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Le cicatrici dei depressi inventati
Le cicatrici dei depressi inventati
Le cicatrici dei depressi inventati
E-book409 pagine6 ore

Le cicatrici dei depressi inventati

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Info su questo ebook


Celestino Ferreri, scrittore anarchico costruttivo, ricercatore e indagatore indomito, abile divulgatore di alcune verità occultate a oltranza dai sistemi marci è nato in Sardegna. 
Tuttavia non si è mai sentito sardo, non si è mai sentito italiano, non si è mai sentito europeo. Lui si è sempre sentito un abitante di quel grande monolocale dalle pareti curve che è il globo terracqueo e vive godendo dell'eternità dell'universo. Nel vortice del crollo economico e culturale della Sardegna si rende conto di essere circondato da una massa ingiustificata di depressi. Dopo un'accurata indagine si convince che dietro l'estensione apparentemente incontrollata di antidepressivi spacciati come panacee per il male del millennio può esserci un business voluto dalla case farmaceutiche, pianificato dall'Organizzazione Mondiale della Sanita' (OMS), controllato dai sistemi politici consenzienti e conniventi. Celestino Ferreri inizia la sua nuova battaglia contro le case farmaceutiche ma soprattutto contro l'OMS. E per la prima volta anche lui si sente un cinghiale, selvatico come i suoi conterranei che spesso ha criticato. O forse si sente come un muflone sardo che si inoltra per i boschi della vita consapevole di aver messo a repentaglio la propria libertà, la propria vita, la conservazione di una specie. UNA SPECIE ANARCHICA COSTRUTTIVA!
 
LinguaItaliano
Data di uscita6 dic 2017
ISBN9788897911388
Le cicatrici dei depressi inventati

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    Anteprima del libro

    Le cicatrici dei depressi inventati - Gianluca C. Cadeddu

    proprietari?!

    CAPITOLO 1

    Era un pomeriggio strano di un’estate altrettanto strana. Finalmente un’estate in completa libertà dopo cinque anni di convivenza piacevole e insopportabile allo stesso tempo. Elisabetta, come tante altre donne prima di lei, non aveva retto alla mia irresistibile brama di singletudine. È meraviglioso come io riesco a vivere da singolo anche in compagnia, perso nel mio mondo di sogni artistici dove non permetto a nessuno di entrare, nemmeno a chi mi ama, tranne in qualche momento di intima generosità. Non ho mai capito il motivo per cui ogni tanto ci casco e chiedo a qualche donna di venire a vivere con me. Forse non lo capirò mai. Di una sola cosa sono certo: ogni periodo successivo a una convivenza diventa per me il periodo più bello della mia vita, dove creo tantissimo e frequento tante donne, tutte diverse e con singole e peculiari caratteristiche. Altro che rimpianti, tutte le volte che mi metto con qualcuna in modo quasi serio so già che il giorno successivo starò già pensando a quanto sarà bello il giorno in cui lei mi lascerà disgustata dai vortici ispirativi nei quali non permetto a nessuna di entrare. Le donne ci possono entrare soltanto leggendo i miei libri. È proprio così: il gentil sesso mi può conoscere in modo profondo soltanto leggendomi. Mai vivendomi.

    La stranezza di quel pomeriggio divenne paragonabile alla stranezza del sottoscritto, il temerario viaggiatore scrivente che vi illustra la cronaca di quella eccentrica domenica d’estate.

    Via Nuoro era deserta. Nessun sommovimento idrogeologico avrebbe potuto sconvolgere la via in cui abitavo. Dall’incrocio con via Logudoro fino a quello con viale Bonaria, tutto versava in una sonnacchiosa immobilità, tipica delle vie centrali corollate da uffici e attività di vario genere che si spopolavano nel weekend. E per noi scrittori che vivevamo in centro per avere tutto a portata di mano, quelle vie erano ideali perché diventavano un incantesimo ispirante, specie la domenica mattina, quando accendevamo il computer e con la brezza marina che entrava dalle finestre spalancate, in mutande e aggiustandoci il pacco liberamente senza sentire le critiche della strega di turno, ci lasciavamo andare alla meravigliosa terapia che curava i nostri mali e ci faceva godere.

    In via Nuoro 43, in un condominio vetusto e malandato degli anni Trenta, di artisti ne vivevano altri due, oltre me. Al terzo piano ci viveva Simone Sannu, architetto, vicedirettore dei lavori al Centro Culturale del Lazzaretto nel quartiere Sant’Elia, ma soprattutto grande fumettista. Da poco era uscito il suo nuovo libro a fumetti sulla storia di Graziano Mesina, il leggendario bandito del Supramonte, arcigno e sanguinario rapitore. Simone oltre ad essere un fuoriclasse nel costruire edifici sapeva molto bene quali erano i gusti dei sardi e con i suoi fumetti toccava sempre argomenti che trattavano l’identità sarda, che lui elevava a orgoglio nazionale, mentre io la criticavo come se fosse il più grande fardello limitativo per tutti noi eredi dei protosardi. Ogni tanto entravamo in conflitto, ma erano delle diatribe verbali fra due persone intelligenti e rispettose dell’altrui pensiero. Io e Simone ci rispettavamo, e in quel periodo nella nostra isola il rispetto era merce rara. Sua moglie Marina, una splendida donna bruna e scura di carnagione, aveva appena avuto una bimba stupenda. L’avevano chiamata Eva. Era un angelo biondo e dagli occhi azzurri che aveva preso tutto dal suo papà che di sardo, a parte la battagliera identità, non aveva proprio niente dal punto di vista somatico. Biondo e dagli occhi azzurri come il più nordico dei normanni.

    L’altro artista viveva al primo piano: si chiamava Giovanni Cannizzu. Era un illustre studioso di indipendentismo sardo, poeta in limba e in italiano, autore di un romanzo di successo uscito vent’anni prima e poi niente più. Si vedeva raramente tra gli androni e le scale del palazzo. Qualcuno diceva che moriva ogni giorno per trecentosessantaquattro giorni all’anno e risorgeva, facendosi vedere in giro e anche nel palazzo solo il giorno de Sa die de sa Sardinia. Era una festa che si celebrava una volta all’anno in ricordo dei cosiddetti vespri sardi del 1794, ovvero la sommossa con la quale il viceré piemontese e i suoi cortigiani vennero cacciati dalla popolazione e costretti ad imbarcarsi dal porto di Cagliari. Eppure io qualche volta l’avevo incontrato, Giovanni Cannizzu. Andava sempre a dare da mangiare alla colonia di gatti randagi che avevano trovato la loro casa nell’ampio spiazzo del giardino del fabbro, proprio dirimpetto alla sede cagliaritana dell’Inail. Quando lo incontravo, solitamente capitava il sabato pomeriggio intorno alle sei, avrei voluto fermarlo per conversare con lui, ma avevo con me sempre le buste piene con la spesa appena fatta alla Romana Market e non vedevo l’ora di poggiarle sul tavolo del mio salone all’americana, nel minuscolo bilocale in cui vivevo e dove mi trovavo molto bene. E poi mi sembrava di avere intuito che l’eminente studioso avesse chiuso i ponti col mondo, se non altro con gli uomini, ma non con i gatti che accarezzava e sfamava con amore. Secondo me era depresso. Ma chi non lo era almeno un po’ in questa assurda isola sbattuta in mezzo al Tirreno. Forse non eravamo tutti depressi, ma malinconici sicuramente sì. Peccato perché mi sarebbe piaciuto conversare un po’ con Cannizzu, ma a parte un lapidario buongiorno formale, sembrava che lui non volesse andare oltre nei rapporti col sottoscritto. Avrei parlato con lui di poesia, di indipendentismo, di silenzi. E poi, da sua moglie Cristina Pisanu, una casalinga molto affabile e gentile e non musona come il marito, avevo saputo che il poeta indipendentista aveva letto i miei libri e li aveva anche apprezzati. Magari stava solo aspettando il momento giusto per parlarne con me. Ma oramai erano cinque anni che vivevo in via Nuoro 43 e non lo aveva mai fatto. Probabilmente sarei dovuto andare a beccarlo nel quartiere di Castello il giorno de Sa Die de sa Sardigna, il successivo 28 di aprile.

    Io e Simone Sannu sorseggiavamo due bicchierini di mirto nei locali del bar La Boom. Era un appuntamento fisso della domenica pomeriggio, quando lui si liberava dalle sue donne e io scendevo a vedere un po’ di gente dopo che per tutta la mattina avevo visto solo i personaggi dei miei romanzi. C’era anche un altro bar in via Nuoro e stava proprio a fianco a dove vivevamo noi, al numero 41, però la domenica era chiuso. E comunque al La Boom c’erano sempre le cameriere molto carine e soprattutto Alessia, la donna del proprietario, che era una venere meravigliosa. Bionda, con quel suo modo di parlare con lo slang cagliaritano che in alcune altre donne mi infastidiva, ma che in lei apprezzavo come se fosse un melodioso concerto orale e passava comunque in secondo piano rispetto al suo aspetto ammaliante. Durante la settimana al La Boom si faceva colazione insieme ai carabinieri della locale stazione di Villanova: quando mi vedevano e mi riconoscevano mi guardavano male perché probabilmente tutti quanti avevano letto le mie aspre critiche alla benemerita. Oppure incontravi gli agenti immobiliari che si mischiavano a quelli finanziari. E poi le colf che andavano a fare le pulizie negli appartamenti signorili della zona e tutti gli sprovveduti che ancora cercavano la Pretura che ormai era stata trasferita in via Torino da più di un anno. Insomma un mondo variegato e misto, quel melting pot che non aveva ancora raggiunto i livelli newyorchesi ma che ci si stava approssimando velocemente, facendo sempre le dovute proporzioni.

    La domenica pomeriggio al La Boom c’era un ambiente diverso, trasformato. I carabinieri della locale Compagnia di Villanova, quelli c’erano sempre, del resto dovevano far finta di lavorare anche la domenica. Però arrivavano delle facce strane: gli accaniti giocatori di poker e slot machine, quelli che si erano già giocati la famiglia e tentavano di giocarsi la vita a causa di quell’assurdo vizio. Poi i solitari, quelli che vivevano la domenica come l’apoteosi negativa della solitudine e l’affogavano nell’alcool, per la gioia e il portafoglio del signor Melis, il proprietario del La Boom. C’erano anche i disorientati tifosi del Cagliari Calcio, che d’estate senza poter andare allo stadio a vedere i calciatori strapagati e straviziati, non sapevano proprio cosa fare e dove sbattersi. Certo, c’era sempre la meravigliosa soluzione del bagno al Poetto. Ma chi veniva al La Boom la domenica pomeriggio, pareva che dei bagni al Poetto non ne potesse proprio più. Mi sa che anch’io ero uno di quelli. E comunque al Poetto, se ci andavo, ci andavo al mattino, dalle otto alle undici. Una bella nuotata, un po’ di sole e poi via, lasciavo la spiaggia, senza indugi, agli altri novantanovemilanovecentonovantanove bagnanti. E comunque quella mattina avevo scritto. Mi ero svegliato ispirato. La sera prima ero stato alla manifestazione TANGO A CASTELLO, dove decine di ballerini argentini avevano estasiato il folto pubblico con quella danza sensuale, erotica e intrigante, che da Buenos Aires aveva invaso il quartiere storico della mia città. Cagliari stava diventando ogni anno sempre più bella e queste manifestazioni la rendevano viva e seducente. Come era stata seducente la meravigliosa ragazza argentina che avevo conosciuto alla festa per i gruppi di tangeiros nella quale ero riuscito a infiltrarmi al caffè Libarium. Si chiamava Amarilla Caldea ed era l’accompagnatrice del gruppo di Mar del Plata: l’unica argentina che odiava il tango e nemmeno lo ballava. Lei faceva solo l’accompagnatrice turistica del gruppo di ballerini. Non male, dato che io come ballerino sono una frana, figuriamoci se per rimorchiarla avrei dovuto cimentarmi in un ballo così complicato. Non avrei avuto chance. Invece, con Amarilla le chance le ebbi. Ipso facto era bastato un Vodka-lemon bevuto insieme a lei sul bastione di Santa Croce guardando le luci del porto in lontananza e cullati da uno scirocco appena percettibile per far nascere una profonda simpatia. E quando le dissi che ero uno scrittore, la splendida Amarilla restò affascinata, sorpresa e incuriosita per avermi incontrato tanto che appena le proposi di rivederci il giorno successivo il suo sì risuonò per tutto il Bastione affollato e inondato dalla musica lounge del Libarium. Quando giocavo la carta dello scrittore, si aprivano porte inimmaginabili con le donne. Non avveniva lo stesso quando dicevo di essere un imprenditore nel settore calzaturiero. Ma ormai non mi presentavo più come imprenditore perché le e-mail che arrivavano sulla mia casella di posta elettronica e quelle che arrivavano al mio editore da parte delle mie numerose lettrici mi avevano convinto e legittimato a usare più spesso il biglietto da visita dello scrittore.

    Avrei dovuto incontrare Amarilla alle cinque di quel pomeriggio. Dovevo passare all’Hotel Regina Margherita a prenderla e insieme saremmo andati a Monte Urpinu. In quella settimana di permanenza cagliaritana, di mare ne aveva visto troppo e voleva vedere un luogo che richiamasse la natura senza allontanarsi troppo dalla città. Monte Urpinu era la scelta giusta. E il belvedere sul Golfo degli Angeli e la Sella del Diavolo al tramonto risultava sempre un mio grande alleato quando si trattava di far cadere una donna fra le mie braccia prima e sul mio letto matrimoniale poi.

    Era ancora presto. Il bar si stava affollando di una specie di marmaglia anarchica e alternativa che a me piaceva. L’architetto però era un po’ infastidito da quei giovanotti alternativi. Ormai era un padre di famiglia e dopo il mirto decise di tornare dalle sue donne. Io, invece, restai a parlare con quei giovani ribelli che tanto mi ricordavano il mio passato. L’argomento era la Valle della Luna, che nei loro piani futuri doveva essere la meta della loro prossima escursione ferragostana. Io c’ero stato in quel posto idilliaco parecchi anni prima e me ne ero innamorato. Sempre meglio che la bolgia infernale e irriguardosa delle altre spiagge sarde a ferragosto. Feci i complimenti a quei ragazzetti per la scelta.

    Col nome artificiale Valle della Luna era stata ribattezzata negli anni Settanta una località nella penisola di Capo Testa, già conosciuta come Lu Pultiddholu. Quella volta a rinominarla erano stati alcuni hippy che incantati dalla solitudine e dalla magia del luogo avevano fondato laggiù una comunità che ancora perdurava. Parlare con quei giovani anarchici che volevano andare a scoprire quel luogo rivoluzionario mi riportò alla mente il giorno che ci arrivai per la prima volta.

    La Valle della Luna è un luogo indefinibile e inimitabile, uno di quei posti che indossi come un indumento che ti piace da morire e poi quando te lo togli e ne indossi altri, perché la vita ti costringe ad indossarne altri anche orrendi e che non ti piacciono, ti senti smarrito e privato del godimento che ti aveva dato indossarlo. Ma poi, incontri qualcuno che quell’indumento lo sta indossando per la prima volta e il suo entusiasmo, la sua gioia, ti fanno comprendere che probabilmente quel vestito ti sembra di averlo tolto ma in realtà ha aderito sulla tua epidermide diventando una seconda pelle invisibile. Non si vede ma ancora continui ad indossarlo.

    Trovare il sentiero per accedere alla Valle della Luna di Capo Testa non fu facilissimo. Alla fine lo individuai stretto fra due sassi su cui era stato dipinto il graffito in rosso di una mezzaluna. Quella intera l’avrei trovata più avanti: era un indizio. Dopo aver percorso dapprima una sterpaia informe, con la Baia della Colba sullo sfondo, mi calai fra enormi massi di granito, alcuni dei quali apparivano squadrati e picchiettati da antichi colpi di scalpello: erano i segni rimanenti dell’antica cava esistente al tempo dei Romani e poi dei Pisani. Scesi ancora lungo una valletta sabbiosa che digradava verso il mare con erbe profumate, cespugli di mirto e di ginepro verdeggianti fra due alte pareti rocciose dalle forme bizzarre e lunari. Notai che alcuni di quei grossi sassi erano stati istoriati dai famosi hippy della valle con graffiti che volevano essere di carattere sacrale: una tartaruga e una lucertola dipinte con lo stile aborigeno australiano; il tridente del Dio Shiva e l’ideogramma della mistica sillaba indo-buddista OM. Al riparo di alcuni tafoni, cavità nelle rocce, vidi le tende stropicciate dove gli hippy vivevano tutto l’anno, quasi fossero eremiti o trogloditi postmoderni. Il luogo però sembrava deserto e avanzai ancora fino a un grande cerchio magico, creato con una lunga corda e una serie di pietre, proprio accanto alla spiaggia. Mi sentivo come un astronauta ladruncolo che atterrava in modo intempestivo su un satellite nostrano e cercava di violare i libri intonsi di un mistero naturale, per sfogliarli e farli suoi per sempre. Ben presto un clamore di canti, grida, colpi di tamburello e schitarrate hard rock si levò da dietro un cespuglio di mirto e mi fece comprendere che altri astronauti eccentrici e psichedelici erano già atterrati in quella valle di serenità. Mi avvicinai e li vidi tutti raccolti in cerchio: i mitici hippy. Erano ragazzi e ragazze vestiti nelle fogge più svariate: chi con la cresta da punk, chi con la capigliatura da rasta e con l’immancabile cannone fumante in mano, altri ancora con la barba e la chioma sciolta da figlio dei fiori. La maggior parte di loro mi ignorò come se fossi trasparente. Solo un tipo allegro e divertito, con la barbetta ossigenata e la bandana rosso vermiglio, sembrava avere una gran voglia di parlare con me. Diceva di chiamarsi Mario Pasciucco e di frequentare la Valle della Luna da più di dieci anni. Mi raccontò che i primi hippy raggiunsero la valle negli anni Settanta, scendendo lungo la via che da Amsterdam portava verso l’India e l’Oriente. Scoprirono questo posto incredibile e carico di energia dando vita a una comunità che divenne la tappa obbligatoria del pellegrinaggio a Oriente e punto di riferimento per tutti i fricchettoni d’Europa. Da quel momento lì in quella minuscola porzione di Gallura nacque questo piccolo insediamento di giovani alternativi, contestatori e outsider: s’ingrandiva d’estate, mentre d’inverno lì restava solo un gruppetto d’irriducibili che si scaldavano al fuoco, acquattati nelle grotte. All’epoca, come ancora lo sono oggi, anch’io ero un viaggiatore ribelle e scapestrato, un contestatore alternativo, un feroce oppositore del sistema. Tuttavia c’era una cosa che mi esulava da quel gruppo di fricchettoni che mi accolse per due giorni e due notti: io aborrivo l’uso di droghe. Mentre in quel fazzoletto di anarchia lunare di droghe ne giravano in abbondanza e di ogni tipo. A una certa ora della notte più che sulla luna mi sembrava di essere atterrato su un altro pianeta di un’altra galassia, perché tutti i miei anfitrioni alternativi si trasformavano in veri e propri alieni. Molti impallidivano dopo l’abuso di hashish, altri ancora iniziavano i loro viaggi interstellari dopo essersi piantati nelle vene l’ago che fuoriusciva dagli unici missili in grado di mandarli in orbita: le siringhe con cui si iniettavano l’eroina, la polvere bianca che arrivava settimanalmente da Amsterdam, portata dai fricchettoni di passaggio. Uno di questi viaggiatori era proprio Mario Pasciucco. Non fu complicato comprendere che la loro protesta non era una fuga dal sistema e nemmeno un riunirsi per migliorarlo, il sistema. Era soltanto un’evasione da se stessi, quell’anarchia distruttiva che non mi apparteneva. Già all’epoca io ero un anarchico costruttivo e quando cercai di illustrare quella mia posizione agli alternativi, di fronte al falò, l’ultima sera che restai nella Valle della Luna, l’unica risposta fu una grande risata generale. Mario non rise, perché forse aveva capito più degli altri la mia posizione da outsider costruttivo, poi mi sorrise e mi passò una pipa indiana fumante dicendomi: Sei un eversivo ma ancora troppo imborghesito, Celestino. Toh! Fuma. Non fumai. Perché uno dei miei pregi, o difetti, è la coerenza con me stesso e con chi mi circonda. Mario comprese. Gli altri, che intanto si stavano alienando, penso proprio che non fossero in grado di comprendermi.

    Nei salottini in fondo alla seconda sala del La Boom, sovrastati da un grande specchio e dal condizionatore che sparava aria ghiacciata, i miei ricordi si mischiavano ai sogni di evasione dei ventenni che con cui stavo condividendo quel pomeriggio. I discorsi stavano infastidendo i due giovani carabinieri che erano venuti a prendersi il caffè. E più li vedevamo insofferenti, più noi calcavamo la mano sui discorsi rivoluzionari, finché Alessia mi fece un cenno, facendomi capire che stavamo rischiando grosso. Il sorriso di Alessia non mi aveva mai lasciato indifferente, quindi pregai i miei compagni di bevute di cambiare discorso.

    Ma proprio in quel momento entrò nel bar Mario Pasciucco, fatto come suo solito, barcollante e malvestito. La barba non era più ossigenata, bensì bianca e sporca. I suoi denti erano marciti da anni di abuso di eroina. I suoi capelli erano ancora lunghi, ma non avvolti dalla bandana. Probabilmente non aveva più nemmeno i soldi per comprarsi una bandana. Passando dinanzi ai due giovani carabinieri, Mario si piazzò davanti a loro e prese a fissarli con aria di sfida. Assunse un’aria schifata, o meglio nauseata, come quando uno sta per vomitare. Senza distogliere lo sguardo dai due militari si rivolse ad Alessia, che alla cassa aveva osservato l’entrata in scena del tossico più tossico di via Nuoro, ma che in fondo era simpatico a tutti.

    Alessia, tu sei bella e sexy ma hai il solito difetto di fare entrare nel bar questi bastardi in divisa. Mi sa… ebbe un mancamento e cominciò a bofonchiare qualcosa di incomprensibile a tutti i presenti. Io mi alzai dalla sedia intenzionato a sorreggerlo perché temevo potesse svenire da un momento all’altro.

    Guarda, guarda. Celestino si riprese. Ti ricordi quando ci siamo incontrati alla Valle della Luna?. Era la solita domanda che mi faceva quando mi incontrava.

    Certo che mi ricordo era la mia solita risposta alla quale seguiva il suo solito racconto delle avventure in quel posto paradisiaco.

    Anche a te stavano sul cazzo i piedipiatti. Me lo dicevi sempre.

    Sì Mario, hai ragione. Nel frattempo guardai i due giovani carabinieri, che fecero finta di non sentire e dopo aver pagato uscirono dal locale.

    Dopo aver preso il caffè al bancone insieme a Mario, salutai i giovani aspiranti viaggiatori diretti nella Valle della Luna, ringraziandoli per avermi offerto la Ceres e raccomandandomi con loro di non esagerare con le droghe. Dicendoglielo indicavo Mario che intanto si era messo a fare delle avance esplicite a Linda ed Emanuela, le due cameriere al bancone. Salutai Alessia, presi Mario sottobraccio e lo riaccompagnai a casa sua.

    Dopo tre anni trascorsi nella comunità per tossici di Morgongiori, creata dal prete affarista Don Angelo Pittau, Mario Pasciucco si era disintossicato ed era tornato a vivere a casa dei suoi genitori, in via Nuoro 43, esattamente nell’appartamento sopra il mio, al terzo piano. I casi della vita.

    Da circa sei mesi aveva ripreso a drogarsi. Purtroppo i corvi, cioè i pusher, sanno sempre come accalappiare le prede deboli e indifese. Ero certo che se Mario fosse rimasto in comunità a fare da istruttore agli altri sbandati che arrivavano a flotte a Morgongiori o se fosse andato via definitivamente da quest’isola prigione in cui viviamo noi sardi, probabilmente si sarebbe salvato la vita. E invece l’Aids se lo stava prendendo; lui era consapevole di questo e sembrava felice di non poterlo combattere.

    Tanto vale andarmene continuando a viaggiare con MAMMA ERO ripeteva sempre quando mi incontrava. A parte i suoi pusher, che venivano a cercarlo sotto casa due volte al giorno, brutti ceffi che mi veniva voglia di andare a denunciare alla vicina compagnia di Villanova, mi pareva che Mario riuscisse ancora a parlare soltanto con me e col suo meraviglioso pastore tedesco. Suo padre era un individuo taciturno e assente. Sua madre era appena morta. Suo fratellino, molto più giovane di lui, mi sembrava già avviato sulle orme malsane del fratello: lo incontravo sempre alla stazione dell’ARST che cercava di vendere il fumo agli studenti pendolari che dall’hinterland venivano a studiare in città. Sua sorella, rientrata in famiglia dopo varie vicissitudini, gli faceva da infermiera e forse solo grazie a lei Mario non ci aveva ancora lasciato.

    Io mi comportavo molto bene nei confronti di Mario e non solo perché quei due giorni nella Valle della Luna ci avevano comunque unito indipendentemente da cosa intendevamo come rivoluzione, ma perché era grazie a lui che avevo trovato il magnifico bilocale in cui vivevo da cinque anni in via Nuoro 43. Accadde un lustro addietro, prima che lui decidesse di entrare in comunità spronato dalla madre che voleva molto bene a quel figlio sbandato. Io rientravo da Sassari dove ero andato a presentare il mio libro di poesie pluripremiato. Lui salì alla stazione di Chilivani e si sedette nei posti di fronte al mio. Per la prima volta un inverno di freddo inusuale lo stava facendo fuggire dalla Valle della Luna. Mi riconobbe subito, forse perché ero l’unico personaggio alternativo passato per la Valle della Luna che si era rifiutato di fumare dalla sua pipa indiana o di spararsi in vena una pera di panna montata: era il secondo modo con cui chiamava l’eroina. Fu un bel viaggio, perché la sua dirompente simpatia non poteva che far diventare tutto bello. Quando venne a sapere che ero in cerca di una casa vicino a viale Bonaria perché ero stanco dell’umidità di quella fossa malarica in cui vivevo in via Cimarosa, mi disse che sapeva dove portarmi a vedere un appartamento. Era un bilocale sotto l’appartamento dei suoi genitori. Disse che tante volte aveva pensato di trasferirsi lui lì in modo definitivo ma poi aveva scoperto la grotta della Valle della Luna: quella era diventata la sua vera casa.

    Se il signor Pirretti ancora l’affitta, sarò io il tuo garante. Certo. Un hippy scapestrato che mi raccomandava per ottenere un bilocale in centro. Impossibile, pensai. Ma da due mesi cercavo un locale adatto alle mie esigenze e alle mie tasche e non riuscivo a trovarlo a causa delle squallide speculazioni immobiliari con le quali molti agenti cagliaritani stavano diventando milionari. Tanto valeva seguire Mario in Via Nuoro 43. Il signor Pirretti aveva letto i miei libri e mi apprezzava molto come scrittore. Non volle nemmeno la caparra. Quindici giorni e prendevo possesso del mio appartamento al secondo piano di quell’edificio color rame.

    Non potevo che essere grato a Mario Pasciucco se vivevo bene in quei cinquanta metri quadri. Nel candore bianco di quell’appartamentino in affitto ci avevo scritto tre romanzi di successo e qualche mio fan veniva anche a rompere i coglioni sotto i miei due balconcini. Ma erano delle piacevoli rotture di palle perché significavano che i miei messaggi narrativi stavano arrivando. Nell’appartamentino al secondo piano avevo vissuto con Elisabetta, una convivenza tormentata e agitata, ma necessaria poiché si rivelò fulcro della mia ispirazione. In quel bilocale dalle pareti candide come la sabbia della Valle della Luna ci stavo ancora bene e dovevo essere grato a Mario Pasciucco se mi stavo ancora godendo un gran benessere domestico.

    Per questo quando la morte si sarebbe presa Mario, e sarebbe accaduto molto presto, io volevo essergli vicino.

    Suonai il campanello della famiglia Pasciucco mentre Mario arzigogolava raccontandomi di come immaginava il suo paradiso. Strano che mi parlasse di paradiso uno che delle sue convinzioni ateistiche aveva fatto una bandiera personale. Classificai quelle sue cavillose fantasticherie religiose come figlie della paura di morire che stava invadendo anche un’anima ribelle come quella di Mario.

    Si spalancò il portone della famiglia Pasciucco. Il padre di Mario mi guardò senza emettere sibilo.

    Buon pomeriggio, signor Vito. Le ho riportato suo figlio.

    Mi ha riportato l’immondizia di casa vorrà dire, signor Ferreri.

    Vaffanculo pà fu il saluto di Mario entrando in casa.

    No. Vaffanculo tu che sei il disonore della famiglia. L’attrito fra i due era cosa a cui ero abituato, oramai.

    Il disonore di una famiglia che di onore non ne ha mai avuto, a parte Valentina. Confermo il mio ‘vaffanculo pà’. E scansati e fai entrare il mio amico. Il padre fece due passi indietro in modo che anche io potessi accedere in quell’appartamento che immaginavo ormai come un campo di battaglia quotidiano.

    Ma come fa una persona intelligente come lei a passare del tempo con un coglione come mio figlio? mi chiese provocatoriamente il signor Vito come se volesse redarguirmi in modo paterno.

    Perché suo figlio non è un coglione. Forse è soltanto uno che non ha mai goduto dell’affetto paterno di cui necessitava. Io le cose non le mandavo mai a dire. Ero famoso per la mia sincerità e la mia schiettezza, tanto da circondarmi di numerosi nemici.

    Come cazzo si permette di entrare in casa mia e darmi insegnamenti su come si distribuisce l’affetto per i figli?

    Quello che ha appena detto me lo conferma. Lei, signor Vito, ha utilizzato il termine ‘distribuire’. Un padre l’affetto non lo distribuisce: lo dà ai propri figli e basta. Un padre non deve dosarlo o darne di più o di meno.

    Ma che ne sa lei di affetto e di famiglia se ha trentotto anni e non ha avuto ancora le palle per mettere su una famiglia. Io a vent’anni ero già padre.

    E si vedono i risultati replicai. Non avevo mai pensato che il destino dei figli dipendesse esclusivamente dall’atteggiamento e dai modi educativi adottati dai genitori, ma nella famiglia Pasciucco l’assenza del padre e la mancanza di dialogo con i suoi figli era talmente palese che non mi vergognavo di essere duro con quell’ometto pelato che mi ringhiava di fronte.

    Lei non mi piace e non mi è mai piaciuto. Così come non mi piacciono i suoi libri. Lei spara sentenze senza conoscere le situazioni. Che cazzo ne sa di quanto affetto ho dato ai miei figli? La vita non è un romanzo, Ferreri.

    Se io ho successo è soltanto perché racconto tutte quelle verità che altri scrittori venduti al sistema e al vivere cordiale e non offensivo non scriverebbero mai. Io non ho paura di non piacere e nemmeno di dare fastidio. Per scrivere le verità che scopro e che vivo non ho nessun timore di farmi dei nemici. Anzi, più ho nemici e più mi ispiro. Lei dovrà rivolgersi a quel pianeta letterario sardo e a quei buffoni letterari del sistema sardo come Fois, Niffoi, Flavio Soriga o Michela Murgia. Sono autori mediocri che vincono premi letterari grazie ai loro editori che pagano fior di quattrini agli organizzatori dei premi e alle amministrazioni comunali delle città in cui quei premi vengono organizzati per far vincere i loro pupilli narrativi. Quelli non sono capaci scrittori, sono soltanto modesti narratori che vengono idolatrati dai politici, dalle fondazioni letterarie e dalle Associazioni Editori Riuniti che organizzano premi letterari e pubblicano delle merdate con i soldi distribuiti generosamente dal Ministero della Cultura, cioè con soldi delle nostre tasse. Io non appartengo a questo sistema letterario e non ci apparterrò mai. Per essere un autore di successo internazionale ho bisogno soltanto delle mie esperienze, della mia creatività e di un editore che lavora stando fuori da quel sistema sporco. Anche Roberto Saviano è uno gonfiato da quel sistema. Si legga i libri di Roberto Saviano.

    Io ho letto ‘Gomorra’ e mi è anche piaciuto.

    Non ne avevo dubbio. I Saviano, i Niffoi, i Soriga, o le brutte principesse letterarie come Michela Murgia, possono solo arrivare a persone mediocri come lei che non vivono di verità. Oppure arrivano a tutti quei critici letterari che prendono fior di quattrini dai quotidiani, dalle riviste specializzate o dalle reti televisive per creare delle recensioni esaltanti per opere mediocri. È un mondo a cui non importa che il libro valga di contenuti. L’importante è che gli editori paghino in nero le riviste, i quotidiani e le reti televisive per dar spazio ai loro autori. Se solo lei conoscesse quali nefandezze e abominevoli costruzioni giornalistiche ci sono dietro un libro mediocre come Gomorra di Roberto Saviano. Se solo sapesse quanto i nostri governi sovvenzionano a questo scrittore campano affinché eviti di rivelare tutti gli affari loschi che il nostro Stato ha sempre consolidato con le famiglie camorriste e quelle mafiose. Le faccio solo un esempio: io sono anni che faccio nomi e cognomi di tutti quegli imprenditori sardi che col benestare delle nostre amministrazioni regionali hanno costruito sulla nostra isola abnormi centri commerciali e paradisiaci residence turistici con l’ottanta per cento dei capitali provenienti dalla N’DRANGHETA calabrese. Traducendo, voglio soltanto dire che la maggior parte dei sardi che lavorano in questi centri commerciali e in questi paradisi turistici vengono pagati con i soldi sporchi derivanti dallo spaccio di droga, dai pizzi e dalle speculazioni edilizie. Questa è la merda che ricopre anche tutta la Sardegna. E se un giorno dovrò chiudere la mia attività imprenditoriale restando senza lavoro e magari non venderò più i miei romanzi, stia pur certo che non chiederò mai favori per andare al lavorare in questo sistema losco in cui è caduta anche la mia isola. Preferirò fare il barbone e vivere di elemosine. Magari andrò a vivere sotto le grotte della Valle della Luna dove per anni ha vissuto suo figlio. Lei si è mai veramente chiesto perché Mario, sangue del suo sangue, abbia preferito andare a vivere laggiù piuttosto che stare a casa con lei?

    Vito Pasciucco non rispose

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