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Milano al femminile: I talenti delle donne
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E-book495 pagine6 ore

Milano al femminile: I talenti delle donne

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Info su questo ebook

INTERVISTE A
Giovanna Ambrosoli, Jada Bai, Ippolita Baldini, Cecilia Balestra, Rosanna Bianchi Piccoli, Gentucca Bini, Laura Boella, Laura Boerci, Laura Borghi, Monica Bormetti, Gaia Calimani, Marina Calloni, Irina Casali, Daniela Cattaneo Diaz, Giulia Ciniselli, Domitilla Colombo, Valentina Coniglio, Alessandra Coppa, Elisabetta Corradin, Ginevra Costantini Negri, Lilia D’Alfonso, Carla De Bernardi, Diana De Marchi, Ester Di Giacomo, Claudia Di Palma, Oriella Dorella, Alessandra Faiella, Elisabetta Fontana, Raffaella Gay, Anna Gerometta, Maria Rita Gismondo, Marinella Guatterini, Alina Kalczyñska Scheiwiller, Monica Lodetti, Rosangela Lodigiani, Daniela Mainini, Marta Maria Marangoni, Donatella Massimilla, Ewa Minge, Fabiola Minoletti, Valeria Nardi, Adele Nardulli, Irene Natale, Giulia Niccolai, Gabriella Nobile, Francesca Notari, Cristina Pozzi, Greta Radaelli, Ira Rubini, Danda Santini, Donatella Sciuto, Andrée Ruth Shammah, Monica Silva, Cinzia Sternini, Stefania Tansini, Elisa Tattoni, Francesca Tinelli Di Gorla, Maria Torelli, Manuela Ulivi, Sanae Yokota.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita13 dic 2020
ISBN9788816802469
Milano al femminile: I talenti delle donne
Autore

Luisa Marini

Psicoterapeuta, docente di clinica e teoria presso la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica di Milano, autrice di contributi e saggi su riviste specializzate e testi divulgativi. Ha collaborato con RAI 3, «Wall Street International Magazine», «La Pratica Analitica», Setting», «Servitium», «il Resto del Carlino» e «La Voce di Romagna» con articoli su cultura psicologica, arte, letteratura e cinema, sulle relazioni familiari e la condizione della donna. Con Jaca Book ha pubblicato anche Milano è donna (2017).

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    Anteprima del libro

    Milano al femminile - Luisa Marini

    GIOVANNA AMBROSOLI: salvare l’Africa con gli Africani

    Dopo la laurea in Economia Aziendale presso la Bocconi, Giovanna Ambrosoli si è occupata di finanza e marketing e si è impegnata professionalmente nel terzo settore. Dal 2009 si è interamente dedicata alla fondazione che continua l’opera dello zio, padre Giuseppe Ambrosoli.

    Si è occupata di finanza e marketing: è un mondo rigidamente finalizzato al solo profitto o ci sono spazi per una sua declinazione anche etica?

    Credo che qualsiasi ambito professionale, anche quelli maggiormente business oriented, possano essere interpretati e vissuti dal singolo con un forte orientamento all’etica; in funzione dei valori che ciascuno sceglie di fare propri e della coerenza con cui li vive.

    In ambito finanziario, nell’ultimo decennio ha assunto un’importanza crescente la cosiddetta finanza etica che abbraccia una molteplicità di approcci, dalle scelte di investimento nel rispetto di parametri etici, sociali, ambientali, all’utilizzo di una molteplicità di strumenti finanziari per sostenere e sviluppare organizzazioni che perseguono istituzionalmente finalità sociali. E credo che ci sia per il futuro ancora molto spazio per identificare nuovi e sempre più efficaci strumenti di investimento nel sociale. Così per le aziende che fanno della responsabilità sociale un’attività avente pari dignità rispetto a quelle direttamente correlabili ai risultati economici e che perseguono politiche di marketing coerenti con tale approccio. È provato da diverse ricerche che le aziende attente non solo alla sostenibilità ambientale, ma anche concretamente attive nella CSR, hanno maggiori ritorni economici, in quanto il consumatore, soprattutto la fascia dei millennials, è sempre più attento all’etica aziendale, alla trasparenza della filiera produttiva e in tal senso orienta le proprie scelte di acquisto.

    A un certo punto della sua vita ha abbandonato il mondo imprenditoriale e della finanza per dedicarsi completamente alla sua missione in Africa: è stata una folgorazione improvvisa o una decisione maturata dopo una lunga riflessione?

    Né l’uno né l’altro. È stato piuttosto il trasformare un problema in un’opportunità per fare scelte professionali e di vita più consapevoli e aderenti ai miei valori. Un non facile momento di interruzione lavorativa dovuto a un serio problema di salute mi ha obbligata a ripensare il mio percorso, a rivedere le mie aspettative e i miei obiettivi, offrendomi così la possibilità di scegliere altre strade professionali più rispondenti ai miei desideri. Ho sempre avuto una forte attenzione verso il mondo del sociale al quale mi ero sempre dedicata saltuariamente e in maniera volontaristica. Ho cercato una strada nuova e ho capito che potevo spendermi anche professionalmente in questo mondo. Credo fermamente che ciascuno nel proprio ambito privato e professionale, secondo le proprie possibilità, abbia il dovere di restituire alla collettività parte di quanto ha ricevuto, generando un circuito virtuoso che può davvero migliorare il mondo. La mia famiglia ha ricevuto un’eredità straordinaria, l’opera medica e umana lasciata da mio zio, padre Giuseppe Ambrosoli, un ospedale di oltre 300 posti letto, unico presidio ospedaliero di un’area vasta, isolata e poverissima del Nord Uganda e una scuola specialistica di ostetricia che, dalla sua fondazione, ha formato generazioni di giovani donne.

    È Presidente della Fondazione Dr. Ambrosoli Memorial Hospital: ce ne può sintetizzare la storia, le finalità e i progetti realizzati?

    La Fondazione è nata nel 1998 dalla volontà della famiglia Ambrosoli e dei Comboniani di dare continuità e futuro all’opera di padre Giuseppe. Dopo la sua morte, avvenuta prematuramente in Uganda a causa dell’evacuazione forzata dell’ospedale durante la guerra civile, l’ospedale venne riaperto nel 1989 dal medico comboniano padre Egidio Tocalli. Da quel momento iniziò e crebbe un movimento di grande solidarietà da parte di quanti conoscevano padre Giuseppe, che spinse la mia famiglia a cercare una soluzione per proseguire la sua opera. Il segno arrivò proprio da padre Tocalli che si rivolse un giorno alla famiglia dicendo: Ho bisogno di condividere con voi tutto il progetto di Kalongo, di sapere che siete al mio fianco come era stato padre Giuseppe perché la sua opera possa essere imperitura. I nostri sforzi devono unirsi …, così nacque la Fondazione. Oggi, dopo vent’anni, la Fondazione porta avanti il proprio operato coniugando lo spirito di cura, solidarietà e fede che ispirava padre Ambrosoli con una gestione efficiente e ispirata a un efficace modello imprenditoriale e manageriale. I nostri obiettivi sono, da un lato, quello di assicurare alla popolazione locale l’accesso a servizi sanitari di qualità, con forte vocazione alla salute materno-infantile, ostetrica e chirurgica; dall’altro promuovere la formazione medica e manageriale per accompagnare l’ospedale verso il traguardo dell’autonomia.

    Investire nella salute e nella formazione è il miglior investimento per il futuro di un Paese. Grazie alla Fondazione Ambrosoli, unico partner stabile dell’ospedale, sono oltre 50.000 i pazienti assistiti ogni anno, di cui circa il 70% donne e bambini, privi di mezzi di sussistenza e 150 le ragazze che possono accedere ai corsi della Scuola specialistica di Ostetricia.

    La figura e l’operato di padre Giuseppe Ambrosoli ha lasciato una luminosa impronta in Uganda e in tutta l’Africa: qual era il segreto della sua totale dedizione?

    Vai avanti con coraggio. Non c’è mai stato un giorno in cui mi sia pentito della scelta fatta. Anzi questa mia scelta è un’avventura meravigliosa. Questa sua affermazione carica di speranza racchiude tutta la sua forza umana e spirituale. In lui convivevano con la stessa intensità la dimensione del medico e quella del missionario; padre Giuseppe era un uomo coraggioso e mite sostenuto da una fede incrollabile. La sua costante dedizione e le grandi capacità chirurgiche, ma anche lo spirito imprenditoriale e intraprendente, gli hanno permesso in breve tempo di trasformare il dispensario in una struttura sanitaria moderna, con oltre 300 posti letto in grado di garantire assistenza qualificata alla popolazione locale. È stato un visionario se si pensa che a soli 2 anni dalla nascita dell’ospedale, ha deciso di fondare una scuola di formazione per ostetriche per contribuire alla riduzione del tasso di mortalità materna e alla crescita professionale femminile in Uganda. La St. Mary Midwifery School è oggi ufficialmente riconosciuta come una delle migliori realtà formative del Paese, un traguardo importante nella società africana anche per riscattare il ruolo della donna.

    Padre Giuseppe ha vissuto per salvare l’Africa con gli Africani, e questa è sicuramente la luminosa impronta che ha lasciato in quel Paese e a noi.

    Grazie alla sua profonda esperienza, può aggiornarci sulla situazione politica, sociale e umana del Continente nero? Ci sono spiragli per una sua emancipazione?

    La situazione economico-sociale, specie nell’Africa subsahariana, è una delle più disagiate del pianeta: l’aumento massiccio della popolazione e il diffondersi dell’AIDS, oltre alle frequenti siccità e all’instabilità politica, sono alcune delle cause di questo impoverimento. E proprio l’Uganda è uno dei Paesi più poveri classificandosi nell’Indice di sviluppo umano (UNDP 2016) al 163° posto su 188 Paesi. Il reddito pro-capite annuale si aggira sui 510$ e il 38% della popolazione vive sotto la soglia della povertà (1$ al giorno).

    Nonostante i significativi passi avanti compiuti in materia di rispetto dei diritti umani, l’Uganda rimane uno dei Paesi con diversi punti di attenzione per gli organismi che si occupano di questioni umanitarie, essenzialmente derivanti dal conflitto nel settentrione del Paese, terminato nel 2007, dove, secondo fonti ONU, oltre 40.000 minori – bambini soldato – sono stati strappati dalle loro famiglie e arruolati a forza o ridotti in schiavitù dall’inizio della guerra. L’ospedale di Kalongo è stato per i 20 anni di guerra civile, oltre che un essenziale presidio di cura, rifugio sicuro per i pendolari della notte, migliaia di persone che ogni notte trovavano riparo dai ribelli tra le sue mura. Il distretto di Agago, dove l’ospedale opera, presenta ancora oggi condizioni di vita drasticamente peggiori della media nazionale proprio a causa della guerra civile. Se si considera la percentuale di individui che vive in condizione di povertà assoluta, i dati di squilibrio sono evidenti: 19,7% a livello Paese, contro il 43,7% del nord Uganda.

    Ecco perché il nostro impegno quotidiano è particolarmente rivolto alla formazione e alla crescita professionale che rappresentano la sola strada per l’autonomia e lo sviluppo delle persone e dei Paesi.

    In particolare, come vive la donna africana il contrasto tra una tradizione maschilista, il problema demografico e l’anelito all’affermazione di un suo spazio di dignità e di autonomia?

    Le donne sono il fulcro della famiglia e della società africana, ma la loro condizione di donne e mamme presenta ancora oggi nel Paese fortissimi elementi di criticità. Le Nazioni Unite hanno calcolato che il Paese presenta un altissimo indice di disparità di genere, dovuto all’elevata mortalità materna, all’alto tasso di fecondità delle adolescenti e alle ridotte possibilità di emancipazione delle donne, che classificano il Paese al 121° posto su 149 analizzati (UNDP, Uganda Country Gender Assessment, 2016). L’indice di fertilità è altissimo: ogni donna ha in media 6 figli e il 15% di loro partorisce il primo figlio tra i 15 e i 19 anni.

    La scuola di ostetricia, di cui nel 2019 ricorre il 60° anniversario, rappresenta uno strumento fondamentale di empowerment femminile. Dalla sua nascita si sono diplomare più di 1.300 ostetriche che, grazie a una formazione qualificata, hanno contribuito con professionalità alla prevenzione, alla cura e alla formazione delle donne non solo in Uganda, ma anche in numerosi Paesi dell’Africa subsahariana. Come Fondazione siamo impegnati nel sostegno della scuola, con l’erogazione di borse di studio e nello sviluppo di questa istituzione che speriamo e vogliamo possa diventare nei prossimi anni Faculty della laurea in ostetricia.

    Buona parte delle attuali migrazioni proviene dall’Africa: come vede questo fenomeno epocale e quali problemi comporta? La sua fondazione propone una migrazione controcorrente

    Stiamo vivendo un momento particolarmente delicato e fragile. Il tema dei migranti è caratterizzato da percezioni a volte distorte della realtà, dove la portata del fenomeno viene amplificata più del dovuto contribuendo ad acuire il clima di allarme sociale.

    Come ha scritto Mario Calabresi nella prefazione del libro Chiamatemi Giuseppe: L’accoglienza risulta ancora più eccezionale quando si pensa alla ‘migrazione controcorrente’ di medici, giovani specializzandi, di volontari. Questo è proprio quello che rispecchia il lavoro che abbiamo fatto in questi anni per continuare l’opera di padre Giuseppe. Oltre al fondamentale sostegno finanziario che la Fondazione ha potuto garantire in questi 20 anni, ci sono state persone, e sono state tante, che hanno sostenuto l’ospedale e la scuola di ostetricia lavorando sul campo, in prima linea, portando competenze, partecipazione, scambio. In 10 anni grazie alla Fondazione l’ospedale di Kalongo ha potuto beneficiare del contributo professionale di 50 tra medici, tecnici e amministrativi.

    Per noi sono persone speciali, che hanno dato tanto all’ospedale ma sono anche convinta che anche tanto si siano portati a casa dalla loro esperienza professionale e umana.

    Che peso ha avuto Milano nella sua storia e in quella della sua famiglia?

    Anche se la mia famiglia paterna è originaria di Ronago, piccolo paese della provincia di Como ai confini con la Svizzera dove ha vissuto anche padre Giuseppe, la mia storia personale si è svolta a Milano, dove mio padre si è trasferito da giovane studente e dove io ho sempre vissuto.

    La bellezza, la vitalità, la trazione internazionale e l’approccio concreto e operoso alla solidarietà hanno sicuramente contribuito, oltre all’ambiente familiare in cui sono vissuta, alle mie scelte professionali e di vita.

    Quale risposta ha dato la città e i milanesi all’attività della sua fondazione?

    Una parte importante dei nostri sostenitori è qui a Milano. Milano è una città viva, aperta all’ascolto e al dialogo e vogliamo considerare questo risultato solo l’inizio di un percorso per contribuire a far crescere quel bisogno di solidarietà e di bene di cui oggi c’è sempre più bisogno.

    Milano, con un ruolo nazionale e internazionale sempre più importante, ci offre continue nuove opportunità in termini di Fund raising, ma anche di confronto e di scambio continuo, linfa vitale per lo sviluppo della nostra Fondazione.

    JADA BAI: la donna cinese tra tradizione ed emancipazione

    Dopo un inizio come interprete e traduttrice freelance (di cinese – italiano), in particolare presso il Consolato e la Camera di Commercio cinesi, ha intrapreso la carriera di mediatrice culturale e docente di lingua cinese per poi approdare alla sua attività di coordinamento didattico ed organizzazione di eventi.

    Sono nata in Cina nel 1984. All’età di quattro anni sono arrivata a Milano e sono molto orgogliosa di aver frequentato il liceo classico. È lì, infatti, che si sono formati il mio impegno e la mia coscienza civile. Dopo la laurea ho cominciato un percorso che ha come obiettivo una società multiculturale e inclusiva, prima facendo l’interprete di cinese italiano, poi lavorando nella mediazione culturale per enti e associazioni fino a impegnarmi nel mio attuale lavoro di coordinatrice di una scuola di lingua cinese all’interno di una realtà che sta in bilico tra la cultura italiana e la cinese. Il cammino è arduo ma ci stiamo provando, anche con amici cinesi e italiani che hanno a cuore il tema. Siamo convinti che una tappa fondamentale sia la conoscenza reciproca; quindi ognuno nel suo settore cerca di promuovere e sviluppare azioni volte a una reale conoscenza dell’altro, della sua storia e delle sue tradizioni.

    Che cosa ha mantenuto della tradizionale figura della donna cinese e che cosa ha rifiutato?

    La figura della donna cinese nelle comunità in Italia ha ancora profonde influenze confuciane. Mi ricordo una frase di mio padre che diceva: Ci sono cose che una donna può fare e cose che non può fare. Io trasformerei il verbo dovere in volere. A differenza di tante mie coetanee di seconda generazione, io non ho avuto un percorso regolare, matrimonio a venti-venticinque anni e due tre figli entro i trentacinque e non sono diventata un’imprenditrice, ma ho scelto un lavoro nel mondo del sociale. Mi piace molto l’immagine di femminilità della Cina classica: una donna dal carattere temperato e posato, una figura bella e slanciata, un giunco. Slegata dagli aspetti maschilisti e patriarcali non è male e sarebbe bello riuscire a fonderla con caratteristiche occidentali come ad esempio la fiducia in sé stessi e la vivacità.

    Che differenze ci sono tra l’uomo cinese e l’uomo italiano/milanese?

    L’uomo cinese sa che ci sono dei doveri e delle responsabilità verso la propria famiglia quali la sicurezza economica o avere dei discendenti. In una società gerarchizzata con dei ruoli stabiliti infatti è più facile che l’uomo sia cosciente dei suoi doveri. L’uomo italiano, invece, può essere anche molto irresponsabile verso la famiglia o verso la società, però ha un’immaginazione e una vitalità che sono contagiose e affascinanti. Io sono stata più attratta dalla libertà che la vita con un uomo italiano permette ed è per questo che ho scelto un marito italiano.

    Single, coppia, famiglia: qual è il futuro della donna?

    La libera scelta è il futuro della donna, deve esserlo. Penso che la nostra più grande battaglia sia quella di affermare la nostra libertà e l’autodeterminazione. Scelgo se essere single, moglie, partner, madre. Anche qui il cammino è ancora arduo sebbene ci sia stato il femminismo a fare da apripista. La società purtroppo sembra criticare qualunque modello: se sei single ti chiedono perché sei single ecc. Forse è arrivato il momento di smettere di chiedere e di lasciar agire.

    Ci parli della sua esperienza di insegnante e mediatrice culturale

    Sono stata mediatrice fino al 2014 e ora sono docente di lingua e cultura cinese e coordinatrice didattica di una scuola di lingua cinese, la Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina. È un bellissimo lavoro, stimolante e appassionante. Certo, c’è la fatica di trovarsi sempre su un palco quando insegni, ma anche tanta soddisfazione quando vedi che sei riuscita a trasmettere un’immagine non stereotipata e negativa della Cina. Come coordinatrice di una scuola ci sono più opportunità di centrare l’obiettivo perché puoi realizzare dei progetti a lungo termine; hai la possibilità di organizzare eventi e collegare tante realtà che hanno a che fare con la Cina all’insegna di questo obiettivo.

    Ha detto che ha voluto scegliere di fare cose più utili che redditizie, andando controcorrente rispetto alla sua tradizione familiare. La mentalità cinese è forse più portata all’azione che alla meditazione?

    La comunità cinese che c’è in Italia ha origini contadine. I nostri genitori hanno sempre dovuto lottare con una terra tradizionalmente avara, inevitabile quindi che questa prima generazione di cinesi arrivati in Italia abbia fatto di tutto per uscire dalla povertà attraverso un duro lavoro e un faticoso risparmio. E altrettanto normale è il desiderio di riscatto sociale da parte delle seconde generazioni attraverso la gestione delle attività di famiglia, cosa che, se fatta bene, è molto remunerativa. Io non sono un’imprenditrice, la parte commerciale mi mette ansia e ho scelto un lavoro altro. Sono una dipendente e guadagno uno stipendio che per me è dignitoso, ma non per la mia famiglia che aveva altre aspettative.

    Luci e ombre della Cina di oggi…

    A mio parere la Cina di oggi è alla ricerca di equilibrio, tra passato e presente, modernità e tradizione, città e campagna. La Cina è cresciuta talmente tanto e talmente tanto in fretta in questi ultimi dieci anni che nella stessa città si vedono moderni grattacieli accanto a baracche in demolizione e manager in giacca e cravatta mangiare nella stessa trattoria frequentata da operai. Non c’è stato un periodo di transizione. Non è facile governare un gigante di questa portata e in un certo senso il governo è stato abile nel mantenere una sostanziale stabilità interna. Ovviamente, la Cina ha millenni di storia e validi esempi di grandi strateghi come possiamo dire sia l’attuale Presidente Xi Jinping il cui motto è Make China Great Again.

    Perché molti cinesi hanno scelto di venire in Italia e in Europa?

    Lo scorso anno c’è stata una mostra al Mudec, risultato di una ricerca sull’argomento, che racconta i cento anni della comunità cinese in Italia. Negli anni Venti del secolo scorso infatti arrivò in Italia un primo gruppetto pieno di spirito d’avventura. I grandi flussi del 1970-1980 e del 1990 furono per la maggior parte ricongiungimenti familiari: intere famiglie si spostarono da un gruppo di villaggi nella provincia dello Zhejiang per arrivare nelle grandi e piccole città italiane ed europee, creando una rete di comunità cinesi in tutta Europa. È questo il bello. Io ho parte della famiglia in Spagna così come amici in Francia, Belgio, Olanda e Germania. L’Italia la scelsero prevalentemente perché negli anni Ottanta ci fu una grossa sanatoria e la possibilità di stabilirvisi e avere una vita diversa. È in questo momento che l’Italia viene scelta da tanti studenti cinesi come meta preferita dei loro studi, per la musica, l’arte, il design, lo stile di vita italiano insomma.

    Che cosa le piace e che cosa non le piace del sistema di vita italiano/milanese?

    Mi piace la possibilità della libera scelta (e di conseguenza l’esercizio della democrazia). Crescendo in un ambiente confuciano, con valori quali la forte gerarchia dei ruoli e un rigido codice di comunicazione, la libertà che respiravo a scuola negli anni della formazione mi sembrava importante quanto l’aria. Poi però, crescendo, mi sono resa conto che c’erano altre barriere e altre restrizioni, più invisibili, ma pur sempre reali. Ne sono rimasta molto delusa anche se ho trovato il modo di conviverci. Mi piace molto la rilassatezza della vita italiana al contrario di quella cinese dove l’autocontrollo è molto importante, si lavora molto e ci si concede molto poco, anche a livello mentale. È come se non ci si riposasse mai. Mi ricordo che la prima volta che andai in vacanza con mio marito, allora fidanzato, ero terrorizzata perché non sapevo cosa si doveva fare in vacanza.

    Milano è stata in passato una città accogliente con i cinesi, basti pensare al quartiere cinese che ruota attorno a via Sarpi, lo è anche oggi?

    È vero, io sono stata accolta molto bene e ho vissuto una vita scolastica serena da questo punto di vista. Però erano gli anni Novanta del secolo scorso e i bambini stranieri ancora pochi. Negli anni di mediazione sociale ho riscontrato un grande timore da parte degli insegnanti nella gestione dei bambini non italiani doc. Da una parte, c’era quello di potere in qualche modo offendere una sensibilità diversa poiché non conoscevano i mondi di provenienza dei bambini e, dall’altra, una cecità di visione, sempre dovuta alla poca formazione. Mi ricordo una maestra che non capiva perché il bambino cinese non la guardasse negli occhi e che davanti alla mia spiegazione sulla gerarchia confuciana, mi rispose che era dispiaciuta perché gli occhi sono lo specchio dell’anima. È stata a suo modo una scena divertente.

    Nella comunità cinese milanese prevale la linea dell’integrazione o quella della chiusura in sé?

    La chiusura che si riscontra nella comunità cinese è da una parte una caratteristica propria delle comunità di immigrati e dall’altra una particolarità del sistema lavorativo dell’etnia cinese, che prevedeva di lavorare in attività aperte dai connazionali. Questo sistema è ormai scardinato, infatti si vedono persone di altra nazionalità lavorare come dipendenti nelle attività cinesi. Poi le nuove generazioni hanno diversificato le attività commerciali: ci sono negozi di telefonia e assistenza elettronica, negozi di abbigliamento, agenzie di viaggio. Oppure si cercano altre strade come un lavoro dipendente all’interno di grandi aziende, si fondano attività di ristorazione di alto livello riscoprendo la tradizione culinaria della madrepatria o si fondano aziende di fornitura elettrica come la Chinapower. Ci sono anche associazioni di giovani cinesi come Associna o l’Unione Nazionale degli Imprenditori Italo Cinesi (UNIIC) che vogliono e possono operare per una società sempre più multiculturale.

    IPPOLITA BALDINI: sorprendere e far divertire

    Attrice italiana di origine milanese, diplomata all’Accademia di Arte Drammatica Silvio d’Amico, dal 2009 ha lavorato come attrice per progetti teatrali e cinematografici (per Pedro Almodóvar ha realizzato un cortometraggio su Mina Mazzini). Del suo repertorio fanno parte spettacoli brillanti e monologhi comici tratti dal repertorio di Franca Valeri e Franca Rame. Dopo essersi esibita, nel 2014, negli USA, ha realizzato, con la collaborazione di Emanuele Aldrovandi, il suo primo show, Mia mamma è una Marchesa, rappresentato, fra gli altri, al Teatro Parenti e presso la sede dell’Istituto Italiano di cultura a Parigi.

    Nel 2015 ha iniziato la sua attività nel cabaret, partecipando allo Zelig Lab di Milano e con il nuovo personaggio di Lucia Agazzi, detta Lucy, una milanese single in cerca d’Amore è entrata a far parte del cast di Colorado. Ultimamente, ha debuttato con il secondo capitolo del suo show, Una Marchesa ad Assisi.

    Ecco un breve autoritratto che parla di me…vado a braccio, di getto.

    Sono diplomata in Graphic Design allo IED di Milano e successivamente ho deciso di fare l’attrice. Lavoravo in un grande studio di architettura (Matteo Thun, a Milano) e piangevo davanti al computer perché anziché essere lì a lavorare avrei voluto essere a fare le prove in teatro con i miei amici. Avevamo fondato una compagnia teatrale nel quartiere di Paolo Sarpi e facevamo i nostri spettacoli al Teatro Verga. Un hobby diventato passione. Un corso pomeridiano divenuto una professione: quando mia mamma all’età di 15 anni mi chiese se preferivo fare il solito corso di tennis in via Mac Mahon o provare un corso di teatro al Circolo Filologico Milanese, non ho avuto dubbi. Da sempre in famiglia e a scuola mi dilettavo nelle imitazioni e ho sempre adorato far ridere gli amici e i parenti. Mia mamma è una marchesa, provengo da una famiglia aristocratica e numerosa. Ho deciso di fare il giullare di corte.

    Alle medie ho scoperto Franca Valeri. Una mia compagna di classe con cui facevo i compiti il pomeriggio aveva un disco in vinile con gli sketch radiofonici della Valeri. Ridevamo come pazze e passavamo i pomeriggi ad ascoltarlo. Sono uscita con SUFFICIENTE dalle medie al Parini, ma in compenso sapevo a memoria tutti gli sketch della Valeri. Li rifacevo in macchina quando andavamo in montagna o al mare con la mia famiglia, come se fossero delle canzoni, con lo stesso ritmo e gli stessi respiri; così ho imparato, ho introiettato il tempo comico. Credo sia andata così.

    Il Teatro è una vocazione, è arrivata. La prima volta che sono entrata in un teatro vuoto mentre i tecnici sul palco montavano le luci, mi sono seduta al buio nella platea, ho fatto un sospiro e ho avuto la forte sensazione di sentirmi a casa: Ah! Sono a casa. Questa per me è la vocazione. Ma ce ne sono tante di vocazioni nella vita e la mia vita non si ferma al solo lavoro: sogno una famiglia, un marito, dei figli. Sono ancora sogni perché per il momento non ho incontrato nessuno per cui tirare un sospiro e dire Ah! Sono a casa.

    Trovare la propria vocazione è una grande GIOIA, amare è una grande gioia, amare il proprio mestiere è una grande gioia.

    Sono stata delusa da diverse persone nella mia vita. Da alcuni uomini in ambito sentimentale e nel lavoro da diversi casting director o agenti. Due figure professionali che mi hanno molto deluso nel periodo in cui ho lavorato a Roma. Ora che vivo a Milano, non ho ancora avuto delusioni di questo genere. Non voglio fare nomi, ma certi agenti e certi casting director mi hanno trattata veramente male, come un numero. Odio essere trattata come un numero. Faccio l’attrice e c’ho l’ego un po’ superbo… hihihi.

    Soprattutto dopo aver realizzato il progetto Mina ho fatto il giro delle sette chiese a Roma tra agenti e casting per far vedere questo lavoro, con un grande entusiasmo, simile a quello di quando si fa vedere un bambino dopo il parto. Per poco non c’hanno sputato sopra, non l’ha cagato nessuno. Grande delusione.

    Progetti TANTI, parallelamente al lavoro di attrice scritturata che negli anni andava e veniva, ho realizzato, io, da zero, diverse cose. Non mi è mai piaciuto oziare. Ho creato il progetto Mina, sono partita per Jakarta in Indonesia per fare un corso di teatro ai bambini di un orfanotrofio, poi ho scritto il mio primo spettacolo Mia mamma è una Marchesa e con questo sono entrata nella scuderia di Zelig che mi ha lanciato in TV con il personaggio di Lucia Agazzi. Sto scrivendo il sequel di Mia mamma è una Marchesa e ho tanta paura. Sono una persona paurosa! Ma ironica! e mi butto.

    È vero che donna non si nasce, ma si diventa?

    Certo che è vero! Si nasce femmine, poi si diventa bambine, poi adolescenti e alla fine di queste salite prosegui il tuo cammino da donna, sempre in salita ma con un paesaggio stupendo e un sentiero incasinatissimo! Per questo non vedo l’ora di fidanzarmi! Così prendo il sentiero più semplice dell’uomo! Da sola continuo a perdermi…

    Single, coppia, famiglia: qual è il futuro della donna?

    Tutti e tre, dipende dalle scelte che uno fa. Basta essere felici e liberi in ciascuna di queste scelte. Basta aver risposto di sì al disegno d’Amore pensato per te. Dipende cosa senti nel cuore. Io sento il desiderio di una famiglia e arriverà. Per ora corro verso la realizzazione di questo desiderio, non come Lucy (Lucia Agazzi) che si butta a 200 km orari contro gli uomini, ma vado anche io incontro al mio destino d’Amore!

    Pirandello aveva distinto il comico, un riso fine a sé stesso, dall’umoristico, un riso amaro che nascondeva un dramma: Lucia Agazzi Lucy è più comica o umoristica?

    Bella questa domanda! Penso che per Lucia Agazzi si possa parlare di una comicità umoristica. Il personaggio di Lucia nasce da una profonda ferita e da una paura grande: rimanere sola. Mi sono immaginata che questa ragazza si è lasciata malissimo nella sua storia precedente, è ferita e si butta nelle feste e sugli uomini con questa irruenza per non star ferma, per non sentire la ferita. Lucy allo stesso tempo però è una maschera, non avrà mai uno sviluppo, la troveremo sempre in questa situazione, in questo limbo, come Arlecchino sarà sempre un servo. Come maschera utilizza un linguaggio bidimensionale, uno schizzo, un fumetto, quindi utilizza il linguaggio della comicità, non dell’umorismo. Spero di aver risposto.

    La sua alter ego, Lucy, è una giovane donna alla ricerca dell’Amore: quale?

    Non so se ho capito la domanda, ma provo a rispondere… Lucy e io cerchiamo l’Amore. Lo incarniamo in un uomo bello, intelligente, sensibile, dai grandi valori, con il senso della giustizia e buono con cui fare una famiglia. Possibilmente anche ricco. Per questo sia io che Lucy siamo ancora single!

    Come descriverebbe il corrispettivo maschile di Lucia Agazzi?

    L’anno che ho debuttato a Colorado c’era anche un ragazzo che faceva il discotecario, un po’ zarro. Ecco, ho sempre pensato che potesse essere il corrispettivo maschile della Lucy. Non mi ricordo il nome, un bravo attore genovese… La donna quando entra in questi loop d’ansia da single diventa un po’ sopra le righe e agitata e goffa (come Lucy), ma mai volgare, l’uomo, invece, nella sua Santa semplicità diventa inguardabile. Mi ricordo una sera in discoteca sul lago di Garda di aver visto degli uomini strusciarsi contro i pali e le tipe in maniera miseramente goffa, con la faccia contrita cantando a squarciagola una canzone agghiacciante I want to fuck in L.A. Fuck in New York…. Ricordo ancora l’immagine.

    È difficile, dopo aver rivestito i panni di Lucia Agazzi, ritornare a essere Ippolita Baldini?

    No! Lucia Agazzi è una parte di me! Molto giocosa e naive. Io mi diverto molto a interpretarla. Ci sono però dei giorni in cui sono molto riflessiva e seria (noi comici non siamo sempre dei burloni nella vita normale). In quei casi di pesantezza d’animo è più difficile vestire i panni colorati e frivoli di Lucy, ma allo stesso tempo è estremamente terapeutico!

    Ha calcato le scene di cabaret, teatro, televisione, cinema: in che cosa è rimasta sempre la stessa e in che cosa ha dovuto modificarsi?

    In nessuna di queste cose sono rimasta la stessa. Nell’approccio rispetto a ciascun settore (cabaret, teatro, televisione, cinema) ho dovuto modellarmi e modificare certi automatismi, certi metodi di lavoro, imparare dagli altri, osservare, ascoltare… dopo aver esplorato il settore non sono mai tornata la stessa. È tutto in crescita e tutto cambia. Il Teatro è la cosa da cui arrivo e a cui torno sempre dopo aver esplorato cabaret, TV, cinema, ma non torno mai al Teatro come prima, porto tutta l’esperienza degli altri settori. In particolare il cabaret devo dire che mi ha modellato molto come attrice. Il cabaret insegna due cose importantissime, l’umiltà (che a noi attori fa sempre molto bene, abbiamo un ego un po’ sopra le righe) e il dialogo con il pubblico.

    Quali sono state le attrici che l’hanno maggiormente ispirata?

    Franca Valeri e Franca Rame. Le mie donne franche. Ho amato la loro ironia e franchezza nel recitare, con onestà, con amore/vocazione e con genialità (questo soprattutto la Valeri). Hanno scritto dei testi molto belli.

    Nei suoi personaggi rappresenta un po’ lo stereotipo della ragazza milanese: che cosa c’è di vero e che cosa di caricaturale?

    Nel personaggio di Roberta in Mia mamma è una Marchesa, non c’è niente di caricaturale. È tutto vero! Anche la mamma! In Lucy, come spiegavo prima, essendo una maschera, ho esasperato degli aspetti veri delle donne. L’ansia che le rende esagitate e goffe con la parlantina… Sono tutte cose vere strecciate in uno schizzo. Ho anche esasperato gli inglesismi che vanno tanto di moda oggi soprattutto tra le grandi influencer.

    In che modo l’ambiente milanese ha influenzato la sua formazione e la sua personalità artistica?

    Tantissimo. Nella mia autobiografia ho deciso di citare i luoghi milanesi che mi hanno forgiato in modo da rendere onore alla mia città. Anche la mia maestra artistica Franca Valeri mi rende ancora più meneghina. Zelig, la Martesana, le nutrie mi hanno lanciato nel mondo della TV. Ho studiato alla Silvio d’Amico di Roma, ma ho sempre mantenuto la mia autenticità milanese, ci tengo e ci sono profondamente affezionata. Ho origini inglesi, la mia bisnonna proveniva da Londra, ma parlava solo due lingue, l’inglese e il dialetto milanese.

    Milano è una città amica delle donne?

    Mi sembra di sì. Milano l’ho sempre immaginata come una donna molto elegante, una di quelle donne super seducenti del Boldini per intenderci. Con la collana di perle, lo sguardo fiero sul pittore e una eleganza ineguagliabile. Milano è amica di tutti, ma te la devi conquistare, all’inizio sembra fredda, ma poi è un fuoco di passione e di bellezza! Come me!

    CECILIA BALESTRA: nuove dimensioni d’ascolto

    Dopo la laurea in Filosofia, si è specializzata in management culturale. Attiva dal 1997 nel settore musicale, docente e saggista, è direttrice di Milano Musica – Associazione per la musica contemporanea e membro del Consiglio direttivo di Music Fund e ItaliaFestival.

    Ciò che più mi delude è la falsa coscienza… e per le gioie, anche le cose minime mi danno allegria… ma provo gioia soprattutto se legata alla meraviglia. Tengo moltissimo a Milano Musica e non solo per il Festival, per la sua storia, per il suo magnifico pubblico, ma per la prospettiva, anche attraverso il Festival, di promuovere politiche culturali a sostegno della creazione musicale contemporanea. Il mio sogno attuale, un nuovo spazio a Milano di circa 700 posti, modulabile e tecnologicamente avanzato, per programmare teatro musicale contemporaneo e opera barocca, con un’ottima acustica anche per la musica da camera. È ciò che manca…

    Quali sono stati gli incontri, le scoperte, le esperienze che l’hanno portata ad abbracciare la musica contemporanea?

    Fin dai primi anni di università – ho studiato Filosofia, con una laurea in Estetica – mi interessava la nuova musica, la ricerca, l’immaginario sonoro dei compositori che avevo avuto occasione di incontrare.

    Seguivo il Seminario di Filosofia della Musica di Giovanni Piana, si ascoltavano le registrazioni dei concerti della Biennale Musica di Venezia e si frequentava il Festival Milano Musica… Ho lavorato a Tempo Reale, centro di ricerca, produzione e didattica fondato da Luciano Berio a Firenze, e a Rai Trade, con Mimma Guastoni, nel settore delle Edizioni musicali. E successivamente, dalla fine del 2007, a Milano Musica, con Luciana Pestalozza, che nel 2012 ha proposto che ne divenissi direttrice.

    È direttrice di Milano Musica e responsabile per l’Italia di Music Fund: ci può sintetizzarne finalità e attività?

    Le finalità sono senz’altro diverse ma dal mio punto di vista convergenti… in fondo si tratta di esplorare dei mondi di confine… attraverso azioni, e un lavoro quotidiano, molto concreti e il più possibile costruttivi.

    Come Festival, uno degli scopi principali è sostenere la creazione, la ricerca musicale e la promozione della musica contemporanea, mirando al più alto livello qualitativo e assumendosi il rischio di spostare l’orizzonte sempre più avanti. La musica di oggi si muove in una dimensione strutturalmente internazionale… selezionare e far conoscere il nuovo rimane prioritario anche per far scoprire al pubblico nuove dimensioni di ascolto e di percezione dei mondi sonori della contemporaneità.

    Music Fund è un progetto di cooperazione culturale che, attraverso le donazioni di strumenti e la formazione di tecnici specializzati nella manutenzione e nella riparazione, nel Terzo Mondo e nelle zone di conflitto, sostiene lo sviluppo delle attività musicali in loco. Crediamo nella cooperazione culturale come strumento di sviluppo socio-economico… il livello di motivazione, di impegno e di competenze acquisite dai tecnici mozambicani formati

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