Maledico il tuo sangue: Un'indagine nella Treviso anni '80
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Finché una mattina un cadavere viene rinvenuto a bordo di un barchino ormeggiato lungo il “ramo morto” del Sile: si tratta di un corpo maschile cui è stata tagliata la testa. Il giovane tenente Dalmasso, appena trasferito da Cuneo, riceve l’incarico di condurre l’indagine: data l’inesperienza sul campo, il questore decide di affiancargli un uomo di esperienza. Per il vicecommissario Zoia si concretizza la possibilità di tornare in pista e ritrovare la fiducia smarrita dentro se stesso.
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Maledico il tuo sangue - Gianluca Ascione
1
«O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito.»
La chiesa, pur essendo ricolma di fedeli riuniti in preghiera, non era completamente gremita: alcune panche, soprattutto quelle delle file mediane, presentavano dei posti vuoti. Il che trovava una semplice e ragionevole spiegazione. I credenti che occupavano le prime file si suddividevano in due sottocategorie: quelli che volevano creare una sincera empatia con la celebrazione e cercavano di essere il più vicino possibile all’altare; e quelli che, spinti da un moto meno spirituale, puntavano a farsi vedere dal parroco. Coloro che riempivano le ultime file, bramavano il raggiungimento di due obiettivi: primo, poter seguire la funzione con una certa rilassatezza; secondo, ma solo in ordine temporale, essere i più vicini alla porta d’uscita. Le ultime sedute a essere impegnate, erano sempre quelle al centro: perfettamente equidistanti sia dall’altare sia dall’uscita; lontani da Cristo e lontani dal mondo pagano che li attendeva fuori.
Don Michele, terminata l’omelia che aveva trattato il tema della maternità lanciando una frecciatina alla fresca legge sull’aborto, concesse alcuni minuti per riflettere sul discorso che aveva appena pronunciato. Un esercito di teste chinate che, a poterne leggere i pensieri, nascondevano uno sciame di considerazioni inappropriate. Comincio ad avere fame, speriamo che don Michele si dia una mossa. Domenica per la Juve dovrebbe essere una passeggiata contro la Pistoiese. Oddio, devo aver bucato una calza. Anche quest’anno la Sonia mi costringerà al rito dell’albero e del presepe; addio briscola al bar. Ma guardatela la moglie del notaio Viviani: si è tutta acchittata, neanche dovesse sfilare alla settimana della moda a Milano. Entro il quindici devo fare il tagliando alla macchina, bisogna che prendo appuntamento da Carlo. Guarda come si è conciata la bionda in terza fila, ma non si vergogna a venire in chiesa con una gonna così corta?
Il sacerdote si riavvicinò al microfono per introdurre la preghiera universale che concludeva il rito della liturgia della parola.
«Per la Chiesa di Cristo, a imitazione di Maria Vergine e madre, come sposa santa e immacolata, affinché vada incontro al Signore che viene, preghiamo.»
«Benedici e proteggi i tuoi figli, Signore.»
I coniugi Massaro si erano accomodati in una zona franca, la quinta fila. La signora Maria, che partecipava assiduamente alle attività della parrocchia, era una fervida credente; Gianni, il marito, anche se non lo avrebbe mai ammesso, si trascinava fin lì solo per compiacere la moglie. Suo padre era stato partigiano e comunista, posizioni che mal si conciliavano con quelle del mondo ecclesiastico.
«Perché ogni nuova vita concepita riconosca in Maria Immacolata un segno di consolazione e di speranza in mezzo alle prove della vita, preghiamo.»
«Benedici e proteggi i tuoi figli, Signore.»
«Perché ogni nuova vita concepita nel grembo materno sia accolta e custodita come un valore intangibile e una benedizione di Dio, preghiamo.»
«Benedici e proteggi i tuoi figli, Signore.»
Nuova vita. Grembo materno. Valore intangibile. La signora Maria aveva la quinta elementare, non era di certo un’erudita, ma aveva compreso la forza di quelle parole e aveva trattenuto a stento le lacrime. Lei era madre e questo bastava a comprendere il legame indissolubile che legava la Vergine, di cui portava il nome, al suo santissimo figlio. Avere della prole significava una grande gioia, ma anche tante tribolazioni; ne era certa: anche la Madonna doveva aver provato quel genere di sofferenza che ora stava patendo lei.
«Pregate fratelli e sorelle perché il mio e il vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre Onnipotente.»
Don Michele cominciò i preparativi per la liturgia eucaristica. Un silenzio solenne aveva saturato l’intera chiesa, rotto solo dal pianto di un infante aggredito dai morsi della fame.
«Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta.»
Non c’è resurrezione per lui.
«La pace del Signore sia sempre con voi.»
«E con il tuo spirito.»
«Scambiatevi un segno di pace.»
Non c’è pace con lui.
Ultimato il rito di comunione, il sacerdote si era diretto ai piedi dell’altare stringendo la pisside che conteneva le ostie. I fedeli avevano cominciato a defluire disposti su due file, un lento e paziente pellegrinaggio verso l’eucarestia cui molti non prendevano parte. Una stranezza che contraddiceva il senso stesso della partecipazione: se il motivo primario della messa era la comunione con Cristo, perché sottrarsi al momento più significativo?
È inutile, Dio mi ha già punito.
«Preghiamo. Il sacramento che abbiamo ricevuto, Signore Dio nostro, guarisca in noi le ferite di quella colpa da cui, per singolare privilegio, hai preservato la beta Vergine Maria, nella sua immacolata Concezione. Per Cristo nostro Signore.»
Certe ferite non guariscono.
«Il Signore sia con voi.»
«E con il tuo spirito.»
«Vi benedica Dio onnipotente, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.»
«Amen.»
«Ite, missa est.»
«Deo gratias.»
Lo scorrimento verso l’uscita aveva seguito lo schema previsto: rapido deflusso delle ultime file, leggero intasamento a collo di bottiglia per quelle successive, svuotamento finale con le ultime presenze attardate da qualche chiacchiera di circostanza.
Don Michele aveva colto la figura raccolta in preghiera davanti alla statua della Madonna e aveva deciso di avvicinarsi.
«Buongiorno Maria.»
«Buongiorno don Michele.»
«Ci sono novità?»
«No, purtroppo.»
«Quanti giorni sono passati?»
«Oggi sono dieci da quando abbiamo fatto la denuncia.»
«La polizia che dice?»
«Che potrebbe essere un allontanamento volontario; che non è il primo ragazzo a scappare di casa; che continuano le ricerche. Ma io non ci credo: sento che gli è successo qualcosa.»
«Non abbatterti e continua a pregare.»
«Prego la Madonna tutti i giorni: lei è stata madre come me, lo sa la pena che ho nel cuore.»
«Ne sono certo.»
«Mi prometta che pregherà anche lei.»
«Vi ricordo sempre nelle preghiere della sera.»
«Grazie.»
«Gianni?»
«È fuori che mi aspetta.»
«Come sta?»
«Lo sa com’è fatto: parla poco, tiene tutto dentro.»
«Se vuoi posso provare io a…»
«È meglio di no» lo interruppe subito «io lo conosco bene: preferisce stare da solo piuttosto che mostrarsi fragile.»
«Capisco; però appena sapete qualcosa, avvisami.»
«Speriamo.»
«Per qualunque cosa sono qui» raccomandò mettendole una mano sulla spalla.
«Grazie.»
Guardò la donna percorrere la navata: il capo abbassato, il tronco piegato in avanti, le braccia conserte, la disperazione condensata in quell’andatura ricurva. Nel silenzio assoluto, il riverbero dei tacchi aveva un che di sinistro.
2
Lui rappresentava l’antitesi di tutto ciò che la figura del poliziotto era stata costruita dal moderno immaginario collettivo. Colpa del cinema e della televisione.
A creare quel senso di inappropriato ci aveva pensato Maurizio Merli con i film poliziotteschi in cui si era calato nella parte del commissario Leonardo Tanzi: alto, biondo, atletico, baffuto, combatteva il crimine infischiandosene di codici e regole. Se c’era da sparare, sparava. Se c’era da menare, menava. In costante rivolta contro l’ingiustizia e il lassismo di superiori smidollati e magistrati burocrati.
Il vicecommissario Giusto Zoia, prossimo alla soglia dei quarant’anni, non era molto alto, superava di poco il metro e settanta, portava gli occhiali per la miopia, aveva una pancetta piuttosto evidente e si radeva tutti i santi giorni. Il lavoro svolto presso l’Ufficio Amministrativo, che si occupava della tenuta della contabilità e degli adempimenti tributari, gli evitava qualunque contatto con soggetti ritenuti socialmente pericolosi. C’era stato un momento nel passato recente, in una vita precedente per dirla alla sua maniera, in cui aveva prestato servizio nella IIª sezione della Squadra Mobile, e che lo aveva messo faccia a faccia con delinquenti della peggior specie: mariti maneschi, violentatori sessuali, papponi, pederasti, assassini brutali, infermi di mente. Un campionario ripugnante che costituiva un invito alle punizioni corporali. Tuttavia, a differenza di certi colleghi, mai aveva ecceduto nella condotta: a usare le maniere forti sussisteva il rischio che qualche azzeccagarbugli scaltro e puntiglioso gli torcesse contro il dito accusatore della giustizia.
Adesso, ad aprire una vera e propria voragine, ci si erano messi anche gli americani in combutta con la RAI. Il giovedì sera, presso una stazione di polizia della California, prendevano servizio David Michael Starsky e il suo amico e collega Kenneth Hutchinson. Il primo era un moro riccioluto, cresciuto sulla strada, un’infanzia difficile che gli aveva plasmato un carattere risoluto ed estroverso, proprietario di una fiammante Ford Gran Torino rossa e di una Smith & Wesson calibro 9 da cui non si separava mai. Il secondo era un biondo figlio di papà, piuttosto riservato, cultore delle diete macrobiotiche, intuitivo e affascinante, non mancava di esibire una Colt Python 357 Magnum a canna lunga che, forse, voleva essere una velata allusione sessuale. Anche perché, ai due, non mancava mai la compagnia femminile.
«Mi domando quando le pensano tutte queste stronzate» si limitava a bofonchiare mentre seguiva l’episodio sorseggiando una Peroni in lattina e sgranocchiando arachidi salate.
L’analisi era rapida e impietosa. Lui era proprietario di una Fiat 124 bianca, acquistata nel 1969, con centosettantacinquemila chilometri all’attivo; l’arma di ordinanza era una Beretta 92, piccola e leggera, dotata di canna corta, che aveva tirato fuori dalla fondina solo in occasione delle esercitazioni al poligono. Sul fronte frequentazioni con l’altro sesso, fino al momento in cui Elena era entrata a far parte della sua vita, le uniche donne con cui si era intrattenuto erano state la madre Angela e la sorella Paola.
«Come no?» commentò a voce alta seguendo la scena in cui i due protagonisti picchiavano un fermato durante l’interrogatorio. «Se provo a fare una cosa del genere, finisco dritto dritto nell’ufficio del giudice istruttore!»
Del resto, cosa ci si poteva aspettare da un popolo che nel mese precedente aveva eletto, come Presidente della più grande potenza al mondo, un ex attore di Hollywood? Sai le risate se, due anni prima, al posto del socialista e partigiano Pertini il parlamento avesse eletto Alberto Sordi o Vittorio Gassman? Per carità, a modo loro, eroi nazionali sacrificati sull’altare della Grande Guerra; ma si trattava di un gioco, di finzione cinematografica.
Poi si toccò la schiena. Non si trattava di finzione. Lì risiedeva la differenza fondamentale. Starsky si lanciava da una parte all’altra del cofano della Gran Torino e quando rincorreva un delinquente, pareva volare sulle Adidas blu. Hutch si arrampicava sulla scala esterna di un palazzo di dodici piani nel centro di Bay City con l’agilità di uno scoiattolo. Lui non avrebbe potuto farlo, non più: la pallottola conficcata tra le due vertebre lombari, che i medici avevano preferito non asportare, gli permetteva a mala pena di camminare appoggiandosi al bastone e costringendolo ad assumere un’andatura sciancata. Si era sempre rifiutato di usare la stampella, soprattutto quando aveva abbandonato l’ospedale: il bastone di nocciolo, con l’impugnatura curvata a mano e il puntale di gomma antiscivolo gli attribuiva una certa signorilità e lo teneva lontano dall’idea di uno status di malato permanente.
Zopo, strupio, caval. Zoppo, storpio, cavallo. Erano solo alcuni degli appellativi che sentiva mormorare dalla gente e che faceva finta di non udire. Il soprannome che preferiva, se così si poteva dire, era fuoriuscito dalla bocca di un tizio con i capelli lunghi e scarmigliati, una peluria rada sul viso, l’espressione sfrontata tipica del vigliacco abituato a prendersela con i più deboli.
«Ehi, Grundy, vieni qua che ti do una carota.»
Grundy, il purosangue britannico vincitore di tutte le grandi classiche. Se solo avesse avuto metà del fegato di Starsky, lo avrebbe gonfiato di botte. Invece, aveva preferito soprassedere. Solo che a fare il superiore non si curava la ferita profonda all’orgoglio. Il caso non gli aveva concesso il privilegio di incrociarlo una seconda volta, ma la pazienza era una delle virtù più grandi che un uomo potesse vantare: il sogno di vederlo entrare in questura non si era