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Don Chisciotte, Fausto Coppi e i misteri del castello
Don Chisciotte, Fausto Coppi e i misteri del castello
Don Chisciotte, Fausto Coppi e i misteri del castello
E-book273 pagine4 ore

Don Chisciotte, Fausto Coppi e i misteri del castello

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Info su questo ebook

Le colline del Monferrato fanno da sfondo a un romanzo che ci riporta a un’Italia ormai lontana: quella del Dopoguerra, del micromondo di paese, dello sport come modello di vita, un’Italia dove il ciclismo era una passione collettiva di gran lunga superiore a quella per il calcio. Tra le imprese ciclistiche spiccano in particolare quelle di Fausto Coppi, idolo comune dei tre protagonisti del romanzo, e amato fino alla follia da uno di loro, Umberto De Ambrosis. Dalla morte misteriosa e improvvisa di quest’ultimo, a seguito di una vita condotta in assoluto rigore e solitudine nel Castello isolato dal paese, con la sola compagnia dell’amico Evasio (detto Gregorio il gregario), l’amico d’infanzia Eligio De Giovanni è spinto ad approfondire le vicissitudini di Umberto, in cerca di risposte sull’accaduto. Uomo dalla fede quasi maniacale, geniale inventore chiuso nel suo mondo autosufficiente e impermeabile alla modernità, Umberto appare come un novello Don Chisciotte, in sella alla scattante bicicletta da corsa anziché a Ronzinante, sulla scia dei trionfi di Coppi, ai quali ha dedicato un preziosissimo santuario
privato. L’ormai anziano De Giovanni, con il quale Umberto aveva tagliato i ponti da oltre cinquant’anni, e il compagno di una vita Gregorio si trovano così a ripercorrere le tappe di una vita spesa tra ossessione religiosa e sportiva, culminata nel pellegrinaggio da San Salvatore Monferrato a Roma in bici e nell’incontro fortuito con il mitico Fausto Coppi. Partendo da uno spunto giallistico, Gioanola confeziona un’appassionante storia di follia e amicizia, che trascina il lettore in una lunga volata fatta di ricordi, diari, documenti d’epoca, fino al traguardo finale che risolve il mistero del Castello.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita11 mag 2021
ISBN9788816802230
Don Chisciotte, Fausto Coppi e i misteri del castello
Autore

Elio Gioanola

Elio Gioanola è nato a San Salvatore Monferrato (AL) nel 1934. Ha insegnato per trent’anni Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Genova. Con Jaca Book ha pubblicato, tra gli altri, i saggi Fenoglio. Il «libro grosso» in frantumi (2017); Manzoni. La prosa del mondo (2015, finalista al Premio Viareggio e vincitore del premio della critica); Montale. L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive (2011); Svevo’s story. Io non sono colui che visse, ma colui che descrissi (2009); Pirandello’s story. La vita o si vive o si scrive (2007); Psicanalisi e interpretazione letteraria (2005, ult. ed. 2017); Carlo Emilio Gadda. Topazi e altre gioie familiari (2004); Cesare Pavese. La realtà. l’altrove, il silenzio (2003); Giovanni Pascoli. Sentimenti filiali di un parricida (2000); Leopardi. La malinconia (1995, nuova ed. 2015), e i romanzi La malattia dell’altrove (2013); Giallo al Dipartimento di Psichiatria (2006); Martino De Nava ha visto la Madonna (2002); Ma l'amore no (2021). Sua anche La letteratura italiana (2016, in due tomi).

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    Anteprima del libro

    Don Chisciotte, Fausto Coppi e i misteri del castello - Elio Gioanola

    TANTOSALE

    È stato Gregorio a comunicarmi la morte di Umberto De Ambrosis, detto Tantosale, svegliandomi al mattino presto con una lunga scampanellata. Ha avvisato me per primo, nessuno sapeva ancora della cosa e lì per lì non ho capito il motivo di questa informazione. Da molti anni non vedevo più quello strano amico dei tempi lontani, tanto strano da avere vissuto metà della vita, e anche più, come un eremita nella sua bicocca in cima al paese, dimenticato da tutti. Appena tornato in paese, dopo la pensione, avevo chiesto di lui ai compaesani superstiti, vecchi compagni di scuola o di oratorio suoi e miei, ma nessuno ne sapeva niente, lui non si faceva più vedere in giro, nemmeno nei giorni di canicola quando, fino a una ventina di anni prima, era preso dai suoi brevi e folgoranti estri ciclistici e si lanciava a tutta birra per le strade scoscese di Villaforte gridando «sono il Veloce!». Avevo assistito una volta sola a questa esibizione, durante una visita ai miei vecchi, e ne avevo riportato una grande pena, ricordando chi era stato lui quando si era ragazzi e adolescenti. Avevo tentato di fermarlo, di parlargli, ma ne avevo avuto soltanto un’occhiataccia. Non dimenticava la rottura che c’era stata tra noi dopo tanta e così intensa consuetudine di idee e di vita. Ricordo ancora con dolore gli incitamenti degli oziosi che sulla piazza lo incalzavano ridacchiando, mentre in piedi sui pedali imboccava la strada della chiesa: «dai Veloce che sei solo!», «dai Tanta-sa! (nel nostro dialetto il sale è rigorosamente di genere femminile), «dai Coppi, vai a fare la salita del Campanone!», e lui affannato a rispondere: «il Campanone non lo faccio, ho paura di spanare la moltiplica». Quella era stata la prima e anche l’ultima volta che l’avevo visto da quando la nostra amicizia, che era stata davvero fraterna, si era infranta di colpo alla notizia del mio fidanzamento. Perché dunque Gregorio – che di nome invece fa Evasio – era venuto proprio da me a dare quella notizia?

    «Chi è a quest’ora?».

    «Sono Gregorio».

    «Gregorio?». Non ricordavo un nome simile, non riuscivo a collegarlo a una persona conosciuta.

    «Ma sì, Gregorio il gregario, non ti ricordi? Monti Evasio, Vasino, il fattore di De Ambrosis, che andavamo insieme in bicicletta. Apri, devo dirti una roba troppo importante».

    Faccio scattare l’apertura del cancello, esco in cortile ancora in pigiama e gli faccio cenno di farsi avanti. Evasio non è cambiato molto a mezzo secolo di distanza, robusto, il collo corto, dà l’idea di una forza non del tutto perduta, anche se dev’essere ormai alla soglia dei settanta. Ha ancora tutti i suoi capelli, appena un po’ ingrigiti, la pelle glabra e liscia di un eterno adolescente. Non posso fare a meno di rivederlo in bicicletta, nelle tirate in salita mentre si trascina alla ruota il padrone, io seduto su un paracarro incapace di tenere il loro passo. Il gregario ideale per quel lungagnone di Umberto, preso dalla passione per Coppi e per il ciclismo. Nella televisione dei primi anni, che trasmetteva le tappe del giro d’Italia, c’era un irresistibile Tognazzi che faceva Gregorio il gregario e di lì Vasino aveva preso il suo soprannome. Adesso appare sconvolto, piange, si dispera, ha trovato il padrone morto nel suo letto, quando era andato per svegliarlo e portargli il caffè, come tutte le mattine.

    «Ma perché sei venuto da me, lo sai bene che cosa c’è stato con lui, non l’ho più sentito da cinquant’anni».

    «Lo so, ma ha lasciato una lettera che dice così di venire da te se moriva».

    «Ma come faceva a sapere che moriva? Allora vuol dire che si è suicidato?».

    «Non lo so, non mi sembra, è lì coricato che sembra che dorme, ma questa lettera l’aveva scritta non tanti giorni fa, massimo un mese, perché da un mese non era più lui, non parlava, mangiava poco, diceva sempre che per lui era finita, non aveva più voglia di vivere. La busta la teneva nel tiretto del comodino».

    «E come ti è venuta l’idea di aprire quel cassetto?».

    «Ma mi aveva avvertito prima, se muoio porta la lettera nel comodino alla persona che c’è scritta sopra. Ecco qui, la lettera è questa». E così dicendo mi mette in mano una piccola busta da biglietto da visita, su cui c’è il mio titolo e nome: Egregio professor Eligio De Giovanni. Tiro fuori il cartoncino e riconosco bene la sua scrittura (abbiamo avuto una fitta corrispondenza al tempo dei tempi): «Visto che sono morto prima di te? Sei contento? Provvedi alla mia sepoltura nel modo che troverai indicato nella cassaforte. Per aprirla, gira il volantino tre volte a destra, cinque a sinistra, sette ancora a destra, uno a sinistra».

    «Entra un momento, Vasino, prendiamo il caffè, sta calmo, vediamo cosa c’è da fare».

    «Il caffè l’ho già preso, prima di portarlo a Umberto, che l’ho lasciato lì sul comodino…».

    «Vieni, dai, dobbiamo decidere cosa fare».

    Sono scosso e anche un po’ seccato, come quando arriva un grosso imprevisto nel giro delle quotidiane abitudini, che l’età vorrebbe sempre uguali. Sto scribacchiando qualcosa e mi dispiace dover abbandonare il computer, ogni interruzione mi obbliga a riprese faticose, mi sembra sempre di dover ricominciare da capo. Ma so che non posso sottrarmi alla strana e del tutto inattesa incombenza che mi è piombata addosso così all’improvviso. Non capisco perché mai Umberto abbia voluto rivolgersi a me post mortem, dopo che in mezzo secolo di vita mi ha completamente ignorato, o almeno non ha tentato il benché minimo contatto e anzi mi ha vistosamente girato le spalle l’unica volta che, in tutto questo tempo, l’ho incrociato in una delle mie scappate al paese. Forse il motivo è accennato in quel «sei contento?», che dice di un’avversità tenace e intatta, come se dovessi provare gioia per la sua scomparsa. Questo interpellarmi nella drammatica circostanza ha tutta l’aria di un sigillo a tanto odio più che il segno di una resipiscenza in extremis. E pensare che io non ho mai provato per lui un qualche simile sentimento e per anni mi sono rincresciuto dello scoppio di un’ostilità di cui non mi rendevo ragione, solo il passare del tempo ha spianato le onde di quella tempesta emotiva, fin quasi a farmi dimenticare l’esistenza del vecchio amico.

    «Perché, caro Gregorio (mi piace chiamarti con il soprannome delle nostre antiche scorribande ciclistiche), Umberto ha scelto proprio me?».

    «Non ha più nessuno, né parenti né amici. Il prevosto di San Siro è l’ultimo che lui ha frequentato, ma ormai è morto da tanti anni».

    «Ma ci sei tu, avete vissuto insieme tutta la vita, perché pensare proprio alla persona che aveva cancellato dalla sua esistenza?».

    «Non lo so, non mi ha mai detto niente su questa cosa, però non è vero che ti aveva cancellato, come tu dici, con me diceva niente, ma si faceva mandare tutti i tuoi libri da Cesarino Fissore, il libraio di Alessandria».

    In effetti l’odio crea legami come il proprio contrario, l’amore, e molto spesso i due sentimenti convivono, anche se chi vive tale contraddizione lo ignora: non mi avrebbe cercato in un momento come questo se non fosse per simile ambivalenza. Tantosale è stato certamente un ossessivo con tendenze paranoiche, come dimostrano i suoi exploit ciclistici e i tipi come lui non elaborano le emozioni, sono capaci di rimuginare per una vita intera pensieri concepiti da tempo immemorabile. Sto pensando a questo mentre faccio il caffè alla macchinetta espresso e lo metto in tavola. Vasino continua a piangere e a scuotere la testa, ripetendo: «e adesso, e adesso?».

    «Sta tranquillo, non ti lascio solo, in ogni caso la volontà di un morto dev’essere rispettata, come ci hanno insegnato i nostri vecchi. Adesso pensiamo al da farsi, anche se provvedere a un caso del genere, te lo dico francamente, mi disturba. Non perché tra me e Umberto c’è stato quello che c’è stato (o non c’è stato), ma perché non vorrei mai avere a che fare con defunti e funerali. Da tanto, anzi da sempre, cerco di sfuggire più che posso a tali cerimonie, come del resto ad altre, matrimoni, cresime, ricevimenti di vario tipo. Ma qui capisco che me ne devo incaricare, per forza. Lasciami vestire e poi andiamo subito al Castello. Prendi quel caffè, che viene freddo».

    Ho il problema della moglie invalida, che non posso lasciare da sola. Cammina ancora, anche se a fatica, ma non c’è più con la testa e potrebbe combinare qualche guaio. Vado dal vicino di casa, il vecchio Pallavidino, ha novant’anni ma è in gamba e provvede da solo a sé, al cane e alle galline. Conto sempre su di lui quando mi devo allontanare di casa e non c’è la Juanita, che è la nostra badante, come si dice adesso. Quando ho bisogno, lui viene volentieri, qualche vantaggio ce l’ha, lo invito spesso a mangiare con noi, gli procuro cose che gli servono, gli sbrigo qualche pratica.

    «Andiamo Gregorio, adesso viene il vicino a guardare mia moglie. Mi basta tornare a casa prima di mezzogiorno per far da mangiare, tanto è presto e faremo in tempo a fare quello che c’è da fare».

    Il Castello si chiama così, ma non è un castello, è un vecchio grande edificio che sta in cima al colle più alto del paese, proprio sul posto dove nei secoli passati, quando Villaforte era città fortificata, con tanto di mura, e faceva parte del marchesato e poi ducato del Monferrato, risiedeva un castellano, che godeva di una dimora adeguata al suo ruolo. Del resto il paese era sorto proprio intorno a un castrum, cioè castello, che i Gonzaga avevano fatto rammodernare in forma di robusta villa di campagna, usata anche dal duca ed ex cardinale Ferdinando per le visite galanti alla bella Camilla Faà di Bruno, la giovanissima amante là confinata per ragioni di decoro (in queste occasioni il castellano veniva gentilmente invitato a sloggiare). La casa che oggi sorge in questa posizione eminente non conserva più nulla delle antiche dimore che là si sono succedute, se non forse nelle fondamenta, essendo più simile a un cascinale sui generis che a una nobile abitazione. Nemmeno quella specie di torre o torretta che sta sul fianco sinistro della facciata, poco più alta dei tetti della casa, è residuo dei tempi marchionali e ducali, ma soltanto una possibile allusione ad essi voluta dalla famiglia De Ambrosis, che vantava qualche quarto di nobiltà e aveva fatto costruire la casa verso la fine dell’Ottocento sui resti, se ancora ne erano rimasti, dei primitivi insediamenti. Fatto sta che per noi villafortesi quello è il Castello, perché i nomi sono molto più duraturi delle cose a cui si riferiscono.

    Saliamo in silenzio da Prelio verso la piazza, deserta a quell’ora, e poi verso la parrocchiale di San Martino, dove entra qualche donnetta per la messa prima delle sette. Fa quasi freddo anche se si è solo a metà ottobre, ma la rottura della stagione si è già annunciata da qualche giorno. Eccoci alla rampa del Campanone, impraticabile, se non con il rampichino, anche per il ciclista più provetto. Quante volte l’ho fatta di corsa da ragazzo e poi nei sette anni di dedizione assoluta all’oratorio, detto del Campanone perché è proprio attaccato, col suo cortile pensile e la lunga costruzione a due piani, alla torre campanaria che manda il suon dell’ore, e anche dei quarti d’ora, a tutte le case sparse in groppa alle due colline, e anche oltre. Lasciamo a destra la chiesetta dell’Assunta (oh novene nelle torride sere d’agosto, e canti e preghiere e messe e benedizioni!), passiamo sotto il muro che chiude il lato inferiore del cortile, poi subito davanti al serbatoio della potabile e siamo al cancello arrugginito che mette sul vialetto del Castello. Da quanti decenni non salivo più fin qui, su questo colle dei miei astratti furori giovanili, mi investono memorie quasi come un vivo dolore, perché la vita da allora non ha più conosciuto tanta speranza e tanto desiderio. Non è per l’amico morto che mi assale la commozione, anche se Gregorio può credere che sia questa la ragione del mio commuovermi.

    Il cancello non chiude più da chissà quando, le due ante sono inchiodate a terra dalla ruggine e dal terriccio che le piogge hanno accumulato, rimane libero un ampio passaggio attraverso il quale ci infiliamo. Gregorio mi dice che non è stato più messo in funzione perché chi volesse entrare nella proprietà potrebbe farlo da qualunque parte della collina, non essendoci recinzioni (e non c’è più Castellaccio a vigilare sui confini). Allora questo stesso cancello nessuno l’aveva mai visto aperto, venivamo a raccogliere qualche mela rotolata giù dalle piante ai lati del viale, guardandoci dalla presenza del temutissimo nonno di Umberto, che di nome faceva Carlo Alberto ma per tutti era Castellaccio, di cui tutti i bambini avevano paura come dell’uomo nero. Girava per tutta la collina con la roncola in mano, era un uomo alto alto, aveva fatto il comandante dei corazzieri del re, secondo la tradizione militare e monarchica della famiglia. Quando le mamme passavano dalla strada che porta alle suore dell’asilo e che scorre proprio sotto le terre del Castello, dall’altra parte della collina, zittivano i figli minacciandoli di fargli vedere Castellaccio e anche le fanciulle in fiore che passeggiavano di primavera per quella strada solitaria, tenendosi per mano, la facevano di corsa per non imbattersi nel lungo fantasma del corazziere, e anche per paura di farsi attaccare la vocazione dalle suore. Il vialetto è erboso, ma l’erba è ben rasata, non ci sono più i meli di allora, le viti a destra e sinistra invece devono essere ancora quelle. Lo chiedo a Vasino, dice di sì, producono ancora e il vino che ne ricavano per tutto l’anno è straordinario. Ma, così dicendo, si mette di nuovo a piangere perché ha usato il plurale e adesso si rende conto di essere solo, il vino di quell’anno il padrone non lo berrà più.

    Se il cancello non chiude, il portoncino di casa ha tutta l’aria di essere blindato ed è munito di molteplici serrature, che Gregorio apre una per una con un mazzo di complicate chiavi. La porta d’ingresso dà immediatamente su una scala dai gradini di pietra consunti. A destra e a sinistra due passaggi ad arco danno accesso, da una parte, a una specie di sala d’armi, con sciabole incrociate, pistole di varie fogge, fucili antichi e moderni e anche lance e scudi esotici, dall’altra a una vera e propria biblioteca che, oltre ai libri, mostra alte pile di giornali e riviste sportive. Con tutto che con Umberto abbiamo avuto una consuetudine quasi quotidiana, dalla prima elementare ai vent’anni e più, a casa sua non ero mai entrato, come in generale nessuna persona di umile stato entrava nella case dei cosiddetti ‘signori’, tanto più in quelle di sedicenti nobili come i De Ambrosis, che ai supposti quarti nobiliari aggiungevano la boria dei militari di carriera di ascendenza sabauda (il Piemonte è stato pieno, fino ben dentro all’ultimo secolo, di generali e alti ufficiali e non c’era località che non godesse della presenza di questi personaggi alteri e disdegnosi, dotati di prebende e pensioni da mettere soggezione ai poveracci). Malgrado il retaggio savoiardo del nome, Umberto non assomigliava per niente, se non nel fisico, ai genitori e nonni e antenati, era stato fin da piccolo una persona gentile e tranquilla, persino umile, di grande sensibilità e intelligenza. Soffriva molto dell’albagia della famiglia e, soprattutto a me, suo compagno di banco per tutte le elementari, dichiarava apertamente il suo rincrescimento per non potermi ricevere in casa e dividere con lui giochi e letture e compiti di scuola.

    Saliamo la ripida scala ed entriamo, per una tintinnante porta a vetri, in un vasto ambiente dominato da una monumentale stufa di maiolica eretta davanti al camino che si apre sulla parete di fondo, tra le due ampie finestre che danno sul retro della casa. A destra e a sinistra, in corrispondenza del vano delle scale, due usci a vetri smerigliati che danno accesso, mi dice Gregorio, alla stanza da bagno e alla cucina, affacciate sul viale d’ingresso. Al centro della sala un tavolo massiccio, cassapanche e mobili di foggia antiquata alle pareti, che lasciano spazio a un paio di porte per lato. Anche qui libri dovunque ci siano punti d’appoggio. In un angolo un televisore di tipo vecchio, su una robusta mensola. Il pavimento è di mattoni lucidati a cera. Tutto dà l’idea di un grande ordine e di una perfetta pulizia. Una delle due porte sulla destra mette nella camera da letto di Tantosale: Umberto è steso supino sotto le coperte, vestito della biancheria da notte, un braccio che pende fuori della sponda del grande letto matrimoniale, l’altro braccio steso sul lenzuolo, con la mano che abbranca la stoffa come per afferrarsi a qualcosa. Ha la mia età Umberto, ma mi sembra tanto più vecchio, anche se i settantacinque anni sono per tutti la vecchiaia. Il cranio lucido è attraversato da qualche residua stria di capelli scomposti, il volto appare scheletrito, tanto che non riesco quasi più a ravvisare i tratti del mio compagno d’infanzia e di gioventù. Era sempre stato molto magro ma adesso dev’essere proprio filiforme se il corpo quasi non solleva le coperte.

    «È cambiato da qualche anno in qua», dice Vasino, che vorrebbe scappare da quella stanza, «da quando è morto don Benzi a più di novant’anni, non è più uscito per le sue passeggiate con il prevosto. Andavano da qui al Clorio e delle volte arrivavano fino al passaggio a livello della Cerca, il prevosto è stato in gamba fino alla fine, leggero come una piuma, diceva la messa alle sette e poi si mettevano per la strada della Galea che va giù nella valle, sempre da soli, facendo tutta la salita al ritorno, con il caldo e con il freddo e qualunque tempo».

    «Non lo riconosco più, Gregorio, ma saranno vent’anni che l’ho visto per caso, da lontano, l’ultima volta. Tu sei cambiato poco, ma lui…».

    «Anche tu sei cambiato poco, hai ancora i tuoi capelli, bianchi ma ce li hai ancora. Lui non era più quello di prima, te l’ho detto che nell’ultimo mese parlava sempre di morire, mangiava poco, prendeva solo del brodo, del latte, come quando siamo andati a Roma in bicicletta e stava male per la fatica e per il caldo, ma non credevo mai più che moriva così. Cosa facciamo adesso? Chiamiamo quelli delle pompe funebri?».

    «Dunque non era malato?».

    «No, è sempre stato sano anche se magro come il picchio, mai visto il dottore, solo quando si è rotto un braccio è andato all’ospedale. Ieri sera stava ancora bene. Abbiamo detto insieme le preghiere della sera, come tutte le volte prima di andare a dormire, poi ha preso la tisana di erbe che gli preparo io. Stava bene, ci siamo dati la buonanotte, io sono andato nella mia stanza di là e lui nella sua. Non abbiamo neanche guardato la televisione, se non c’è lo sport o cose di politica e di storia, lui spegne subito dopo il telegiornale. A letto legge per delle ore, delle volte fin dopo mezzanotte, ma al mattino si alza sempre presto, come me».

    «Mi dici che stava bene, che non aveva malattie, dunque è morto all’improvviso e non si conoscono le cause. Bisogna avvertire le autorità, il municipio o i carabinieri, non so, perché in questi casi mi sembra che si debba fare la denuncia, è anche prevista l’autopsia».

    «Ma perché?».

    «Si deve accertare la causa della morte e in un caso così non so se il medico di base, di famiglia, o come diavolo si chiama il condotto di una volta, sia autorizzato a farlo. Se poi mi dici che non ha mai avuto bisogno del dottore».

    «Lui è nella lista di un dottore che è anche il mio, ne ho avuto bisogno io una volta o due, ma poi è morto e ne hanno messo un altro giovane che non conosco neanche. Per qualche rara influenza non abbiamo chiamato nessuno, Umberto è anche un guaritore e si cura con le erbe».

    «Guarda, allora è meglio che andiamo direttamente dai carabinieri, così ci dicono quello che si deve fare. Io sono a Villaforte da troppo poco e non conosco i medici di qui».

    «Perché i carabinieri?» esclama Vasino, che mi sembra allarmato per il consiglio, a mio avviso ovvio. Poi nella stanza del morto, dove ancora giace sul comodino la tazzina del caffè non bevuto, avverto odore di fumo.

    «Ma… cos’è, Gregorio, non senti odore di fumo? Da dove viene?».

    «È il braciere, non lo vedi là per terra? Comincia a fare freddo e lui da un po’ di tempo lo soffre. Ieri sera ha voluto che andassi a prendere in soffitta quell’arnese, lo usava il nonno Castellaccio prima che venisse messa su la stufa nel salone. Gli ho preparato la brace nel camino con una bella radice di gaggìa».

    La casa non ha nessuna forma di riscaldamento moderno, termosifoni o altro. D’inverno, mi informa Vasino, accendono la grande stufa di maiolica, che scalda lo stanzone e anche i locali attorno. Provo l’impressione di vivere in un altro mondo, e anche in un altro tempo, fuori della comune realtà. Mi guardo in giro, la camera è quasi spoglia, il letto matrimoniale all’antica, con la testiera di lamiera verniciata a fuoco, un cupo armadione nero, un solo comodino da notte. Sopra la testiera del letto un bel crocifisso ligneo, con un cartiglio sotto i piedi del Cristo su cui c’è la firma di Amedeo De Ambrosis e la data 1900). Di colpo mi scuote un sussulto. Amedeo è il vecchio Tantosale (il celebre Tanta-sa, cioè tanto sale in zucca, detto così per la sua ingegnosità), il prozio di Umberto, fratello maggiore di Castellaccio, che ha lasciato il soprannome al pronipote, similmente fornito di doti d’ingegno e di manie balzane. Ho un sussulto perché collego in un lampo la presenza del braciere con la morte di Amedeo, che mise fine ai suoi giorni laboriosi e solitari con uno spettacolare suicidio, ottenuto proprio con le esalazioni di biossido di carbonio esalato dalle braci di uno scaldino. Il suicidio era diventato leggendario in paese perché Tantosale era stato trovato morto in posizione seduta dentro a un particolare cofano funebre, costruito da lui stesso in forma più o meno cubica, con un sedile su cui si era accomodato in attesa della morte. Voleva essere sepolto così nella cappella da lui stesso progettata e costruita, e aveva provveduto a tutto, per rendere legale l’inumazione. Il cofano era foderato della prevista lamiera zincata e anche il coperchio, che aveva appoggiato a una parete, possedeva le prerogative richieste. Del resto, trovato ormai rigido a qualche giorno dalla morte, non avrebbe più potuto entrare in una comune cassa funebre. In effetti era stato deposto nella tomba nel modo che – ultimo attestato del suo talento – aveva escogitato in tutti i particolari, per chissà quale folle immaginazione. Alla cappella, certo trascinato da un irresistibile istinto di morte, aveva cominciato a lavorare nel 1926, già alludendo al modo del proprio suicidio se la quartina qui incisa in quella data recita: «Predisse il sottoscritto tra i viventi / sarò io il primo a giacere / finita l’ampliazione dei monumenti / e il primo che porranno a sedere». Con la stessa

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