probabilità l’insediamento, che in un primo momento godette dello status di municipium, nel 27 a.C. venne dedotto in colonia, assumendo il nome di Julia Augusta Taurinorum.

    La città romana, con perimetro quadrangolare di circa tre chilometri e l’angolo a nord-est smussato, presentava una cinta muraria costruita in calce e ciottoli, con scansioni a doppia fila di mattoni; allo sbocco dei cardines e dei decumani si trovava una trentina di torri poligonali e l’ingresso avveniva attraverso quattro porte principali. Lungo il perimetro interno, la via singularis, uno spazio libero, era destinata ai movimenti delle truppe. Resta ancora oggi a caratterizzare il centro storico torinese la struttura ortogonale delle vie del castrum, elemento tipico e affascinante della città. Ad ogni incrocio, vie rettilinee e regolari, ariose, che presentano al loro sbocco l’impagabile vista delle vette alpine e della verde collina.

    Tra le porte monumentali abbiamo ancora quella detta Porta Palatina, allo sbocco del cardo maximus sulle mura settentrionali, anche se l’aspetto attuale è il risultato di vari utilizzi nel tempo e di una serie di restauri non sempre fedeli alla struttura originaria. All’interno dell’attuale Palazzo Madama vi sono i resti della Porta Decumana, mentre sono scomparse la porta meridionale, detta Marmorea, che sorgeva all’incrocio delle attuali vie San Tommaso e Santa Teresa, e la Porta Segusina, la Porta Praetoria aperta verso la via delle Gallie. Dovevano esserci 72 insulae, lungo strade pavimentate in gneiss della Valle di Susa sotto cui correvano gli scarichi fognari e le tubature idriche. Il forum principale poteva essere situato nelle aree oggi occupate dalle piazze Palazzo di Città e Corpus Domini mentre il teatro, a ridosso delle mura, oggi è il cuore della rinnovata area archeologica. In città esistevano inoltre numerosi templi, luoghi di culto e impianti termali, mentre sono state ritrovate varie necropoli al di fuori del nucleo cittadino principale. Intorno al I secolo a.C. Augusta Taurinorum doveva avere circa cinquemila abitanti.

    La città si ritrova nelle fonti storiografiche in riferimento alla guerra civile tra Otone e Vitellio nel 69 d.C. e nel 312, quando vi si rifugiarono le truppe di Massenzio, battuto da Costantino. Sappiamo inoltre che la Chiesa sostituì gradualmente l’autorità e l’organizzazione statale, colpita dalla crisi delle istituzioni imperiali. La diocesi torinese si costituì tra il 371 e il 397 e vi emerge la figura del vescovo san Massimo, di cui ci restano numerosi ed efficaci Sermoni. Nel 398 a Torino si tenne un sinodo con una settantina di vescovi della Gallia e del Nord Italia, per discutere questioni complesse che riguardavano in particolare le diocesi al di là delle Alpi, da Arles a Treviri, segno dell’importanza di una sede vescovile che col tempo si sarebbe ulteriormente estesa, di fatto sproporzionata al piccolo borgo che era allora la città.

    In Torino giunsero numerosi barbari tra V e VI secolo; la città fu devastata dai borgognoni, poi passò sotto il controllo degli Ostrogoti e dal 569 divenne sede di un ducato longobardo. Furono anni di congiure e ribellioni, come testimonia Paolo Diacono, che racconta dell’assassinio del duca di Torino Garibaldo il giorno di Pasqua presso il fonte battesimale in San Giovanni Battista, eretta come cattedrale, ma in forme diverse dalle attuali, proprio in quel periodo. Tre duchi torinesi – Agilulfo, Arioaldo e Ragimperto – diventarono re Longobardi a Pavia. Al regno dei Longobardi, sconfitti nella celebre battaglia delle chiuse valsusine da Carlo Magno nel 773, si sostituì il Sacro Romano Impero. Torino ridusse la sua popolazione e si presentava all’interno del perimetro romano, ma con abitazioni in legno, spesso preda di incendi.

    Con le guerre relative al controllo imperiale e poi interne al Regno d’Italia, la città passò a vari signori locali, quindi a Ugo di Provenza, per entrare a far parte del regno di Arduino Glabrione. Dal 904 in Piemonte erano iniziate le scorrerie saracene, bloccate proprio grazie all’attacco definitivo del marchese di Torino. Dopo il figlio Manfredi e il nipote Olderico, la marca torinese giunse nelle mani della nota figura della marchesa Adelaide; con il suo terzo matrimonio con Oddone di Savoia, unì i suoi possedimenti a quelli sabaudi, che comprendevano territori sui due versanti alpini e la contea di Aosta. Suocera del terribile Enrico IV, gli favorì il percorso verso il noto incontro di Canossa. Scomparsi i figli prima di lei, alla morte di Adelaide, nel 1091, la contea di Savoia passò al nipote, Umberto II, mentre la marca di Torino divenne oggetto di scontro tra gli eredi.

    Incisione di Tasnière su disegno di Domenico Piola tratta dalla celebre opera di Emanuele Tesauro, Historia dell’Augusta Città di Torino, Torino 1679.

    Ne risultò favorito il potere del vescovo, feudatario imperiale. Si sa che nel 1147 Torino era retta da consoli, comune sorto in ritardo rispetto ad altri. Emergeva la ricca famiglia dei Beccuti; la loro abitazione, i cui resti sono emersi solo una decina di anni fa, vantava la torre più alta della città. Il primo ponte sul Po all’interno della città si ebbe solo nel 1190: prima ci si serviva di traghetti o del ponte di Testona sulla strada per l’Astigiano e il mare. Nelle lotte tra papato e impero, Torino si schierò con l’imperatore, ma non riuscì ad emergere come entità solida. Il controllo della città passò in varie riprese ai Savoia, agli astigiani e a Guglielmo di Monferrato, che fece costruire attorno a quella che era diventata Porta Fibellona un castello, poi modificato da Ludovico di Savoia Acaja: la struttura medievale di Palazzo Madama. Lo stesso Ludovico fondò l’università torinese, che dopo un inizio difficile si affermò per il prestigio dei suoi docenti e in cui nel 1505 ottenne la laurea Erasmo da Rotterdam. Importante documento della vita torinese nell’età comunale sono i Sermoni Subalpini, una raccolta di sermoni in lingua gallo-italica che contengono già termini schiettamente dialettali.

    Nel 1381 Torino rientrò nella Storia ad opera di Amedeo VI di Savoia, il celebre Conte Verde, che convocò in città i rappresentanti di Genova e Venezia per porre fine alle contese tra le due Repubbliche marinare. Lo stesso conte aveva deciso che gli statuti che regolavano la vita della città (dalla gestione dei 12 ospedali cittadini allo smaltimento dei rifiuti), fossero di libera consultazione pubblica. In quegli anni Torino aveva riempito tutto lo spazio all’interno delle mura romane, compreso quello di alcune vie e il tratto lungo le mura. Al di là esistevano non solo campi coltivati, ma anche chiese, ospedali e borghi extraurbani. Tra le poche ma significative testimonianze dell’età medievale troviamo la chiesa di impronta gotica di San Domenico, con splendidi affreschi trecenteschi, il già citato corpo centrale di Palazzo Madama e parti di edifici in via IV marzo, via Tasso e via dei Mercanti. Verso la fine del XV secolo registriamo la costruzione, per volontà del cardinale Domenico Della Rovere, della nuova cattedrale, dedicata a San Giovanni Battista, nelle forme attuali, a tre navate e con semplice facciata in marmo di Foresto, su progetto di Amedeo di Francisco da Settignano, detto Meo del Caprino; sugli stipiti, si notano rami di quercia, simboli dei Della Rovere.

    Il 6 giugno 1453 secondo la tradizione avvenne il notissimo miracolo del Corpus Domini: un mulo, carico del bottino di un furto sacrilego compiuto ad Exilles, stramazzò al suolo tra le bestemmie del conducente. Dalla soma si levò un ostensorio con il Santissimo Sacramento, che scese solo tra le mani del vescovo, accorso alle invocazioni della folla; sul luogo, verrà eletta la bella chiesa barocca del Corpus Domini.

    Ritratto di Amedeo VI, il Conte Verde. Incisione di P. Giffart da disegno di F.I.D. Lange.

    Il XV secolo e la prima metà del successivo videro Torino coinvolta dalle crisi interne della famiglia sabauda, tra cui i dissidi tra savoiardi e piemontesi e la difficile reggenza di Bianca di Monferrato. Dopo la morte, piena di misteri, di Amedeo VII, il Conte Rosso, Amedeo VIII riuscì a controllare il marchesato di Saluzzo e, dopo la fine del ramo d’Acaja, poté nominare suo figlio principe di Piemonte, titolo che fino ai nostri giorni indicherà gli eredi al trono della casata. Mentre il sedicente storico Jean d’Orreville analizzava la genealogia sabauda, rintracciandone il capostipite in tale Umberto Biancamano, Amedeo VIII il 9 febbraio 1416 fu investito dall’imperatore Sigismondo della dignità ducale ed elaborò i minuziosi Statuta Sabaudiae, con indicazioni precise e moderne sull’amministrazione della giustizia, ma anche una serie di interessanti note che potremmo definire di costume. Lo stesso duca si ritirò nell’eremo di Ripaille, ma poi venne eletto dal concilio di Basilea antipapa, con il nome di Felice V. La sua sottomissione al papa Nicolò V, dopo essere stato colpito da scomunica, pose fine allo Scisma d’Occidente. Intanto ad Anna di Lusignano, moglie del nuovo duca Ludovico, Margherita di Charny aveva ceduto la preziosa reliquia della Sindone, che da allora fu legata a casa Savoia. Altri elementi di profonda crisi per Torino agli inizi del XVI secolo furono inoltre frequenti pestilenze e la presenza dei francesi, che di fatto controllarono la città fino al 1559.

    Con il trionfale ingresso in città di Emanuele Filiberto di Savoia e della duchessa Margherita di Valois, avvenuto il 7 febbraio 1563, si registra la svolta essenziale che mutò il destino di Torino. Infatti il vincitore di San Quintino, dopo la pace di Cateau-Cambrésis del 1559, tornato in possesso delle terre dei suoi avi, fu costretto a spostare al di qua delle Alpi il centro degli interessi sabaudi. La scelta di trasferire la capitale da Chambéry a Torino, orientò in modo completamente diverso il futuro della città e della stessa dinastia. A Torino tornò l’università, che aveva già avuto insegnanti ed allievi di grande prestigio, come l’umanista Erasmo da Rotterdam, mentre nel 1561 l’italiano diventava lingua ufficiale del ducato, anche se le lingue parlate, presso la corte come presso il popolino, rimarranno per secoli il piemontese e il francese.

    La città come abbiamo visto non era sostanzialmente mutata, per lo meno nel suo perimetro e nella struttura ortogonale, rispetto al castrum romano, ma divenuta capitale di un ducato dovette adeguarsi a nuove esigenze. Si trattava di una città con meno di 20.000 abitanti, in un’area di circa 700 metri di lato: una città senza pretese né economiche né territoriali, ma posta in una situazione geografica favorevole e strategica. Con l’impronta del suo duca divenne soprattutto più forte, evidenziando nel carattere militare l’indirizzo della politica sabauda. Nell’angolo sud-ovest, quello naturalmente più debole perché volto alla pianura, sorse la Cittadella, fortezza che rispondeva alle più moderne tecniche difensive e per la quale l’architetto Paciotto si ispirò alle roccheforti più moderne, mentre il grande pozzo a rampe elicoidali del cortile centrale, il cisternone, riprendeva il noto pozzo di San Patrizio di Orvieto del Sangallo. Mentre iniziavano gli scavi dell’intricata rete di percorsi sotterranei di contromina, venne opportunamente rinforzata la cinta muraria; ma Emanuele Filiberto, con una strategia ben precisa, tracciò anche un piano di acquisti e modifiche di proprietà lungo le direttrici che si dipartivano dal centro cittadino, quella che diventerà con i suoi successori la nota Corona di delizie dei Savoia, tutt’altro che casuale nei suoi capisaldi. Torino era arrivata allora a circa 30.000 persone, ma per volere del duca si badò a ristrutturare più che a costruire e furono privilegiate le opere difensive, mentre vennero sospese le altre opere edilizie cittadine.

    La duplice incoronazione di Amedeo VIII di Savoia come duca e come papa. Disegno di E.F. Pingone (Archivio di Stato di Torino).

    Nel 1577 lo storico Filiberto Pingone pubblicò la prima storia della città; fu allora che il ritrovamento di un’iscrizione dedicatoria alla dea Iside, rinvenuta durante gli scavi per la Cittadella, gli offrì l’occasione per legare la genealogia sabauda e la sua capitale ad una mitica origine egizia, che fantasiosi storici vedranno confermata dal toro cittadino e dal mito di Fetonte. In quegli anni Torino ospitò anche l’architetto Palladio, Giordano Bruno, Torquato Tasso e l’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo. Questi vi giunse nel 1578 per adempiere ad un voto fatto durante una grande pestilenza: venerare la Sindone. La preziosa reliquia, che come abbiamo visto era in possesso dei Savoia dal 1453, aveva subìto trasferimenti e traversie ed era allora custodita nella Sainte Chapelle di Chambéry. Per abbreviare il viaggio al cardinal Borromeo, Emanuele Filiberto la fece traslare a Torino, dove è rimasta. Durante il regno di Emanuele Filiberto si ebbero anche dure repressioni contro gli eretici e gli accusati di stregoneria: nel 1561 nacque il ghetto valdese sulle montagne. Per il duca sabaudo era molto importante, per legittimare ulteriormente il suo potere, presentarsi alla Santa Sede come un sovrano ligio alle direttive del concilio di Trento.

    L’abile condottiero seppe anche egregiamente riorganizzare la vita cittadina: vennero rielaborati gli statuti di Amedeo VIII, furono incrementati il commercio e le attività imprenditoriali, venne impiantata la prima tipografia, si introdussero nuove tasse sui consumi e sulle proprietà. Sorsero la Compagnia di San Paolo, che istituì un Monte di Pietà e scuole professionali, e l’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, a cui vennero affidati benefici, proprietà e la flotta sabauda, piccola, ma che seppe distinguersi nella battaglia di Lepanto. L’esercito divenne sempre più importante, mentre gradualmente le truppe mercenarie venivano sostituite dalle milizie locali. Nacque il mito del soldato piemontese, fedele al suo comandante e strenuo difensore della sua posizione; il "bogia nen" divenne una leggenda di un esercito ambito sia dai nobili rampolli, sia dai semplici sudditi, in cerca di una paga sicura.

    Pur molto diverso dal padre, il duca Carlo Emanuele I ben seppe conciliare le sue ambizioni militari e politiche con l’attenzione all’urbanistica e alla magnificenza architettonica della sua capitale, che iniziò una radicale trasformazione. Torino stava per assumere quelle peculiarità che ancora oggi la caratterizzano: sulla base dello scacchiere romano, si aprirono vie e piazze in cui si compendiano la grandiosità di singoli edifici e l’armonicità dell’insieme. Il rinnovamento iniziò dalla sede ducale: l’architetto prediletto del duca, Ascanio Vitozzi di Orvieto, progettò la struttura di piazza Castello, un ampio spazio che ospitava da un lato il nuovo, lineare palazzo ducale, collegato al duomo. Dirimpetto, a modificare l’asse di sviluppo della città, si aprì la via Nuova, che portava alla regolare piazza Reale (ora piazza San Carlo), ideata intorno al 1640 con le due chiese gemelle di San Carlo e Santa Cristina, rispettivamente legate ai domenicani, sotto la protezione del duca, e alle monache carmelitane, protette di Maria Cristina di Francia. Si diede inizio quindi al primo ampliamento della città, la Contrada Nuova, fin quasi all’attuale corso Vittorio Emanuele II. Lo stesso Vitozzi eresse la chiesa e il convento di Santa Maria del Monte, sull’altura al di là del Po oggi nota come Monte dei Cappuccini, e la chiesa della S.S. Trinità nell’attuale via XX settembre.

    Un altro architetto che influenzò molto la struttura storia cittadina fu Carlo di Castellamonte, che creò la bellissima piazza Reale dalla perfetta armonia, forse ancora oggi il più noto cuore di Torino, il salotto che ha visto i momenti più significativi della storia della città: feste per i sovrani, rivolte e passaggi di soldati, fino alle moderne manifestazioni politiche o sportive, come le recenti Olimpiadi. Prevalse il principio dell’integrazione, che prevedeva la fusione armonica tra strutture edilizie civili e militari, antiche e nuove. La città stava assumendo la sua impronta caratteristica, con un progressivo sviluppo a mandorla, secondo concezioni urbanistiche più francesi che italiane, tali da privilegiare la visione d’insieme rispetto all’importanza dei singoli edifici. Con gusto transalpino l’architetto ducale trasformò anche il castello del Valentino per la reggente Maria Cristina, volitiva donna di fascino e di potere.

    Cristina di Francia. Incisione anonima.

    Durante il suo contrastato regno, Torino divenne centro di cultura, meta di artisti e di letterati. Le feste nelle piazze, nei palazzi e sul Po erano grandiose; ma nel 1630 sulla città si abbatté una terribile pestilenza, che ridusse di due terzi la popolazione. Madama Cristina organizzava feste grandiose, tra superbi palazzi e le residenze sulla collina, sempre coadiuvata dal suo favorito Filippo d’Aglié; ma vide anche la guerra civile, che la contrappose ai Principisti, fedeli ai cognati che intendevano toglierle la reggenza. E, come sempre, dietro ai contrasti interni cittadini si nascondevano gli interessi delle grandi potenze che mal tolleravano il piccolo Stato sabaudo: gli spagnoli che appoggiavano il principe Tommaso e il cardinal Maurizio e i francesi favorevoli alla reggente, sorella del Re Sole. Il 1640 fu dunque l’anno del primo dei tre assedi che tormentarono la capitale dei Savoia.

    Ma alla fine riprese la vita. Amedeo di Castellamonte progettò un nuovo ampliamento verso il Po, che prevedeva uno spostamento delle fortificazioni verso il fiume ed un nuovo asse, la contrada di Po, che rompeva il reticolo ortogonale a causa della pendenza del terreno. Nello stesso periodo sorsero le chiese della Madonna del Pilone, di Santa Teresa e di San Francesco da Paola. Sempre l’architetto ducale curò la trasformazione del palazzo oggi Reale, disegnò Palazzo Levaldigi con il sontuoso portale detto del diavolo, l’Ospedale Maggiore di San Giovanni e l’Ospedale di Carità in via Po, oggi noto come palazzo degli stemmi. Nacque negli stessi anni, in splendida posizione collinare, la vigna del cardinal Maurizio, detta prima Villa Ludovica dal nome della consorte e poi Villa della Regina, perché in seguito sarà la prediletta di Anna di Orléans, moglie del primo re sabaudo, Vittorio Amedeo II. Venne anche pubblicato il primo giornale a stampa torinese, «Successi del mondo», grazie ad una sovvenzione della stessa Maria Cristina. La duchessa applicò nell’ampliamento della Contrada Nuova un sistema di lottizzazione di cui beneficiavano i nobili, vincolati però ad erigere a proprie spese rispettando il progetto conforme al disegno incominciato.

    Nel 1663, con la morte della madre, Carlo Emanuele II ebbe il controllo del regno per un breve periodo, durante il quale giunse a Torino un modenese che seppe lasciare una significativa impronta: il padre teatino Guarino Guarini. Chiamato per completare la chiesa di San Lorenzo, iniziata per adempiere ad un voto di Emanuele Filiberto (il 10 agosto fu combattuta la battaglia di San Quintino), creò un capolavoro barocco ricco di rimandi simbolici, dalla cupola innovativa, ma con la facciata simile ad un palazzo. Poi progettò la cupola della cappella della Sindone collocata nel corpo occidentale del Palazzo Ducale, in corrispondenza dell’abside del duomo. Due edifici religiosi strettamente connessi al centro del potere ducale. Guarini ideò anche il sinuoso e imponente Palazzo Carignano, il Collegio dei Nobili, che diverrà sede dell’Accademia delle Scienze, e il santuario della Consolata, protettrice della città. Nel 1666 venne anche ultimata in via Dora Grossa la nuova Torre Civica, alta 90 metri e sormontata da un toro in rame: verrà abbattuta dai francesi nel 1801.

    Il XVII secolo vide nascere numerosi palazzi nobiliari, sontuosi ma caratteristici della nostra città: le botteghe e i magazzini sulla strada, il piano nobile sontuoso con gli appartamenti padronali e gli alloggi da affitto, quindi da reddito, ai piani superiori. Nel 1675 con la morte del duca iniziò una nuova reggenza, quella di Giovanna Battista di Nemours, dichiaratamente filofrancese. Nel 1682 fu completata la preziosa raccolta delle tavole del Theatrum Sabaudiae, che ci offre viva testimonianza di come fosse mutata la città nell’ultimo secolo. Ora era una capitale di eleganza e aspirazioni europee, come quelle del giovane, ambizioso duca che intendeva non solo sottrarsi alle ingerenze francesi, ma anche ingrandire il proprio territorio.

    Nel 1684, con l’inizio del regno di Vittorio Amedeo II, si aprì, verso il secolo dei Lumi, ancora una pagina decisamente diversa della storia di Torino, destinata a soffrire il suo assedio più terribile, ma poi a diventare capitale di un regno.

    Torino capitale di un regno

    Il XVIII secolo iniziò con un avvenimento apparentemente lontano dalla storia della nostra città: il 1° novembre 1700 morì senza eredi Carlo II di Spagna. La guerra di successione spagnola portò Vittorio Amedeo II ad allearsi in un primo momento con i franco-ispanici, poi a fianco dell’impero asburgico e dell’Inghilterra. Luigi XIV decise quindi di assalire lo Stato sabaudo con l’intenzione di espugnarne la capitale. Tuttavia si dovette giungere al 1706 perché gli eventi del conflitto potessero renderne attuabile la decisione.

    Il 14 maggio 1706 a nord della cinta urbana si schierarono circa 44.000 uomini al comando di Luigi d’Aubusson duca de La Feuillade, mentre la difesa della città, governata dal marchese di Caraglio, venne affidata al maresciallo Virico Daun, che aveva il comando di circa 10.500 uomini. La difesa contava sulla possente Cittadella con i suoi bastioni rafforzati dall’ingegner Antonio Bertola, al comando del conte di La Roche d’Allery, sul nuovo fortino detto Opera a Corno, sull’artiglieria retta dal conte Solaro della Margarita, ma soprattutto sui suoi cittadini, che si erano preparati all’assedio togliendo il lastrico dalle strade, coprendo i tetti con zolle di terra e accumulando viveri per almeno cinque mesi. Nonostante il Vauban, celebre architetto militare, avesse consigliato di attaccare prima la città, il 17 giugno iniziarono i bombardamenti sulla Cittadella. Gli assalti si susseguirono, senza risparmiare né uomini né mezzi. Tra i tanti, analizzati con cura da esperti di storia militare e di cui mi sono occupata nel saggio Gli assedi di Torino, ricordiamo quelli del 26 e del 27 agosto. Tutti i torinesi erano coinvolti nella difesa scavando fossati, seppellendo o bruciando i morti, assistendo i feriti, procurando viveri e bende. Anche pregando: si segnala la luminosa figura del padre Sebastiano Valfré, futuro beato, che consigliò al governo cittadino di affidarsi alla Consolata, nominata protettrice della città. Singolare che la basilica a Lei dedicata, pur situata verso uno degli angoli delle mura più esposti al fuoco nemico, non abbia subìto danni. Intanto il conflitto infuriava anche nella fitta rete di cunicoli e gallerie sotto la città; da una parte i torinesi che raggiungevano le batterie nemiche per farle saltare, dall’altra gli assedianti che cercavano di arrivare sotto alla fortezza. In questo contesto va situato l’episodio del sacrificio di Pietro Micca, l’eroico minatore tanto esaltato dalla storiografia risorgimentale, che fece brillare una mina per impedire ai nemici di accedere alla galleria che difendeva, perdendo la vita come i tanti che si sacrificarono per difendere la città. Il ritrovamento della scala su cui morì Pietro Micca, così come della fortificazione detta Pastiss e di documenti e reperti che hanno costituito il cuore del Museo Pietro Micca e dell’Assedio di Torino, si devono al compianto generale Guido Amoretti, mancato nell’estate del 2008, proprio mentre iniziava la stesura di questo libro.

    Vittorio Amedeo II in battaglia. Incisione ottocentesca.

    Il 29 agosto le truppe guidate dal principe Eugenio di Savoia Soissons, al servizio dell’imperatore austriaco, dopo una rapida marcia dall’Adige al Piemonte, si riunirono a Carmagnola con l’esercito di Vittorio Amedeo II. Secondo la tradizione i due cugini, quasi coetanei, così diversi eppure così simili, il 2 settembre salirono insieme sul colle di Superga per elaborare una strategia. Le truppe francesi avevano ricevuto un rinforzo di ben 45.000 uomini, ma si decise comunque di attaccare nel tratto tra Lucento sulla Dora e il Regio Parco. Il 7 settembre ci fu una cruenta battaglia, che ebbe i suoi punti focali nei pressi della chiesa della Madonna di Campagna e del castello di Lucento. Le truppe franco-spagnole vennero attaccate anche dalla città assediata: il presidio di Torino uscì dalle porte cittadine sostenuto dalla popolazione. Mentre le truppe sconfitte si davano ad una disordinata fuga verso Pinerolo, Vittorio Amedeo e il principe Eugenio entravano trionfanti in città e venivano accolti in duomo da un solenne Te Deum, per poi festeggiare nelle splendide sale di Palazzo Graneri, che durante l’assedio era stato sede del maresciallo Daun.

    Il ricordo della battaglia venne tramandato già per volere di Vittorio Amedeo, che fece piantare nei luoghi dello scontro una serie di pilastrini commemorativi, parecchi dei quali ancora visibili, con l’effigie della Consolata e la data. Troviamo i segni di quei momenti di gloria anche nella toponomastica del quartiere significativamente battezzato Borgo Vittoria, sorto intorno alla metà dell’Ottocento. Inoltre ricordiamo in breve, oltre al già citato museo dell’assedio, il mastio della Cittadella, la chiesa dedicata alla Madonna della Salute che ospita l’ossario dei caduti e la grandiosa basilica di Superga, sede di numerose tombe della famiglia sabauda, dallo stesso Vittorio Amedeo II a Carlo Alberto.

    Dopo la vittoria, quando si giunse al trattato di Utrecht, Vittorio Amedeo II ottenne la Sicilia e la corona reale. L’isola, però, rimase poco nelle sue mani: in seguito a complesse trattative, al suo posto il regno sabaudo ottenne la Sardegna. Tuttavia da quel breve soggiorno siciliano il sovrano seppe trarre profitto, conducendo con sé un architetto geniale, che lasciò a Torino un’impronta indelebile, Filippo Juvarra. Il messinese progettò, oltre alla citata basilica di Superga, imponenti ed eleganti edifici per la corte, la nobiltà e il clero. Nacquero le chiese di Santa Cristina, di San Filippo, di Santa Croce, del Carmine; i Palazzi d’Ormea e della Valle; la luminosa facciata con lo scenografico scalone che modifica la struttura medievale di Palazzo Madama e quella del Palazzo Roero di Guarene; l’ardita scala delle forbici in Palazzo Reale e quella creazione fantasiosa che è la Palazzina di caccia di Stupinigi, vero capolavoro tra barocco e rococò. Juvarra lavorò anche alla chiesa di Santa Maria in Vercelli, alla reggia della Venaria Reale e al castello di Rivoli. Si occupò inoltre del terzo ampliamento cittadino, dei nuovi Quartieri Militari lungo l’asse dell’attuale via del Carmine, degli Archivi di Stato, degli edifici dell’università in via Po e della Biblioteca Nazionale.

    Pianta di Torino nel 1751.

    Quando Juvarra si trasferì alla corte di Madrid, il suo successore Benedetto Alfieri ne proseguì l’opera, costruendo le Segreterie di Stato (l’attuale prefettura), l’Accademia Militare, il Teatro Regio (inaugurato il 26 dicembre 1740 con l’opera Arsace, con libretto di Pietro Metastasio) e il Teatro Carignano, in cui vennero rappresentate le prime opere di Vittorio Alfieri e lo stesso Goldoni vi aveva accompagnato la compagnia che metteva in scena le sue commedie, pur lamentando di aver sentito dire tra il pubblico: «Bella, ma non è Molière». Intorno alla metà del secolo, la città risultava dunque molto vivace da un punto di vista sia culturale sia architettonico, ma erano anche raddoppiati i telai in attività, si lavoravano tele di canapa e di lino e si commerciavano armi e gioielli finemente lavorati. Fiorivano le preziose dimore sabaude, mentre in città si moltiplicavano i lussuosi palazzi della nobiltà legata alla vita di corte, regolata da una rigida etichetta. Si mantenne e si rafforzò la caratteristica tutta torinese: i nobili si riservavano il primo piano e affittavano gli altri a borghesi, mentre i piccoli alloggi sotto i tetti erano occupati dai salariati. In città arrivavano numerosi lavoratori specializzati, spesso stagionali, che scendevano dalle valli alpine; per questo era massiccia la richiesta di alloggi. Si evidenziava la nascita di un terziario sempre più differenziato, a cui si rivolgevano numerosi editti regi. Anche il risanamento, con relativo raddrizzamento e l’abbattimento di vari edifici medievali, che riguardò via Dora Grossa, ora «destinata per i negozianti e i mercanti più ragguardevoli, cioè di oro, di seta e di panno, di tela o di altra simile condizione», rientrava in questo piano di attenzione all’economia cittadina.

    La fine del glorioso Vittorio Amedeo II non fu certo adeguata alla sua fama di politico e di condottiero. Nel 1730 lasciò il trono al figlio, Carlo Emanuele III, e si ritirò a Chambéry con la nuova moglie, la contessa Canalis di Cumiana; poi, deluso dalla linea politica dell’erede al trono, raggiunse Moncalieri, forse con l’intenzione di ritornare al potere. Ma il figlio lo fece arrestare e il vecchio re si spense dopo aver trascorso gli ultimi due anni praticamente prigioniero a Moncalieri e a Rivoli. Il nuovo sovrano seppe però dar prova di grandi virtù militari e partecipò alle guerre di successione polacca e austriaca. Tra i molteplici avvenimenti bellici legati al suo regno ricordiamo la gloriosa battaglia sul colle dell’Assietta (19 luglio 1747), con cui fu sventato un nuovo tentativo francese di invadere il Piemonte. Intanto Torino cresceva: molte abitazioni vennero sopraelevate e furono sistemati alcuni borghi esterni come Borgo Po e Borgo Dora. Nel 1750 contava circa 60.000 abitanti, ben 94.000 nel 1790. La città era dotata di molti servizi, ospedali, una scuola elementare pubblica per ognuno dei quattro quartieri cittadini (Porta Nuova, Porta Susina, Porta Palazzo e Porta di Po), teatri e luoghi di ritrovo e fin dal 1727 era illuminata in alcune vie per tutta la notte, più di Parigi e Madrid, le uniche altre capitali ad essere dotate di pubblica illuminazione.

    Anche la vita culturale andò in crescendo. Nel 1757 fu fondata la Società privata torinese, su modello delle accademie scientifiche sorte un po’ in tutta Europa. Solo nel 1783, però, l’associazione riuscì ad ottenere un riconoscimento ed uno stanziamento statale annuo dal nuovo re Vittorio Amedeo III. Attorno all’università, alle scuole militari, al Collegio dei Nobili e all’Accademia delle Scienze, ruotavano personalità di grande rilievo: il matematico Luigi Lagrange, Gianfrancesco Cigna, Giambattista Beccaria che determinò il grado di meridiano passante per Torino, Amedeo Avogadro, fondatore della teoria atomica e molecolare, Tommaso Valperga di Caluso, studioso di Lingue orientali e di Astronomia. Soci dell’accademia torinese furono anche numerosi studiosi stranieri di grande fama: i filosofi Jean Baptiste d’Alembert e Henri Louis Bergson, Jacques Bernoulli, matematico svizzero, il celebre egittologo Jean François Champollion, Charles Darwin, Leonhard Euler, matematico svizzero, Michael Faraday, fisico inglese, Benjamin Franklin, Karl Friedrich Gauss, noto matematico e astronomo tedesco, Joseph Louis Gay-Lussac, chimico e fisico francese, Frederik W. Herschel, l’astronomo inglese scopritore di Urano, i tedeschi Alexander von Humboldt, geografo, Theodor Mommsen, storico e filologo, Max Planck, fisico. Un breve discorso a parte merita Charles Babbage, filosofo, matematico ed economista inglese. Fu invitato da Giovanni Plana e divenne suo allievo Luigi Federico Menabrea; vedremo quindi che a Torino venne presentata per la prima ed unica volta la macchina di Babbage, praticamente l’antenata del calcolatore elettronico. Sempre in quel periodo giunsero in città viaggiatori celebri come Rousseau, Montesquieu, Hume, Casanova. Dalle loro parole emergono le contraddizioni e il fascino di una capitale ordinata e solo apparentemente noiosa, con guizzi di passione improvvisi dietro gli arditi e inquietanti vezzi barocchi.

    Nel 1787 giunse a Torino anche Thomas Jefferson, mentre era ambasciatore a Parigi, quattordici anni prima di diventare presidente; visitò musei e gallerie, si recò a Moncalieri, Stupinigi e a Superga. Secondo Alfonso Bellando, che ne parla diffusamente nel suo interessante testo Sotto gli occhi del mondo. Torino metropoli internazionale (Torino 2007), Jefferson si era reso conto che il nostro riso era di una specie migliore rispetto a quella coltivata nelle sue terre del Sud. Fece molte domande ai contadini, prese appunti e disegnò la macchina per mondare il riso, che non esisteva negli Stati Uniti. Il suo desiderio era portare oltre oceano delle sementi, ma per timore di concorrenza era un crimine punibile con la morte. Racconta Bellando:

    Decise di correre il rischio, per il bene della sua terra. Trovò, non si sa come, un mulattiere che andava ogni settimana da Vercelli a Genova varcando l’Appennino e lo convinse a contrabbandare, con lauto compenso, un paio di sacchi di riso grezzo, fino al mare. Di qui, con ulteriore sotterfugio, trovò una nave che trasportò i sacchi a Nizza, porto internazionale, quasi al confine che correva lungo il fiume Var. Solo quando la seconda nave prese il largo verso le Americhe l’industrioso Jefferson poté dirsi tranquillo. […] e gli statunitensi si ritrovarono, ignari, a veder migliorata la loro dieta alimentare grazie al lontano Piemonte.

    Lo stesso Jefferson, sempre in qualità di ambasciatore americano a Parigi, riforniva l’ambasciata di vino Barolo per i pranzi diplomatici.

    Sempre nel XVIII secolo, a Torino fecero la loro apparizione due novità che si diffusero rapidamente: i grissini, di cui si parlava già nel secolo precedente, con la descrizione di un «pane lungo e sottile, simile ad ossa di morto», ed il vermouth, inventato nel 1786 da Antonio Benedetto Carpano, come ricorda una lapide sotto i portici di piazza Castello, all’angolo con via Viotti.

    Nonostante l’interesse internazionale, il rigido controllo esercitato sulla cultura da casa Savoia, che peraltro apprezzava l’abilità artistica del Beaumont e gli incredibili mobili dell’ebanista Pietro Piffetti, continuò ad impedire un valido sviluppo editoriale e di fatto costrinse ad emigrare il Lagrange ed il letterato Baretti. Lo stesso Vittorio Alfieri mal tollerò tali «catene della mia natural servitù».

    Mentre regnava Vittorio Amedeo III, con un governo corretto e impegnato, ma che non lasciava spazio a nulla che non fosse sotto il suo controllo, scoppiò la Rivoluzione francese. A Torino da un lato cresceva l’odio per la rivoluzione, alimentato, negli ambienti vicini alla corte, da numerosi nobili in fuga, dall’altro si diffusero le simpatie per le nuove idee, soprattutto tra la nuova borghesia colta e attraverso le varie logge massoniche cittadine. Nel 1792, mentre le truppe francesi occupavano Nizza e la Savoia e il re si affrettava a sottoscrivere la Prima Coalizione, nacquero i primi club giacobini, spesso talmente segreti da ignorare la reciproca esistenza. Incominciò la guerra e la situazione precipitò rapidamente quando assunse il comando dell’armata d’Italia Napoleone Bonaparte: il 28 aprile 1796 fu firmato l’armistizio di Cherasco, con cui i francesi ottennero libero transito per l’esercito, alcune importanti fortezze piemontesi e la neutralità dello Stato sabaudo, che si impegnava a non concedere più asilo ai rifugiati politici.

    Intanto Torino era preda di una gravissima crisi economica e si registrò anche un significativo calo demografico. Il nuovo re Carlo Emanuele, che non riusciva a sostenere la situazione, lasciò la città nel dicembre del 1798; venne proclamato e organizzato il governo repubblicano, in cui si affiancarono ex amministratori, mantenuti in carica per la loro esperienza, ed esponenti di una borghesia che auspicava cambiamenti radicali. Venivano organizzate grandi manifestazioni pubbliche in piazza Castello, divenuta piazza Nazionale, mentre in piazza Carlo Emanuele, nota ai torinesi come piazza Carlina e ribattezzata piazza della Libertà, fu eretta la ghigliottina. Si organizzavano balli nei palazzi occupati e saccheggiati e le belle torinesi adottavano la nuova moda rivoluzionaria, mentre il 9 maggio 1799 fu votata l’annessione alla Francia. In città si susseguivano risse e tentativi di spadroneggiare da parte delle truppe francesi di guarnigione, a stento repressi da dure leggi della nuova municipalità. Ma i francesi subirono varie sconfitte e nelle campagne i contadini, organizzati in bande, davano la caccia ai giacobini, abbattendo gli alberi della libertà per innalzare croci.

    Il 25 maggio 1799 le truppe austro-russe e i contadini della Massa cristiana entrarono in Torino. Un nuovo assedio per la città, con il generale Fiorella che cercò di resistere nella Cittadella, ma il 22 giugno fu costretto a cedere. I cosacchi e gli ussari si accamparono in piazza Castello mentre il maresciallo Suvarov insediava un governo provvisorio presieduto da Carlo Thaon di Revel, fedele di casa Savoia; ma gli austriaci temporeggiavano sul rientro del re.

    Napoleone, divenuto Primo Console, progettava di riconquistare l’Italia: il 14 maggio 1800 iniziò il passaggio delle truppe dal Gran San Bernardo e un mese dopo trionfò a Marengo. Torino e il Piemonte erano di nuovo in mano ai francesi. Il XIX secolo iniziò sotto il governo militare francese: il 21 aprile 1801 Torino divenne di nuovo capitale, ma di un dipartimento francese. Mentre la ghigliottina operava frequentemente (dal 1800 al 1814 vi furono ben 423 esecuzioni), in città si avvertì anche il peso di nuove, pesantissime tasse che fecero tornare sulle bocche dei torinesi quella ironica modifica del motto rivoluzionario che già si era diffusa durante il precedente governo repubblicano: «Liberté, égalité, fraternité, lor an caròsa e noi a pé» (loro in carrozza e noi a piedi).

    Proclama della Municipalità di Torino del 16 maggio 1799 contro le lusinghe del comandante della Massa Cristiana.

    Napoleone transitò varie volte per Torino: il 22 giugno 1800, subito dopo la vittoria di Marengo, il 24 aprile 1805 alla vigilia della sua incoronazione a Milano con la corona ferrea, nel luglio dello stesso anno e nel dicembre del 1807, ma dedicò sempre alla città un interesse superficiale. Tuttavia in questi anni vi furono sostanziali modifiche all’urbanistica torinese. Innanzitutto con l’ordine napoleonico di disarmare le fortezze piemontesi, Torino vide la demolizione dei bastioni e i fossati riempiti; delle antiche difese rimase solo la Cittadella, ma per la città fu l’inizio di un ampliamento che giungerà fino ai nostri giorni, segnando tra l’altro lo sviluppo delle nuove, ampie arterie alberate che conducono alle residenze di periferia. Fu anche abbattuta la galleria di Carlo Emanuele I che univa Palazzo Madama e Palazzo Reale e fu posta la prima pietra del ponte sul Po, lo stesso al cui sbocco verrà innalzata la chiesa della Gran Madre di Dio, in stile neoclassico su modello del Pantheon, per celebrare, nel 1814, il ritorno della dinastia sabauda. La chiesa rappresenta, con la seicentesca via Po, il limite scenografico della nuova ampia piazza capace di contenere 300.000 persone: piazza Vittorio Emanuele I, oggi Vittorio Veneto, per i torinesi semplicemente piazza Vittorio, quella dei carnevali della nostra infanzia e oggi della movida notturna.

    Il 14 febbraio 1808 fu nominato governatore del Piemonte e della Liguria il principe Camillo Borghese e con lui giunse a Torino la bellissima e chiacchierata consorte Paolina, sorella dell’imperatore. I principi si insediarono in Palazzo Chiablese, ma utilizzarono anche varie residenze sabaude, soprattutto Stupinigi e la Villa della Regina. Si era ricreata una parvenza di vita di corte, ma la volubile Paolina, annoiata dalla freddezza subalpina, dopo pochi mesi ottenne dal fratello il permesso di rientrare in Francia. Nel periodo torinese, i coniugi Borghese avevano tenuto a battesimo il secondogenito del ciambellano del principe, Michele di Cavour, e di Adele di Sellon: Camillo Benso di Cavour. Nel giugno del 1809 intanto i torinesi avevano avuto modo di ammirare le grazie della sorella dell’imperatore quando venne esposta al pubblico la Venere imperiale del Canova.

    Dopo la spedizione di Russia, iniziò il crollo del regime napoleonico: il 6 aprile 1814 Napoleone fu costretto ad abdicare e il 20 maggio entrò a Torino Vittorio Emanuele I, che dal 1802, in esilio, aveva sostituito sul trono il fratello. Venne celebrato un solenne Te Deum in duomo, ma l’entusiasmo non durò a lungo. Il re aveva ingrandito lo Stato sabaudo ottenendo la Liguria, ma non la tanto agognata Lombardia. Inoltre tentò di cancellare completamente le innovazioni giunte d’oltralpe; si ripristinò l’antica legislatura e fu abolito il codice napoleonico, mentre ebrei e valdesi tornarono nei ghetti. Ovunque si avvertiva l’ondata reazionaria: nell’esercito, nella magistratura e nella burocrazia, anziani funzionari e generali che da anni non combattevano sostituirono uomini abili che avevano il solo torto di aver fatto carriera sotto il governo francese. Persino le idee dei grandi dell’Accademia delle Scienze facevano paura e solo da Milano Ludovico di Breme e Silvio Pellico potevano far sentire il loro pensiero. Neppure il cauto riformismo di Prospero Balbo riuscì a mitigare una profonda insoddisfazione per il nuovo corso degli eventi.

    L’Università ha rappresentato spesso il punto d’avvio di lotte e rivolte. L’incisione si riferisce a un episodio del 1821, quando si svolsero manifestazioni per la liberazione di alcuni studenti arrestati al Teatro d’Angennes in violazione di antichi privilegi goliardici.

    Nell’ambito di quella borghesia colta che si era sentita più vicina alle aspirazioni e ai contenuti portati dalla rivoluzione, dalle notizie delle rivolte di Spagna e di Napoli giunse la spinta ad agire. Una serie di equivoci portò il governo a reprimere con eccessiva durezza quelle che di fatto erano solo semplici ribellioni studentesche, sia pure spia di un malcontento ben radicato. I berretti rossi e neri degli universitari vercellesi, indossati l’11 gennaio 1821 al Teatro d’Angennes, vennero interpretati come una provocazione. Agli arresti, seguirono tumulti nei pressi dell’università, che suscitarono insieme sdegno e voglia di rivincita. Tra gli ufficiali dell’esercito si iniziò a programmare una serie di insurrezioni, che avrebbero dovuto avere l’appoggio dell’erede al trono, Carlo Alberto, principe di Carignano. Cresciuto in Francia con un’educazione molto diversa da quella che avrebbe avuto a Torino, era combattuto tra i nuovi ideali che lo attraevano e quelli che avvertiva come doveri dinastici.

    All’inizio di marzo Carlo Felice lasciò Torino diretto a Modena per incontrarvi il suocero. Il 6 marzo Carlo Asinari di San Marzano, il conte Provana di Collegno, Santorre di Santarosa, Moffa di Lisio e Roberto d’Azeglio presero contatto con Carlo Alberto e gli comunicarono che le guarnigioni di Alessandria e di Torino erano pronte ad insorgere. L’erede al trono non diede il suo assenso, come fu equivocato, ma neppure ordinò il loro arresto. Nonostante sia stato ampiamente dimostrato come Carlo Alberto abbia cercato di fermare gli eventi, iniziarono le insurrezioni, che si estesero da Alessandria e Fossano, a Pinerolo e Torino. Spaventato dalle minacce della Santa Alleanza di invadere il Piemonte, Vittorio Emanuele I abdicò e, essendo lontano Carlo Felice, la reggenza toccò a Carlo Alberto; questi, spinto dall’idea che solo così si potesse fermare una rivolta che rischiava di minacciare il trono, concesse la costituzione, subordinandola all’approvazione del re. Ma Carlo Felice sconfessò subito il nipote, gli ordinò di recarsi a Novara dove il maresciallo La Tour, sostenuto dagli austriaci, sconfisse rapidamente i ribelli, parte di un movimento elitario, privo dell’appoggio popolare. Santorre di Santarosa finì col morire in Grecia, dove si era recato per combattere per la libertà di quel paese, mentre furono numerose in Piemonte le condanne e le epurazioni.

    Furono deluse le speranze sorte nei liberali piemontesi: il nuovo re Carlo Felice interpretò la Restaurazione nel modo più duro, mentre Carlo Alberto dovette riconquistare quella credibilità che gli avrebbe permesso di ottenere il trono combattendo in Spagna contro la rivoluzione; anche in seguito fu tenuto lontano, inviato con la famiglia a Firenze, presso il suocero. Qui il piccolo erede, Vittorio Emanuele, a stento si salvò da un grave incendio divampato sulla sua culla, nel quale morì la sua balia. Quando rientrò in Piemonte, Carlo Alberto si stabilì lontano dalla corte, a Racconigi.

    Nonostante l’immobilismo ideologico, a Torino fervevano iniziative e costruzioni: furono eretti la già citata chiesa della Gran Madre, il ponte Mosca sulla Dora, e l’armonica piazza che porta il nome del re reazionario. Vennero introdotti i valori postali detti i cavallini di Sardegna, nacquero la Reale Mutua Assicurazioni e la Compagnia degli Operai, i primi vigili del fuoco. Da segnalare anche l’acquisto da parte del re della collezione Drovetti, nucleo del futuro Museo Egizio.

    Dal 1831 toccò finalmente a Carlo Alberto salire al trono; ma le vicende del passato lo avevano reso diffidente ed estremamente cauto nelle decisioni. Si limitò a provvedimenti amministrativi, creò il Consiglio di Stato e fece pubblicare i nuovi codici riordinati dal Barbaroux. Da ricordare, nel 1836, l’istituzione del corpo dei Bersaglieri, su proposta di Alessandro La Marmora.

    Torino restava però più che mai fucina di idee, spesso discusse nei numerosi caffè cittadini, magari davanti ad un fumante bicerin; nel 1839 si contavano in città ben 98 sale, più altre 157 che vendevano vini e liquori. Proprio qui nacquero le idee e i diversi schieramenti ideologici del nostro Risorgimento. Si diceva che Carlo Alberto inviasse ogni giorno il marchese Alfieri tra i tavolini del caffè Fiorio in via Po per tastare il polso dell’opinione pubblica: ogni locale si identificava con un preciso orientamento politico. La censura era severa, ma fervevano le pubblicazioni; nel 1832 Silvio Pellico pubblicò presso l’editore Giuseppe Bocca Le mie prigioni; intanto nacquero anche Il primato morale e civile degli Italiani di Gioberti, Le speranze d’Italia di Cesare Balbo, Gli ultimi casi di Romagna di Massimo d’Azeglio. La presenza in città di ben 22 tipografie indica come Torino fosse allora anche la capitale del giornalismo italiano: si segnalava in particolare l’attività di Giuseppe Pomba. Dopo le Lettere patenti di Carlo Alberto del 30 ottobre 1847, Torino superò ogni record: nel 1854 si contarono fino a 13 quotidiani, per una popolazione di circa 180.000 abitanti. Negli stessi anni operarono grandi scienziati e uomini di cultura come Galileo Ferraris, Giovanni Plana, Vittorio Bersezio, Luigi Cibrario, Michele Lessona, Ascanio Sombrero, Valperga di Caluso, Germano Sommeiller.

    Accanto ad essi, le luminose figure di Giuseppe Allamano, Giuseppe Cottolengo, Francesco Faà di Bruno, Leonardo Murialdo, Giuseppe Cafasso e don Giovanni Bosco. Nel 1827 in poche stanze al numero 19 dell’odierna via Palazzo di Città, allora via dei Panerai, erano nate le basi della Piccola Casa della Divina Provvidenza che nel 1831, a causa di una epidemia di colera, fu trasferita fuori mura, in Valdocco. Alcuni anni dopo don Giovanni Bosco fondò il primo oratorio festivo, seme di quella che è oggi la grande istituzione salesiana. Altrettanto importante per le opere di carità, fu l’azione della marchesa Giulia Falletti di Barolo. Promosso da molti uomini di cultura e con il singolare appoggio di don Bosco e dei parroci e dei maestri elementari, con un regio editto di Carlo Alberto dell’11 settembre 1845 era stata resa obbligatoria l’adozione del Sistema Metrico Decimale. Il metro campione italiano è ancora oggi ospitato nell’Istituto di Metrologia Gustavo Colonnetti.

    Mentre in piazza San Carlo veniva eretta la celebre statua equestre di Emanuele Filiberto, opera dello scultore torinese Carlo Marocchetti, il famoso Caval ’d brons, dal 1846 tutti i portici di Torino furono illuminati dalla luce azzurrina del gas. Intanto dalla natìa Nizza Monferrato giungeva a Torino un ragazzo che partendo da Porta Palazzo, dove scaricava casse di verdura, in via Borgo Dora 32, basandosi sulle esperienze di Julius Liebig iniziò i primi esperimenti per la conservazione di verdure in scatola, creando la più grande industria italiana di conserve alimentari: Francesco Cirio. La città cresceva, facendo sorgere nuovi quartieri, soprattutto verso sud; vennero tracciati i caratteristi ampi viali alberati e si estese la tipica struttura a scacchiera dell’origine romana. Nella zona industriale di Borgo Dora le manifatture in cui si filavano e si tessevano lana, cotone e seta occupavano più di 7000 operai, ma c’erano anche 20 cartiere, la fabbrica di candele dei fratelli Lanza, si producevano prodotti a base di zolfo, ceramiche e porcellane. Prima dell’Unità d’Italia la popolazione torinese raddoppiò. In centro, nell’area di Porta Vittoria, l’architetto Carlo Bernardo Mosca, autore dell’omonimo ponte sulla Dora, progettò l’odierna piazza della Repubblica, sorsero eleganti edifici lungo il viale del Re, oggi corso Vittorio Emanuele II, nel Borgo Nuovo, al posto delle fortificazioni, sorse un’ampia zona verde, gli odierni Giardini Cavour. In piazza Castello venne eretta una cancellata in ferro con le statue di Castore e Polluce a delimitare la piazzetta Reale. Nel 1853 il nuovo piano regolatore delimitò una cinta daziaria che fu saturata già entro il 1890.

    Sotto l’impulso degli eventi politici che stavano maturando, la città necessitava sempre più di collegamenti. Nel servizio di diligenze Piemonte-Francia, primeggiava la ditta Bonafous di Carlo Alfonso Bonafous, che si arricchì e offrì alla città di Torino un lascito per fondare un istituto che istruisse i ragazzi abbandonati. Pose come unica condizione il fatto che portasse il suo nome e ne ospitasse un ritratto a grandezza naturale. Già nel 1846, il ministro Cavour tracciò un programma organico di nuove linee ferroviarie e prevedeva la necessità di un traforo sotto il Cenisio. Nel 1848 venne inaugurata la prima tratta di 8 chilometri Torino-Moncalieri della linea che doveva raggiungere Genova, mentre la Torino-Susa venne aperta nel maggio del 1854 e nel 1859 il Piemonte, con i suoi 914 chilometri di ferrovia, risultava la regione meglio dotata d’Italia (le sue linee rappresentavano allora il 46% dell’intera rete italiana) e tra le più avanzate in Europa. Per proseguire il discorso legato allo sviluppo ferroviario, ricordiamo ancora che il 17 settembre 1871, alle sette del mattino, con la presenza del re Vittorio Emanuele II, passerà il primo convoglio internazionale nella nuova galleria del Fréjus, opera di Sommeiller, Grattoni e Grandis.

    Intanto, dopo l’elezione al soglio pontificio di Pio IX, nell’ottobre del 1847 si raccolsero cinquemila persone in piazza San Carlo. Il re non poteva continuare ad ignorare le richieste dei liberali e così il 30 ottobre venne concessa la libertà di stampa, che come si è già detto provocò il fiorire di numerose pubblicazioni. Mentre in varie città europee scoppiavano le rivoluzioni del 1848, il 5 febbraio il Consiglio Comunale di Torino chiese ufficialmente a Carlo Alberto la Costituzione, che venne promessa. Il 17 febbraio, dopo una secolare persecuzione, i valdesi vennero ammessi a godere degli stessi diritti degli altri sudditi. Finalmente il 4 marzo 1848 venne promulgato lo Statuto Albertino, che verrà esteso all’Italia intera dopo l’Unità e che rimarrà in vigore fino alla Costituzione repubblicana. Torino appariva davvero come capitale della libertà: nello stesso 1848, dopo i fallimenti delle rivolte d’Ungheria, vi giunse anche il patriota ungherese Lajos Kossuth, che si trasferì nella nostra città, dove morirà nel 1894.

    In riferimento a questo periodo, Torino non fu che il palcoscenico privilegiato su cui agirono molti dei protagonisti della Storia italiana: oltre a Carlo Alberto e a Vittorio Emanuele II, il sovrano di un regno che in trent’anni passò dal Piemonte all’Italia intera, emerge ovviamente la personalità irripetibile di Camillo Benso di Cavour. In seguito al suo fervido appello, comparso il 23 marzo 1848 sul periodico «Il Risorgimento», il sovrano ricevette i rappresentanti del governo provvisorio di Milano e lanciò il noto proclama ai popoli della Lombardia e del Veneto redatto da Federico Sclopis. Il 25 marzo l’esercito piemontese, affiancato da milizie volontarie, varcava il Ticino, sotto al tricolore con lo scudo sabaudo. I caffè e le università cittadine si spopolarono per il gran numero di volontari: iniziava la Prima Guerra di Indipendenza. Dopo i trionfi e gli entusiasmi, si giunse all’armistizio di Salasco e alla cocente sconfitta di Novara. Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II e partì per l’esilio ad Oporto, in Portogallo, dove morì il 28 luglio 1849, lasciando ai posteri molti interrogativi sui troppi dubbi che avevano travagliato la sua vita.

    Ma questa è Storia nazionale.

    Torino capitale d’Italia

    Gli avvenimenti dall’ascesa al trono di Vittorio Emanuele II nel 1849 all’Unità del 1861 non appartengono solo alla storia di Torino. Il nuovo sovrano fu una figura in cui convivevano luci ed ombre: abile diplomatico e donnaiolo, accorto statista e rude cacciatore che preferiva esprimersi nel suo adorato dialetto, fu altrettanto a suo agio nelle corti e sulle sue montagne, sui campi di battaglia e nelle alcove delle sue amanti. Seppe guidare il Piemonte verso il suo grande destino, circondandosi degli uomini migliori. Tra tutti, emerse senza dubbio Camillo Benso di Cavour, con il suo acuto equilibrio politico, la capacità di sfruttare al meglio le vicende più favorevoli, la profonda fiducia nel regime parlamentare liberale e nel progresso. A lui, come abbiamo già visto, si devono l’eccezionale sviluppo del regno sardo-piemontese in quello che fu definito «il decennio di preparazione», ma anche le abili mosse diplomatiche che portarono la questione italiana sul tavolo della politica internazionale.

    Si giunse così, dopo la controversa partecipazione alla guerra di Crimea, alla Conferenza di Parigi (febbraio 1856) e agli accordi di Plombières con Napoleone III (20-21 luglio 1858), che aprirono la strada alla Seconda Guerra di Indipendenza, bruscamente interrotta con l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859). Nel 1860 registriamo gli ulteriori, rapidissimi passi verso l’Unità: le annessioni con i plebisciti in Emilia e in Toscana (11 e 12 marzo), la spedizione di Garibaldi e il 26 ottobre il celebre incontro di Teano.

    In questi anni la politica e la cultura subalpina videro agire grandi protagonisti: Massimo d’Azeglio, politico liberale ma anche letterato e pittore; Vincenzo Gioberti, promotore del neoguelfismo; Giuseppe Siccardi, insigne giurista, il cui nome rimase legato alle leggi approvate nel 1850 che abolirono beni e privilegi ecclesiastici; i già ricordati Silvio Pellico, scrittore e patriota, e Cesare Balbo, che fu alla guida del primo ministero costituzionale. Non dobbiamo neppure tralasciare l’arte diplomatica esercitata in modo molto diverso da Costantino Nigra e dalla bellissima Virginia Oldoini, la nota contessa di Castiglione, ma neppure il sacrificio per la causa italiana della mite principessa Maria Clotilde di Savoia, il cui matrimonio con il discusso cugino di Napoleone III faceva parte degli accordi di Plombières.

    Il 18 febbraio 1861 Torino capitale vide la riunione del primo Parlamento italiano nello stesso Palazzo Carignano in cui erano nati Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II, divenuto «re d’Italia per grazia di Dio e volontà della nazione». Era già stato sede dal 1848 del Parlamento subalpino, ospitato nell’aula ricavata nel salone delle feste dei Carignano, ora punto focale del rinnovato Museo del Risorgimento. Per accogliere i 443 deputati del Regno d’Italia in pochi mesi l’architetto Amedeo Peyron costruì tra il cortile e il giardino un padiglione in legno, che sarà demolito nel 1865. Il Senato venne invece ospitato nel grande salone centrale di Palazzo Madama.

    In pochi anni la città vide crescere rapidamente la sua popolazione: vi affluirono politici e burocrati legati agli apparati di governo, giornalisti e uomini di cultura come Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa. Dai circa 180.000 abitanti del 1851, si passò agli oltre 204.000 del 1861. Intorno al nucleo delle vie perpendicolari si erano aggiunti i caratteristici viali alberati e nuovi quartieri periferici, in cui si alternavano palazzine della nuova borghesia recentemente inurbata dalle campagne e case popolari.

    Torino rivelava un notevole fascino, ancora oggi vivo e riconoscibile: le vie porticate del centro allora illuminate dalla luce azzurrina del gas, le spaziose piazze, i palazzi dall’architettura armonica e insieme fantasiosa. Sullo sfondo, la collina con le sue vigne, ville e residenze estive di nobili e borghesi, e la maestosa chiostra delle Alpi. Edmondo De Amicis, torinese d’adozione e di spirito, ne colse sinteticamente il senso: «Si può camminare ad occhi chiusi: non c’è da sbagliare. Ogni tanti passi, riaprendo gli occhi, si vedranno due interminabili vie diritte a destra e a sinistra, l’una chiusa dalle Alpi, l’altra chiusa dalle colline». La città subì poi i vari piani di ingrandimento della capitale, proposti da Carlo Promis, e nel 1863 Alessandro Antonelli incominciò a costruire come sinagoga quell’edificio dalle forme singolari che sarà detto Mole Antonelliana e diverrà uno tra i simboli più popolari della città.

    Ma per completare l’Unità fu richiesto un grande sacrificio ai torinesi. Secondo gli accordi tra Minghetti e Napoleone III in seguito alle Convenzioni di settembre (15 settembre 1864), si decise il trasferimento della capitale a Firenze; in cambio, la Francia avrebbe abbandonato Roma entro due anni. La clausola, firmata dal bolognese Marco Minghetti, venne comunicata praticamente a cose fatte al re, che fece di tutto per cercare di modificarla. La notizia in un primo tempo fu nascosta anche ai presidenti di Camera e Senato e al sindaco di Torino. Divenne pubblica grazie a un giornalista della «Gazzetta del Popolo» che la pubblicò il 18 settembre. Così il risentimento esplose nelle piazze e tra il 21 e il 22 settembre si accese la rivolta: negli scontri tra la folla che gridava «o Torino, o Roma» e le truppe chiamate a sedare i tumulti, si registrarono una cinquantina di morti e centotrenta feriti. Fu l’eccidio di piazza San Carlo. Venne aperta una sottoscrizione popolare per venire in aiuto alle famiglie delle vittime e di chi avrebbe perso il lavoro con lo spostamento della capitale; principale benefattrice fu la Casa Reale.

    Si diffuse l’opinione che l’Unità, che era costata tanto sangue, non avesse rappresentato un vantaggio per il Piemonte e per Torino in particolare. Quegli stessi uomini che si erano impegnati in prima persona nelle vicende risorgimentali, fossero appartenenti alla nobiltà subalpina o rappresentanti della vivace borghesia, guardavano con risentimento e rimpianto ai nuovi eventi. Allo stesso re dispiacque lasciare la sua terra e nel trasferimento a Firenze vide solo di buono una maggiore libertà per le sue vicende personali, che suscitavano a Torino tanti pettegolezzi. Con lui era partita anche la Bela Rosin, Rosa Vercellana, sua amante dall’età di quattordici anni e certo la più importante tra le molte donne della sua vita. Nel 1859, dopo la morte della regina Maria Adelaide d’Asburgo, che gli aveva dato sette figli, il re aveva nominato la Vercellana contessa di Mirafiori e Fontanafredda, criticato dal Cavour e dalla corte. Nel 1869 la Bela Rosin, da cui nel frattempo aveva avuto due figli, diverrà sua moglie morganatica.

    Camillo Benso conte di Cavour in un’incisione d’epoca.

    Come prevedibile, la partenza della corte e del Parlamento creò bruschi contraccolpi a Torino: vennero trasferiti anche uffici pubblici, la zecca, officine statali e numerose banche e società d’affari. Vi furono regressi nella popolazione e nelle attività, a cui si aggiunsero, negli anni Ottanta, gravi dissesti finanziari per le banche torinesi, una crisi agraria ed una guerra doganale con la Francia, che bloccò le esportazioni. Dopo la crisi, la svolta liberale della politica riformista di Giolitti permise la costituzione a Torino ed in Piemonte di un buon nucleo di imprese private meccaniche e metallurgiche, unite alle manifatture tradizionali, spesso sviluppatesi da avviate attività artigianali. Profeticamente già nel 1862 la «Gazzetta del Popolo» aveva scritto: «L’unico progetto di grandezza e di prosperità che sia eseguibile, con fiducia di riuscita per Torino, è quello di farne una città manifatturiera». Così Torino trovò la forza per risorgere e proporsi nuovamente come capitale, sia pur non in veste ufficiale.

    La facciata di palazzo Carignano sulla piazza omonima in un’incisione dei primi del Novecento.

    In questa nuova veste della

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