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Omicidio a regola d'arte
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Omicidio a regola d'arte
E-book340 pagine4 ore

Omicidio a regola d'arte

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Info su questo ebook

Le indagini del commissario Chiusano

Nulla accomuna Chantal Chiusano, commissario appassionata e tenace, e Sara Steno, se non il fatto di avere sposato due pittori, entrambi morti a pochi giorni di distanza l’uno dall’al­tro: Giovanni Aiello, artista di grande talento ma di scarsa fortuna, e il fa­moso Michele Mosti, ucciso insieme alla sua giovane amante secondo un rituale raccapricciante, di brutalità inaudita. I loro corpi sono stati ri­trovati nudi, con il cranio fracassato da un oggetto pesante e con un sac­chetto sul volto, sfigurato da ustioni. Il commissario Chantal Chiusano è chiamata a occuparsi dell’omicidio di Mosti, e le sue indagini iniziano proprio dalla vedova. Sara Steno è una psichiatra e si dimostra subito collaborativa, for­nendo informazioni sul lavoro del marito. Più Chantal indaga sulla vi­ta segreta del famoso pittore e più si rende conto che ci sono altri crimini, rimasti a lungo senza colpevole, che potrebbero essere finalmente risolti. Critici potenti, fragili antiquari, mer­canti senza scrupoli, filosofi e giova­ni di belle speranze si aggirano sullo sfondo di una Napoli inquieta, dove nulla è come appare.

La maestra del giallo è tornata
Dall’autrice del bestseller Il giallo di Ponte Vecchio

Hanno scritto dei suoi romanzi:

«Letizia Triches è una storica dell’arte attratta dalla perversa creatività del criminale non meno che da quella dell’artista.»
Corriere della Sera

«Avvincente.»
la Repubblica

«Letizia Triches si avventura nelle ombre di un mondo che vermina di critici, antiquari, commercianti, filosofi e giovani di belle speranze.»
La Lettura
Letizia Triches
È nata e vive a Roma. Docente e storica dell’arte, ha pubblicato numerosi saggi sulle riviste «Prometeo» e «Cahiers d’art». Autrice di vari racconti e romanzi di genere giallo-noir, ha vinto la prima edizione del Premio Chiara, sezione inediti, ed è stata semifinalista al Premio Scerbanenco. La Newton Compton ha pubblicato Il giallo di Ponte Vecchio, Quel brutto delitto di Campo de’ Fiori, I delitti della laguna e Giallo all’ombra del vulcano, che hanno tutti come protagonista il restauratore fiorentino Giuliano Neri; Delitto a Villa Fedora e Omicidio a regola d’arte, incentrati sulle indagini del commissario Chantal Chiusano.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2020
ISBN9788822749598
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    Anteprima del libro

    Omicidio a regola d'arte - Letizia Triches

    Nota dell’autrice

    Il sogno di una storia è viaggiare nel tempo. A volte, però, deve fermarsi per un po’. Alcune storie sanno aspettare più di altre, come sanno fare certi personaggi che restano ben radicati nella mente di chi scrive. Come ha saputo fare Chantal Chiusano, la protagonista della mia seconda serie. Chantal portava con sé Verde napoletano. In quel romanzo c’era tutto il suo passato, e lei non riusciva a rassegnarsi: non poteva perderlo. Così ha continuato a sollecitarmi. Voleva a tutti i costi che lo raccontassi di nuovo anche se in una veste diversa.

    Sono stata felice di accontentarla.

    48 morto che parla

    Doveva essermi successo qualcosa di grave, ma non avrei mai immaginato quanto. Uno muore quando il cuore cessa di battere e il respiro se ne va. È quel che pensavo, come tutti del resto. Invece, ci siamo sempre sbagliati. La morte vera arriva parecchio tempo dopo che sono cessate le funzioni vitali, anche se non sono ancora in condizione di dire quando. L’unica differenza che in questo momento riesco a percepire tra me e i vivi è che, da vivi, si teme di morire, da morti, no. Poiché, se sull’evidenza della mia morte non ci sono dubbi, io non nutro alcun timore su quello che mi accadrà in seguito, fosse pure la mia completa estinzione nel nulla. Il problema vero è un altro. Sono morto e non so chi sono. Non riesco a ricordare chi ero da vivo, quale era il mio nome e per quale motivo sono passato a miglior vita. Le rare volte in cui mi aveva sfiorato il pensiero della morte, avevo concluso che sarebbe finito tutto lì. È evidente che non è così.

    Sono un’anima.

    Almeno, credo di essere un’anima, altrimenti come farei a pensare ancora? Forse sono solo un morto che parla, anche se ignoro una cosa tanto elementare come il mio nome. Forse sarebbe più onesto da parte mia confessare che le possibilità sono due. Sono convinto, infatti, che la scelta si riduca a due cadaveri. E il bello è che entrambi, di mestiere, facevano il pittore. Elemento molto significativo, ma anche pericoloso per la confusione che potrebbe generare. Vorrà dire che sarò costretto ad assistere a un doppio funerale, nella speranza di scoprire qualcosa di interessante. Non sarà troppo complicato, perché le cerimonie funebri si svolgeranno quasi nello stesso orario e in chiese vicine tra loro. Strana combinazione. Non troppo però, se si pensa che i due artisti si conoscevano e che sono morti a quattro giorni di distanza l’uno dall’altro. Un’ultima riflessione: cosa mi dà la certezza di essere stato uno di loro? Il fatto che adoro i colori.

    In vita, Giovanni Aiello ha lavorato anche per i preti. Per questo, in testa al funerale, c’è un vescovo solenne, con la toga ricamata e orlata da una striscia viola. Al suo fianco altri due sacerdoti fanno ondeggiare i turiboli, avvolgendo con nuvole di incenso la bara. Segue uno stuolo contenuto di personaggi illustri con qualche assessore e molti professionisti, avvocati e dottori, nelle cui case hanno trovato posto le Madonne dipinte da Giovanni.

    Tutti incedono composti e con un’espressione adatta alla circostanza. Dietro di loro, avanzano pochi parenti, tra cui Chantal, la moglie.

    Deve essere stata una bella donna, ma ciò che resta della sua avvenenza è reso opaco da una malinconia senza conforto. Il suo sguardo è a tratti perduto, a tratti penetrante. Il mio istinto mi dice che possiede un certo ascendente sugli uomini, ma nulla di più. I suoi gesti non lenti, ma neppure rapidi, la sua andatura molle e sinuosa, che dona un movimento alterno ai fianchi e al seno, non evocano nulla nei miei ricordi. Non sono in grado di capire se quella donna è stata mia e se sono io a giacere in quella bara.

    Riporto la mia attenzione sulla folla che chiude con un codazzo disordinato il corteo funebre. I vigili arrestano e deviano il traffico intenso per le vie laterali. La vecchia Napoli, rumorosa e sensuale, ci attira verso la chiesa di San Domenico Maggiore, tra le case serrate che ci si stringono addosso.

    Scendendo in città questo pomeriggio, Chantal non si è portata negli occhi nulla del panorama che si gode dalla sua casa di Bacoli. Né un pezzettino di cielo, né un’increspatura di mare che le scaldino il cuore. La chiesa per il funerale è stata scelta perché in una cappella c’è la copia della Flagellazione di Caravaggio. Entrando, alza gli occhi verso il grande quadro e ricorda le parole esatte di Giovanni di fronte al dipinto originale.

    «Non è un bel nudo», aveva detto suo marito un giorno, a Capodimonte. «Ha la testa troppo piccola, per quel torso tanto massiccio, e le gambe sono magre e deboli, ma è l’opera più grande di Caravaggio, per l’ombra diffusa che avvolge le figure spingendole verso un unico colore».

    Parole che nascondevano per lei una minaccia allarmante. D’istinto aveva pensato alle recenti abitudini del marito, in cerca dell’oscurità della notte in passeggiate solitarie fino alle due, alle tre del mattino. Perché anche lui aveva preso quel vizio di usare la monocromia? Come se la sua stessa vita fosse diventata di un unico colore cupo. Giovanni aveva deciso di abbandonare per sempre i suoi colori luminosi? Non c’era stato il tempo della risposta. Lui moriva qualche giorno più tardi e nella chiesa di San Domenico Maggiore c’è venuta per assistere al suo funerale.

    Chantal si sta dicendo che è da lì che deve partire, perché una risposta all’incomprensibile morte del suo uomo tanto amato la deve assolutamente trovare. Si stringe di più il cappotto addosso, affonda il collo nella sciarpa nera e cerca, da dietro le lenti scure degli occhiali, nei volti della folla anonima un aiuto per sopravvivere. Di gente attorno ce n’è molta, ma i volti conosciuti sono pochi. Il commissario Chantal Chiusano comincia a cedere all’abitudine e formula delle ipotesi. È sempre lo stesso meccanismo che riaffiora: trovare uno dei tanti tasselli mancanti nel mosaico della vita. Si chiede se la sua particolare posizione nelle indagini non le farà correre il rischio di sbagliare.

    La cerimonia sta per finire. Si accosta al feretro e posa la mano sul legno duro e ostile. La cosa che si trova là dentro non è Giovanni. Chissà dov’è adesso veramente. Di fronte a quella verità si sente incredula. Come spesso le accade nel suo lavoro, forse perché le prove troppo convincenti non l’hanno mai davvero persuasa. Dopo averla tanto a lungo frequentata, è la prima volta che passa attraverso la sostanza vera della morte.

    In fretta, per via dei Tribunali, fino alla chiesa del Pio Monte della Misericordia, sperando di giungere in tempo.

    Il funerale di Michele Mosti mi appare subito diverso. Ogni omicidio ha un movente, fatta eccezione per quello provocato da un’esplosione di furia. Non è questo il caso. Qui c’è stato un omicidio violento e premeditato e il cadavere, così orrendamente sfigurato, non riesco proprio a guardarlo. Mi farebbe troppa pena se dovessi scoprire di essere io. Chi mi odiava a tal punto da accanirsi tanto su un corpo ormai privo di vita?

    Preferisco osservare i presenti.

    Una sfilata di facce conosciute dell’ambiente artistico. Famosi critici d’arte, galleristi, docenti dell’Accademia, ricchi collezionisti. Una sfilata illustre che ci tiene ad accompagnare il morto all’ultima dimora. Sono tutti protagonisti, compreso il pittore che sono venuti a seppellire e che, in vita, a differenza di Giovanni Aiello, doveva avere preso il contagio della folla. Questo morto qui non era capace di stare da solo, aveva bisogno di trovarsi sempre tra la gente per sopportare la vita.

    La chiesa è stracolma e la vedova è bellissima. Il collo lungo, il naso dritto e sottile, la bocca sensuale. I capelli, legati in una semplice coda lunga sulle spalle, formano un nodo morbido e compatto, perché, pur essendo biondi, i suoi capelli non sono capelli da bionda, fragili e sottili, ma si raccolgono in una massa setosa in cui mi piacerebbe poter affondare le mani. L’ho mai fatto? Non riesco a ricordarlo. A fatica smetto di fissarla, per scrutare intorno, come farebbe il commissario Chiusano, cercando tra tanta gente il volto dell’assassino.

    Sara Steno è in piedi, con la mano sinistra appoggiata al banco della prima fila, mentre tende la destra, rigida, a quelli che le si avvicinano per le condoglianze, costretta a ricevere numerosi e umidi baci, un po’ ripugnanti.

    Una di quelle circostanze in cui, chissà quante volte, ciascuno dei presenti ha formulato le frasi di rito, ma stavolta per il morto non esiste soltanto pietà per la sua giovane vita stroncata nel fiore degli anni. È il modo in cui è stata stroncata questa vita a far scorrere sulla schiena di tutti un brivido di orrore e di curiosità morbosa e compiaciuta.

    L’antiquario, Carlo Tacchi, si è staccato dall’abbraccio frettoloso con la vedova e così, in piedi, tra i banchi e il feretro, con una mano indugia sul braccio di lei, mentre con l’altra gesticola, sottolineando le parole.

    «Mi ricordo la prima volta che ti vidi insieme a Michele e non posso trattenermi dal piangere. Troppa passione, troppa nell’amore, nell’arte… Si può morire d’arte? Ah, se riuscissi a tornarmene alle mie anticaglie e basta».

    Per fortuna smette di declamare e si risiede sulla panca al suo posto.

    Carlo Tacchi è un uomo meticoloso, prudente, timoroso di mille cose: del freddo, delle malattie, del cibo andato a male. Figuriamoci della morte.

    La coppia che ora si avvicina a Sara ha avuto, senza alcun dubbio, uno stretto rapporto con il morto. Sono i coniugi De Lorenzo, Gaetano e Giulia. Lui ha un’espressione malinconica e apparentemente inoffensiva. Lei si muove a scatti e pare perdere l’equilibrio a ogni passo, se non ci fosse il marito a sostenerla. La voce le esce simile a un sussurro metallico dalle labbra sottili, delineate da un segno deciso di matita rossa. Soltanto io e la vedova siamo in grado di udire le sue parole, ma ignoro se anche per lei il senso sia oscuro come lo è per me.

    «Per ora non ti dico nulla, Sara, tra qualche giorno ci metteremo al corrente di quello che sappiamo».

    Gaetano e Giulia De Lorenzo sono dei galleristi molto potenti a Napoli. Con la loro spregiudicatezza e i loro ricchi mezzi dettano legge nel mercato dell’arte contemporanea in città.

    All’improvviso una frase mi colpisce: «Ha il letto facile».

    Non so chi abbia formulato un simile commento, ma è rivolto a lui. Ad Ascanio Baldi Oppi, il critico d’arte più famoso di Napoli. Lo osservo con un misto di antipatia, mentre avvolge Sara con un lungo abbraccio. Poi, qualche moncone di ricordo si stacca dalla mia memoria frantumata e vedo il critico mentre sul suo viso si dipinge un’espressione disgustata. Rammento alcuni dei suoi scontri verbali intorno all’annoso problema: artisti figurativi o artisti astratti? Fazioni che si combattono senza quartiere e lui, in mezzo, a rimestarci dentro. La mia istintiva avversione nei suoi confronti dipenderà solo da questo?

    «Che pena anche per quella povera creatura», sta dicendo a Sara. «Capisco che per te non sia facile, ma anche quell’infelice ragazza… morire così…».

    Mi sono distratto e devo essermi perso qualcosa di importante. Spinto dalla curiosità, indago e scopro che Michele Mosti non è morto da solo. Insieme a lui c’era una ragazza. Pare che fosse la sua ultima amante, una a cui teneva moltissimo. È stata la moglie a scoprirli, ammazzati nel grande letto della casa coniugale.

    La mia attenzione, ora, è tutta per Sara e per il suo bel viso. Ma la sua mente è impenetrabile. Possibile che sia lei l’assassina? Straziare il corpo del marito, prima desiderato e dopo profondamente odiato. Però il modo atroce in cui sono stati sconciati i cadaveri… no, non mi sembra in grado di compiere azioni così brutali. Tuttavia, la vista della nudità del marito e della sua giovane amante potrebbe aver scatenato quella forma di sadismo con cui si è concluso il delitto. È un’ipotesi da valutare. Di sicuro si è trattato di un’esecuzione premeditata e particolarmente perversa.

    Una specie di risatina irriverente mi giunge dal fondo della chiesa. Lì si accalcano gli studenti dell’Accademia di Belle Arti, dove insegnava Michele Mosti. Guardo avidamente i volti dei ragazzi. Dovrei riconoscerne qualcuno? Giovani liberi nel linguaggio e nei gesti. Mi colpisce la disinvoltura con la quale si stanno raccontando oscenità estranee al luogo in cui ci troviamo.

    Infine, mi attrae una figura in disparte. La prima impressione è che sia solo una ragazza bionda e pallida. Lei non parla e sembra non badare a nessuno. Resta a lungo silenziosa e assente, con gli occhi chiusi, tanto che temo si sia addormentata. Sta mezzo raggomitolata su una panca, con il mento inchiodato sul petto.

    «Signorina, è finita», la scuote la persona seduta accanto a lei.

    Apre gli occhi, si drizza con la schiena e risponde con una voce che pare venga da un fondo di cantina.

    «Grazie, io… io… adesso devo andare al cimitero, da Sofia». Indugia per un istante con un’espressione impenetrabile sulla massa di gente che si sta alzando dai banchi. «Al suo funerale non ci sarà nessuno», aggiunge.

    Sono di nuovo all’aperto. Spaccanapoli si allunga sotto di me come un filo tesissimo. Questi morti mi hanno tenuto continuamente in moto, tra Napoli e Posillipo, e mi è parso che avrei potuto analizzare, indagare, confrontare. Se avessi scoperto chi ero, sarebbe bastato a mettermi in pace. Forse potrei fuggire per un po’ e, infine, tornare e vedere cosa è successo. Se il commissario Chiusano, nel frattempo, avesse svelato il mistero che avvolge queste morti misteriose, forse potrei andarmene per sempre. Invece niente. Non sarà così che accadrà. Ragiono ancora come se fossi vivo. La verità è che, persino nel mio nuovo stato, ignoro ciò che mi aspetta. Nulla è cambiato.

    Uno

    Sara

    Avevo l’impressione che la sua ultima crisi stesse durando più tempo del solito. Di norma Michele affrontava l’assenza di ispirazione aspettando. Si mostrava indifferente alla mancanza dello stato di grazia e si distraeva immergendosi a più non posso nel flusso della vita quotidiana. Era sempre stata la sua ricetta, quando si sentiva vuoto. Ma era chiaro che stava accadendo qualcosa di imprevisto. Già nell’ultima settimana di ottobre, infatti, era voluto rimanere da solo a Napoli, rifiutando i soliti inviti e avvertendomi di non raggiungerlo.

    Lo immaginavo mentre preparava le tele per i quadri, riordinava lo studio e riesaminava i lavori precedenti. Come uno che va a caccia di qualcosa, uno spunto o una percezione in grado di suscitargli una visione. Ormai, però, non ci cascavo più. I suoi travagli avevano smesso di coinvolgermi.

    A cosa gli serviva mettersi sotto pressione, se era l’estro che gli mancava? Inoltre, ero certa che il nostro recente scontro lo stringesse in una morsa oscura, eppure non provavo alcuna pietà per lui, chiuso nel suo studio a non sapere come riempire la tela che aveva davanti. Io, invece, avevo un compito preciso da svolgere. Dovevo capire perché non avevo voluto tenere conto dei segnali con cui il destino si era divertito a stuzzicarmi e perché lo avevo sposato. Ma per quale motivo avrei dovuto capire che stavo sbagliando? Mi ero abbandonata a impulsi ingovernabili e disgustosi, quelli che dovremmo rifiutare e che, al contrario, la nostra anima accoglie come una madre amorosa e traditrice. A mia discolpa, potrei dire che, se anche avessi trovato la forza di confessare a qualcuno i miei timori e di definire con maggiore chiarezza le mie incertezze, non sarebbe servito a nulla. Tutti noi, anche chi si illude del contrario, facciamo solo quello che sentiamo di fare e non ascoltiamo nessuno. I ragionamenti vanno e vengono, ma non pesano sul nostro cuore.

    Michele non era bello e non era neanche il mio tipo.

    Quando nel maggio del 1985 entrò per la prima volta nel mio studio, gli dedicai tutta l’attenzione necessaria, come è mia abitudine. I suoi tratti leggermente grossolani, le palpebre pesanti e le labbra carnose davano al suo aspetto un’aria poco raffinata per me. L’imponenza del suo corpo avrebbe potuto piacermi, ma qualcosa nelle sue proporzioni me lo rendeva sgradevole. Non so… forse le spalle strette, nonostante l’altezza e le gambe robuste.

    «Perché proprio Roma?», gli avevo chiesto.

    «Perché fa al caso mio», aveva risposto.

    Mi aveva appena confessato che a Napoli nessuno doveva essere a conoscenza dei suoi viaggi a Roma per farsi curare. Me ne spiegò i motivi, che non mi convinsero. Per un artista qualsiasi stranezza è accettabile, pensavo. Chi avrebbe trovato sconveniente la sua fobia? Sarebbe stato buon pane per i denti dei critici. Loro ci avrebbero ricamato sopra mille congetture per la delizia del pubblico, ma Michele Mosti non ne voleva sapere di confessare al mondo intero qualcosa che lo faceva sentire menomato come uomo e come artista. Doveva trovare una soluzione, per questo era venuto da me.

    Studiava ogni mia mossa.

    Eravamo seduti, uno di fronte all’altra e i nostri piedi si sfioravano sotto la scrivania. Io, intanto, sfogliavo i cataloghi delle sue mostre. Volevo farmi un’idea sul suo lavoro.

    Un curioso fremito dietro lo sterno mi procurò una sensazione sconosciuta. Si trattava quasi di un malessere fisico, che non ero in grado di dominare. Nello stesso tempo, però, quel disagio mi dava una strana forma di piacere. In seguito, sarebbe stata una situazione molto frequente nella mia vita con lui. Allora, tuttavia, non vi diedi troppo peso, anche perché fui afferrata da una diversa intuizione, più professionale. Mi ero accorta che per lui non esisteva alcuna distinzione tra arte e vita. La cosa mi sembrò un elemento negativo e mi misi immediatamente in allarme.

    «Posso fumare?», domandò, tirando fuori dalla tasca un corto bocchino d’argento.

    «Se la fa star bene, sì. Ma non più di una sigaretta», gli concessi.

    Lo vidi prenderne una senza filtro da un astuccio, anche questo d’argento, spezzarla in due, metterne una metà nel bocchino e l’altra di nuovo nell’astuccio.

    «Per dopo», sottolineò. Poi aggiunse, sorridendo e accennando con il capo a me che stavo ancora con un catalogo aperto sulle riproduzioni fotografiche delle sue opere: «Si capisce subito che non siete un’addetta ai lavori».

    Lo ricambiai con un sorriso formale.

    «No. Non ho una grande passione per l’arte contemporanea». Non volevo offenderlo e, quasi scusandomi, aggiunsi: «Finora è un mondo che non mi ha mai sfiorato se non per caso e con pochi risultati».

    In quella circostanza mi bastava sapere che Michele Mosti era un pittore piuttosto affermato, anche se solo a Napoli, e che le sue quotazioni erano discrete, quel tanto da permettergli degli extra. Come, ad esempio, venire a Roma due volte alla settimana per essere curato da me. E i miei onorari non erano certo alla portata di tutti. Seppi, in seguito, che per i suoi spostamenti sceglieva sempre vagoni di prima classe. Un autista lo prelevava alla stazione Termini e lo conduceva direttamente in un albergo esclusivo, piccolo e centrale, ma defilato rispetto al normale flusso dei turisti.

    Smisi di guardarlo e riportai la mia attenzione al catalogo.

    Da tempo non mi accadeva di osservare tanto a lungo delle riproduzioni artistiche. Lo ammetto, non si trattò di puro interesse professionale. Michele mi aveva descritto con meticolosa precisione la natura del problema che lo aveva costretto a rivolgersi a uno specialista: l’impossibilità di guardarsi allo specchio. Il fatto gli procurava un enorme disagio, mentre un senso di sconfitta lo trafiggeva di continuo, senza concedergli pause. Per lui non era più possibile vedere il proprio volto riflesso. Doveva esserci per forza un legame con la sua pittura. Non poteva essere un caso se, nelle riproduzioni dei suoi dipinti, da cui ormai non riuscivo a staccare lo sguardo, osservavo anatomie precise e molto realistiche. Un popolo di nudi, tutti con un non so che di familiare. Li seguivo nella suggestione di un groviglio di linee in cui un colore squillante li faceva emergere e, altrettanto velocemente, dileguare. Sembravano degli attori che il mondo inconscio di Michele sollecitava a vivere, ma erano tutti inesorabilmente senza volto. Al posto dei tratti somatici, la testa di ciascuno di loro mostrava dei disegni simili a labirinti equivoci in cui si scorgeva la traccia di altre figure.

    «Come mai nessuno si è accorto del suo problema?»

    «Vivo da solo e mi sono fatto crescere la barba. Una volta ogni quindici giorni vado dal barbiere, che mi accorcia anche i capelli. Al posto dello specchio del bagno, ho appeso un quadro e l’unico specchio, in casa, si trova in fondo a un corridoio. Sopra ci ho attaccato un faretto che mi spara la luce dritta negli occhi, così sono in grado di darmi una sbirciata di sfuggita senza troppa difficoltà».

    «Se per caso non fosse abbastanza attento? Se le capitasse di vedersi anche in faccia?»

    «Non succede mai», rispose seccamente.

    «Forse adesso, ma nei primi tempi, quando è comparso il disturbo, se fosse accaduto?»

    «Stavo male. Un senso di nausea, tachicardia, sudore freddo. Volevo fuggire. Mi assaliva la paura. Arrivavano fantasmi, ombre, incubi».

    Avevo aperto una piccola falla e la sua passione cominciò a scaricarsi su di me, come se non riuscisse a tenere testa a un’incontinenza pressante.

    I suoi fantasmi mi apparvero, più accesi e più forti di quanti altri avessi mai incontrato fino a quell’istante.

    Due

    Chantal

    Alla mia tenera età – quarantasei anni suonati – non riesco ancora a convivere con il mio nome. Non mi ci sono mai abituata. Ma come si fa ad andare d’accordo con un nome da soubrette? Sono persino stonata. I miei genitori non si sono interrogati sulle difficoltà che in seguito avrei potuto avere, magari a causa della mia professione. Già, ma anche questo non era facile da indovinare. Non sono tante le donne che diventano commissario di polizia. Per fortuna, sul lavoro sono ufficialmente il commissario Chiusano e, in linea confidenziale, la Commissaria.

    Mio marito è morto, ma sento ancora la sua voce rimbalzare, simile a un'eco, da una parete all’altra delle tre camere e cucina che costituiscono il nostro appartamento. Piccolo, però con vista mare. Io gli rispondo come se fosse lì, rivolgendogli domande che non attendono risposte, mettendolo al corrente di quello che mi succede. Con Giovanni parlo quando siamo da soli. A lui non rinuncio. Non posso. Il nostro rapporto ha subito un semplice cambiamento, mi sono detta, non appena sono riuscita a riprendermi quel tanto da poterci ragionare sopra. Se Giovanni se ne è andato, non si è interrotto l’amore che nutro nei suoi riguardi e, dunque, perché dovrei fingere che per me non esiste più?

    Sul lavoro non ho perso un colpo, dimostrando di saper sostenere persino le situazioni non proprio facili che devo affrontare ogni giorno.

    Il mio lavoro mi tiene in vita, anzi me la fa amare ancora, la vita. Ragiono sui fatti, intreccio il passato con il presente, mi lascio sfiancare dalle emozioni forti, che nutrono i sogni della notte e le illusioni del giorno. Credo sia un modo per sfogare la mia rabbia. Meglio non saprei fare. Mi serve per lasciarmi andare e forse, alla fine, mi renderò conto di poter vivere anche senza di lui. Dovrei esserne convinta e non lo sono, ma il mio lavoro non mi costa fatica, anzi mi piace, così ho cominciato da subito. A indagare.

    Sono nata a Sant’Angelo d’Ischia. Sulle guide si legge un ridente paesino sul mare. Chissà perché questi paesini devono ridere sempre. Comunque il paese che mi ha visto nascere è bello davvero. Ci si arriva dall’alto e ci si ritrova a dover percorrere una strada tutta in discesa con Sant’Angelo in basso ai tuoi piedi, legato a un isolotto da un’esile striscia di sabbia. Il paese vero e proprio è costruito come se fosse un’unica casa a più piani di vari colori pastello, sparsi su una sola superficie bianca che pare quasi calce.

    Ho lasciato Ischia per Napoli, dove mi sono iscritta all’università, e di Giovanni Aiello, fino a quel momento, non me ne ero mai curata. Il paese, in cui eravamo nati entrambi, era piccolo, troppo perché non conoscessi anche la sua famiglia, ma chi si preoccupava allora dei nennilli che correvano per strada? Tra noi c’erano ben nove anni di differenza. Io ero già una signorinella, portavo le calze

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