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La signora M: Ercole Luigi Morselli nei ricordi della moglie Bianca
La signora M: Ercole Luigi Morselli nei ricordi della moglie Bianca
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E-book228 pagine3 ore

La signora M: Ercole Luigi Morselli nei ricordi della moglie Bianca

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Info su questo ebook

Il libro ripercorre alcuni momenti della sua vicenda esistenziale del drammaturgo Ercole Luigi Morselli (1882-1921), attraverso il racconto, tra realtà storica e finzione letteraria, della moglie Bianca.
Bianca Bertucci, vedova Morselli, nel 1925 si trova nel convento di San Giovanni Rotondo, dove ha deciso di ritirarsi insieme alla figlia Giuliana, dopo la morte del marito. Qui rievoca la sua vita insieme a Ercole Luigi, concentrandosi sugli anni 1905 e 1906, periodo in cui si sono conosciuti, innamorati e, infine, sposati. Lei, promettente pianista romana, allieva del maestro Sgambati a Santa Cecilia, condividerà le sorti alterne del suo amato con ostinata abnegazione. Lui, giovane intellettuale pesarese, elegante, avventuroso e pronto a conquistare il mondo, si avvicinerà più volte al successo e altrettante precipiterà nel fallimento artistico.
Solo nel 1919, quando il suo Glauco trionfa al Teatro Argentina di Roma, verrà celebrato come
nuovo astro nascente della drammaturgia italiana. Non avrà però il tempo di godersi la fama, poiché due anni dopo morirà di tubercolosi. Bianca gli sopravvive a lungo conservando nella propria anima
e nel proprio corpo le stigmate di un amore assoluto che la condurrà alle soglie della follia.
LinguaItaliano
Data di uscita5 feb 2022
ISBN9791220895446
La signora M: Ercole Luigi Morselli nei ricordi della moglie Bianca

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    La signora M - Maurizio Valtieri

    Maurizio Valtieri

    La signora M

    Ercole Luigi Morselli nei ricordi della moglie Bianca

    UUID: 3a6c708b-82cc-4b8b-8d37-98ac23cec236

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    EdizioniCroce

    I edizione: febbraio 2022

    © 2022 Edizioni Libreria Croce di Fabio Croce

    via Gaetano Mario Columba 60/D

    00179 - Roma

    tel. 06 4746780

    edizionicroce@libero.it

    www.edizionicroce.it

    Progetto grafico: E’llecì

    In copertina: Bianca Bertucci 1905 (Particolare), Fondo Morselli, Biblioteca Oliveriana, Pesaro

    Maurizio Valtieri

    La signora M

    Ercole Luigi Morselli nei ricordi della moglie Bianca

    Postfazione di Walter Zidarič

    Che cosa vedo?

    La prima cosa che vedo sono le mie mani, particolarmente pallide. Non che io abbia mai avuto un colorito della pelle tendente al bruno, sono sempre stata di carnagione chiara, come mia madre o, forse meglio, come mio nonno. Ciononostante il pallore che registro in questi giorni mi incuriosisce e mi ritrovo di frequente a fissare le mie estremità scoperte, senza giudicarle, solamente incantata e priva di pensieri profondi. Le mie mani bianche percorse da vene azzurrognole spuntano dalle maniche dell’abito nero che indosso. Ho provato molte volte nel corso di questi ultimi anni a dismettere il lutto, ma ogni volta sono ritornata a vestirlo. Tutt’al più mi sono concessa variazioni di grigio, ma niente colori. I colori mi disturbano, quasi fossero oppio assorbito dai miei pori che assopisce il dolore e i ricordi, quasi mi portassero via il ricordo di Gigi. Eppure più volte mi sono ripetuta che i morti sono come i figli: a un certo punto è salutare per noi e per loro lasciarli andare, smettere di trattenerli per puro egoismo. Evidentemente non ci riesco.

    Dunque, vedo le mie mani e le maniche del vestito nero, mentre tengo la penna con la quale scrivo. Cerco di non imbrattare le pagine con l’inchiostro. Sono un’attenta scolara alla quale è stato dato un compito.

    Non saprei dire esattamente quando nostra figlia Liana ed io siamo arrivate al convento di San Giovanni Rotondo, ricordo solo la pioggia, il fango sulle scarpe e il desiderio soffocante di volermi allontanare dal mondo. Liana (in realtà il suo nome è Giuliana, ma in famiglia l’abbiamo sempre chiamata così) mi stringeva la mano, non nella maniera in cui fanno i bambini con i genitori, ma piuttosto il contrario, consapevole di essere in quel momento lei la più forte e io, sua madre, quella da salvare. La morte di Gigi mi aveva annichilita e gli echi di quella devastazione non mi hanno ancora del tutto abbandonata. Lei che aveva perso suo padre, l’eroe romantico che trasformava ogni racconto in un incanto e che tale era rimasto anche nei giorni in cui non riusciva neanche a muovere le gambe nel letto, sembrava fatta di solida roccia. Io che avevo visto spegnersi l’amore della mia vita lentamente, costretta dal destino a separarmi dall’uomo della cui immortalità non avevo mai voluto dubitare, avevo più che mai bisogno della stretta forte di una ragazzina, affinché tutti i pezzi del mio corpo e della mia anima rimanessero insieme.

    Ho provato a far fronte al dopo. Ho tentato con tutte le mie forze di essere la vedova che tutti si aspettavano che fossi: addolorata, ma composta; dignitosa e consapevole di non essere l’unica ad aver perso qualcosa, ma che l’intero mondo era in lutto, poiché Ercole Luigi Morselli, la sua persona, il suo pensiero, le sue opere appartengono all’intera collettività. Tutti sono stati gentili con me, comprensivi e pietosi, ma, allo stesso tempo e a ogni occasione, il loro dolore entrava in competizione con il mio. Non mi riferisco ai parenti e amici più prossimi o alla mia famiglia, ma proprio tutti, persino coloro che ne avevano criticato le opere e che avevano biasimato quel suo modo di vivere oltre le proprie possibilità, ambivano alle gramaglie.

    Ho lasciato che consumassero il loro pasto e semplicemente me ne sono andata, senza veramente avere un’idea precisa di quale luogo raggiungere. Muraglia era da escludersi, Pesaro, Firenze, Civitavecchia e Anzio luoghi che mi avrebbero ucciso coi loro ricordi vivi in ogni pietra e filo d’erba. Infine mi sono ricordata di un antico desiderio, di un sogno mai realizzato a causa delle varie circostanze della vita, quello di incontrare padre Pio. Dissi agli amici e ai parenti che insieme a Liana sarei partita per San Giovanni Rotondo, che non si sarebbero dovuti preoccupare e che avrei trovato lì una sistemazione, dove mi sarei presa tutto il tempo necessario per rimettere a posto i pezzi della mia vita. Sapevo che non sarei tornata a breve, che probabilmente avrebbero rivisto per prima mia figlia, alla quale non volevo in nessun modo imporre un’esistenza da esule. Doveva essere una notizia per pochi, ma in men che non si dica lo vennero a sapere in molti e io ne fui estremamente turbata, poiché in quei giorni avevo un disperato bisogno di anonimato. Avrei voluto sentirmi straniera, sconosciuta o, ancor meglio, dimenticata. Dunque non ci sarà più niente di privato, dissi a Federico Ratti, poco prima di lasciare Roma. Lui, l’amico fraterno di Gigi, carico di dolore, ma con quella leggerezza così consona al suo essere, mi esortò a non farci caso. Poi sorrise sereno, come non faceva da settimane, e disse che in vista del mio viaggio c’era qualcuno che avrei dovuto conoscere. Si trattava di un ragazzo, un certo Cesare Argonauti, il cui nome mi fece per qualche secondo ritornare alle letture dei classici. Questo Argonauti aveva visto il Glauco a teatro e ne era rimasto estasiato, tanto da diventare uno degli ammiratori più tenaci di Morselli (non posso non usare il cognome quando mi riferisco non al marito, ma all’autore. È così che va fatto). Era presente al funerale e aveva vissuto momenti di vera disperazione per la morte di Gigi. Quando si era sparsa la voce della mia volontà di ritirami per un periodo a San Giovanni Rotondo aveva fatto del tutto per contattarmi e, non riuscendoci, si era rivolto al Ratti. Così Cesare Argonauti timidamente si è presentato e, scusandosi per quella che poteva sembrare una mancanza di educazione, ha rivelato di essere il nipote del frate bibliotecario del monastero, padre Saverio, e che volentieri avrebbe chiesto allo zio di interessarsi presso il Padre Guardiano, affinché io e Liana potessimo trovare una degna sistemazione nella foresteria del convento. E così è stato.

    È all’entusiasmo e alla gentilezza di un giovane appassionato di teatro che devo, dunque, la mia permanenza qui e il conforto di questi spazi. Una stanza da letto che Liana ed io condividiamo, molto essenziale, ma ampia: due letti singoli, senza testiera e poggiati alla parete, sulla quale campeggia un bel crocifisso ligneo. Non mi stupisce visto il luogo in cui siamo. Lo guardo spesso, con devozione, in attesa di una qualche risposta, mentre Liana sembra non farci caso, per lei è solo un lugubre oggetto d’arredo. C’è una finestra che dà sull’esterno, sotto la quale mi hanno usato la cortesia di posizionare uno scrittoio. Se alzo lo sguardo non vedo piante fiorite o verdi, mi ritrovo a contemplare non troppo lontano un muretto bianco, con tegole leggermente inclinate verso l’esterno. Oltre il muro spuntano i rami spogli di un albero decisamente vecchio. Ciò che caratterizza il monastero è la sua posizione elevata. Alle spalle è protetto da robuste montagne e ovunque ci sono rocce a guardia di una pace che non riesce a essermi amica. Una stradina bianca e sterrata, dall’entrata principale scende verso il fondo valle, fendendo terra arida quasi fino al paese. Non sono più a centinaia a percorrerla, non come una volta, da quando il Sant’Uffizio ha condannato padre Pio al silenzio e esortato i fedeli a non recarsi in pellegrinaggio presso di lui. Con una delle loro formule pompose hanno dichiarato, riguardo ai fenomeni inspiegabili legati al sant’uomo, che non constat de supernaturalitate. Nessuna prova che le forze celesti agiscano per tramite suo, anzi vi è la propensione a crederlo mentalmente disturbato. Quindi non sono la sola a esser creduta un po’ pazza, ma condivido tale opinione che molti hanno di me con un uomo che ho sempre ammirato, dalla cui persona ancor oggi traggo ispirazione, quale esempio di adamantina abnegazione e forza di spirito. Un uomo, un santo che con compassionevole e pacifica resistenza subisce le angherie di un potere che vorrebbe imporgli le proprie regole dall’alto, disturbato dal suo carisma e dal fascino che esercita sulla gente. Purtroppo in questi anni sono riuscita a incontrarlo solo due volte, il privilegio di essere praticamente una che vive sotto il suo stesso tetto non mi ha in alcun modo favorito. La prima volta è stato circa sei mesi dopo il nostro arrivo. In un pomeriggio particolarmente afoso, Liana sembrava stremata sotto il peso dell’aria densa e mi ha chiesto di potersi coricare. Così, dopo averla vista addormentarsi, ho lasciato le nostre stanze e mi sono ritrovata, senza nemmeno capire come, in mezzo a un fiume lento di persone che mi ha trasportato fin dove padre Pio, per così dire, teneva udienza. Non ero tra i primi e di quell’occasione conservo l’immagine sfocata di un frate curvo e sofferente che mai, a fronte delle molteplici suppliche e richieste di contatto fisico, ha abbandonato il sorriso bonario. La seconda volta, i frati di Santa Maria delle Grazie, vedendomi in uno stato di prostrazione più grave del solito, hanno ritenuto che un incontro privato con lui mi avrebbe giovato.

    In un primo momento fu così e ricordo che gli chiesi che cosa avrei dovuto fare per sconfiggere tutta la sofferenza che mi portavo dentro e che non riuscivo più a gestire, né a combattere. Glielo chiesi almeno quattro volte, piangendo e quasi non respirando. Ebbi l’impressione per un istante che padre Pio mi giudicasse una stupida viziata e debole. Quante donne e madri hanno visto nel corso dell’umanità i propri mariti e figli morire? Quante avevano visto sradicare ogni affetto dal proprio petto proprio nell’ultima orribile guerra che da pochi anni era finita? Chi ero io per reclamare un riconoscimento di eccezionalità alle mie pene? Ma era la mia mente a parlare, mentre il frate cercava solo il momento per una risposta che doveva aver fatta sua molti anni addietro:

    «Abbraccialo, figlia, abbraccialo!» disse «Il dolore non si gestisce e non si combatte, ce lo si fa amico».

    In seguito mi dissero che dopo quelle parole svenni.

    Non l’ho più incontrato, di lui ho solo poche parole, abbraccialo, figlia mia, abbraccialo!

    Un elemento inusuale per ciò che credevo riguardo gli alloggi dove siamo ospitate è la presenza di un piccolo bagno, al quale si accede dall’ingresso, prima della camera da letto. Durante il viaggio che qui ci avrebbe portate, ero già rassegnata all’idea di dividere con altri gli spazi per i propri bisogni. Una vera fortuna invece scoprire che mi sbagliavo, soprattutto per Liana, che tiene moltissimo alla sua intimità e alla sua igiene personale. È qualcosa che le ha insegnato Gigi, il quale affermava, senza dissimulare un certo vanitoso orgoglio, di non aver mai rinunciato a lavarsi, neanche quando le circostanze dei suoi viaggi in terre lontane e selvagge rendevano la faccenda assai ardua. Guarda tua madre quanto è bella, diceva a Liana, tu un giorno sarai come lei, una signora perbene. E una vera signora non rinuncia mai a mantenersi pulita e profumata.

    Lui ci manca, mi manca infinitamente.

    Tornando a Cesare Argonauti e a suo zio padre Saverio, il caro religioso si è sempre dimostrato molto attento alle nostre esigenze, nonostante non fosse compito suo preoccuparsi di noi. In verità, ci è stato detto fin dall’inizio che avremmo dovuto condurre una vita il più possibile indipendente, cercando di non interferire con i ritmi e i riti che la regola conventuale richiede. È un luogo questo fatto di silenzi spezzati dal suono delle campanelle, le quali scandiscono ogni frazione della giornata. I frati lavorano molto, pur dedicando una buona parte del proprio tempo alla preghiera, e le attività sono innumerevoli: dalla cura dell’orto, passando per la manutenzione del convento, fino alla conservazione di preziosi manoscritti, di cui proprio padre Saverio è responsabile. Inoltre, l’indispensabile, ma, ahimè mi duole dirlo, ingombrante presenza di padre Pio, costringe tutti a far fronte a un maggior carico di impegni, dall’accoglienza dei fedeli, alle questioni relative alle facoltà straordinarie del frate e ai suoi non facili rapporti con la Santa Sede. Ciononostante, padre Saverio ha sempre trovato il tempo per informarsi sulla nostra condizione, impegnandosi personalmente a facilitare il nostro ormai lungo soggiorno. Liana è sempre stata diligente, rispettosa e facile da accontentare, mentre io, lo confesso con un certo imbarazzo, ho dato spesso motivo di preoccupazione, soprattutto durante i miei frequenti accessi di malinconia. L’ultimo di essi in ordine cronologico mi ha lasciata esausta per giorni. Il letto come mio unico rifugio, impossibilitata persino a riaprire gli occhi: volevo solo dormire, senza riuscirvi, e sognare, senza riuscirvi. Ho cercato nell’oscurità di ritrovare gli abbracci di Gigi e il suono della sua voce, stentorea se inveiva contro se stesso per non essere stato capace di ottenere questo o quel finanziamento per il suo giornale; dolce e musicale nella lettura delle critiche positive per una rappresentazione del Glauco o ancora premurosa nel rivolgersi, indipendentemente dalle circostanze avverse o amiche, a me o a Liana.

    Quando il mare in burrasca si è calmato e mi sono come ripresa dopo una interminabile febbre, padre Saverio è venuto a trovarmi. Ha portato con sé un quaderno, dei fogli bianchi e tutto il necessario per scrivere. Mi si è seduto accanto e ha detto:

    «È tempo che tu inizi un percorso catartico, che ritrovi te stessa, attraverso i frammenti del tuo animo e io sono qui per suggerirti una possibile via».

    Ha iniziato a spiegarmi di una tecnica per esplorare la mente, di solito applicata ai sogni, ovvero descrivere ciò che di essi si ricorda al risveglio, per cogliere i messaggi nascosti che vengono dal nostro profondo. Lui però mi ha suggerito di scrivere per riscoprire la mia vera essenza, non seguendo uno schema prestabilito, ma per avviare un dialogo con me stessa.

    «Scrivi tutto quello che vuoi» mi ha detto, «non un romanzo, non per gli altri. Scrivi ciò che vedi e ciò che senti, ciò che eri e cosa ha segnato la tua esistenza. Fa’ come se, dopo un terremoto, tu dovessi cercare ricordi e oggetti importanti, tra le macerie della tua casa. Rammenta che il più delle volte sono pochi indispensabili elementi a fare da architrave all’intero nostro essere».

    Ho aspettato, come quando si vuole scrivere una lettera d’addio e non si trovano le parole per iniziare e la si lascia lì, distratti da una miriade di cose che fino a quel momento non avevamo mai preso in considerazione. Persino il mio umore è migliorato, quasi a delegittimare la necessità dell’impresa suggeritami da padre Saverio. Un giorno era il vestito di Liana da aggiustare, un altro l’imperdibile germogliare di una qualche pianta nell’orto del convento, un altro ancora era l’assecondare la voglia di colloquiare con l’ultimo pellegrino arrivato. Insomma, tutto pur di non sedermi a fare quello che sto facendo. È passata un’intera settimana, poi, una mattina molto presto, sono stata svegliata da una presenza. In un primo momento ho pensato di essere in un sogno e una voce interna mi ha suggerito di non preoccuparmene, di continuare a dormire, perché ciò che mi era parso di scorgere non era reale. Le mie palpebre con un lieve scatto involontario si sono schiuse e anche se confusamente l’ho vista: Liana era a fianco del letto con in mano il quaderno che avevo lasciato sullo scrittoio, il suo volto sembrava stanco, quasi fosse stata immobile in piedi vicino a me tutta la notte. Quando sono riuscita a mettere bene a fuoco ogni particolare, ho notato un’espressione di rabbia nei suoi occhi. Che c’è, le ho detto, è successo qualcosa? Lei si è limitata a scuotere la testa e poi, con totale mancanza di grazia, ha poggiato il quaderno sulla mia pancia e se ne è andata.

    Mi sono sollevata sui gomiti, i capelli scomposti e la camicia da notte stropicciata e imbrigliata tra le pieghe del mio corpo, non più sonnambula, risvegliata da quello schiaffo che la mia piccola Liana aveva voluto darmi. Non lo ha fatto per me, ma per salvare se stessa dalla mia follia. La capisco e, se un giorno queste parole verranno lette da qualcuno, vorrei che non venisse giudicata come una figlia ingrata. Le è stato chiesto più del dovuto e non si è mai lamentata, malgrado le venisse sottratta parte della sua infanzia.

    Mi sono lavata, pettinata e ho indossato uno dei pochi abiti che ho portato. Ho bevuto del tè, ho preparato il quaderno e l’occorrente per scrivere e, infine, mi sono seduta.

    Scrivo, senza rileggere, avanti e indietro nel tempo, in un affastellarsi di pensieri, ricordi, immagini e mondi che hanno in me il loro punto di fuga. Ho già avuto un diario da giovinetta, dove annotavo con la perizia di un contabile soprattutto il susseguirsi dei miei obblighi giornalieri. Gli orari di studio, quelli dedicati alla musica, le incombenze familiari, le rare uscite quasi sempre in compagnia di qualcuno. Di tanto in tanto concedevo alle pagine una qualche descrizione più introspettiva, pensieri su ciò che vedevo o sentivo. Annotare sul diario era diventato un ulteriore dovere quotidiano. Ora è diverso, sono di fronte allo specchio della mia anima devastata, ma viva, desiderosa di raccontarsi. Ci sono volte che devo costringermi a smettere, devo faticosamente ritornare alla realtà, a mia figlia, alle rare visite che ricevo, alle lettere con le richieste più assurde.

    La ragazzina che elencava i momenti sempre uguali delle sue giornate è scomparsa per sempre.

    Ricerca te stessa, mi continua a dire padre Saverio. Ricorda chi sei e chi eri, non lasciare che l’oscurità del dolore e del rimpianto ti riduca in schiavitù

    Quelli che non hanno con me un’amicale intimità mi chiamano signora Morselli da molti anni ormai, così tanti che a volte, riflettendo ad alta voce sulla mia condizione, anche io faccio lo stesso, quasi mi rivolgessi a un’altra. La signora Morselli, mi dico, oggi ha mal di testa e non riesce a lasciare il letto. Perché signora Morselli non si scuote e riprende a frequentare il mondo? Questa lettera ricevuta oggi, proprio non è piaciuta alla signora Morselli. Un delirio di cui mi rendo conto solo a posteriori, quando la mia voce è già inesorabilmente rimbalzata nell’aria e mi si è infilata nelle orecchie.

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