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Il dono dell'acqua - Il mistero dell'abbazia di Lucedio
Il dono dell'acqua - Il mistero dell'abbazia di Lucedio
Il dono dell'acqua - Il mistero dell'abbazia di Lucedio
E-book244 pagine3 ore

Il dono dell'acqua - Il mistero dell'abbazia di Lucedio

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Info su questo ebook

Silvio, giovane studente torinese, si perde in uno dei tanti mercatini dell'usato in cui è solito avventurarsi. Su una bancarella trova un oggetto che cattura subito la sua attenzione. All'apparenza sembrerebbe un frammento di un piatto medievale. Controllando, scoprirà che proviene dall'abbazia di Lucedio, nel vercellese. Decide così di comprarlo e di regalarlo alla sua ragazza, dedita proprio in quel periodo alla stesura di una tesi universitaria sull'abbazia piemontese. Quello che all'inizio sembrava un innocuo cimelio si rivelerà però ben presto il tassello iniziale di un mistero antico e quasi dimenticato...
LinguaItaliano
Data di uscita7 apr 2022
ISBN9788728214602

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    Anteprima del libro

    Il dono dell'acqua - Il mistero dell'abbazia di Lucedio - Silvano Nuvolone

    Silvano Nuvolone

    Il dono dell'acqua

    Il mistero dell'abbazia di Lucedio

    SAGA Egmont

    Il dono dell'acqua - Il mistero dell'abbazia di Lucedio

    Translated by

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2010, 2022 Silvano Nuvolone and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728214602

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Silvano Nuvolone, nato a Chivasso (Torino) nel 1958, risiede a Cavagnolo e svolge la professione di farmacista. Poeta e scrittore ha pubblicato due raccolte di poesie (Gocce d’inchiostro, 1990 e Colori di terra, 1994), una raccolta di racconti (Incontri sul fiume, 1991) ed ha esordito nella narrativa nel 1998 con il romanzo La pianura di nebbia (ed. Lighea).

    Con i tipi dell’editrice Il Punto ha pubblicato nel 2002 il romanzo dolciniano I fuochi del tempo oscuro, cui è seguito due anni dopo Il cammino di Antares.

    Recentemente ha dato alle stampe i romanzi:

    La stagione della neve (Tipografia Baima Ronchetti, 2007) – delicato affresco poetico e storico, ambientato nel Piemonte del 1491 fra Casale Monferrato, le terre d’Ivrea e le valli Orco e Soana – e Gli uomini del piccolo fiume (Pintore, 2008), dove si narra l’avventura del Reggimento Carignano-Salière nelle terre del Canada.

    Sempre recentemente ha pubblicato due sillogi poetiche: Figli incontrati (Carta e penna, 2008) e Luoghi (Ibiskos, 2009), quest’ultima primo premio al concorso internazionale San Domenichino Città di Massa, 2008.

    Ringraziamenti.

    Si ringraziano l’amico studioso Mario Ogliaro e il dottor Silvano Accomo per l’aiuto sulla lingua latina e per l’incoraggiamento che sempre m’infondono; la dottoressa Paola Briccarello, autrice della ricerca sullo spartito del diavolo, che mi ha permesso di utilizzare il suo lavoro; il gruppo Teses, nella persona di Luigi Bavagnoli, che da sempre studia il sottosuolo di Lucedio e dal cui lavoro ho imparato molto sui misteri dell’abbazia; il circolo Ravasenga di Casale Monferrato, nella persona di Paolo Testa; gli Amici della Biblioteca di Crescentino per la considerazione che sempre hanno nei confronti dei miei libri; ancora gli amici Marinella, Renzo e Franco.

    Un ringraziamento particolare allo scrittore e poeta Maurizio Romanelli, dal quale ho cercato e cerco di imparare l’arte della poesia; all’artista Emmanuele Baccinelli per il disegno dell’abbazia di Lucedio; a mia moglie Mariella e a mia figlia Roberta, che sempre sopportano le mie bizzarrie.

    A Roberta,

    che i tuoi passi siano

    sempre colmi di sorrisi.

    Capitolo 1

    Terre dellaSelva di Lucedio.

    Anno del Signore millesimo duecentesimo sesto.

    L’autunno era cominciato con la pioggia.

    Una pioggia fitta e noiosa, che cadeva ormai da tre giorni e tre notti.

    Le gocce, piccole ed insistenti, rimbalzavano sulle erbe fradice, disegnavano cerchi ineguali negli stagni e nei fontanili e scendevano nella terra molle, impastando fango e foglie cadute.

    Martino sfiorò con lo sguardo la sagoma scura della grande abbazia di Santa Maria di Lucedio, che si delineava netta e solenne sullo sfondo brumoso del cielo d’ottobre.

    Osservò la figura addormentata di suo figlio, steso sulla carretta e coperto con pesanti indumenti di lana grezza e si segnò, mentre un’angoscia greve saliva dal profondo, per fermarsi appena sopra il cuore, in un groppo pesante.

    Martino era un povero contadino che lavorava i campi di proprietà dell’abbazia, fra le terre umide della pianura, a poche miglia dalla città di Vercelli.

    Suo figlio Giacomo, quattordici primavere appena, era malato da tempo.

    Aveva spesso crisi e convulsioni e durante uno di questi episodi si era ferito accidentalmente ad una gamba.

    La ferita era suppurata ed ora la gamba era gonfiata.

    Una vecchia, che diceva di conoscere le erbe, gli aveva applicato un empiastro, ma non c’erano stati miglioramenti.

    «Tuo figlio non può guarire, perché dentro di lui c’è un demonio, uno spirito malvagio», aveva allora sentenziato la medicona. «Potrà salvarsi soltanto con un esorcismo, soltanto l’abate Oglerio, il sant’uomo di Lucedio, può fare questo. Va’ da lui, portagli tuo figlio e lo guarirà».

    Sua moglie aveva coperto Giacomo con le poche coltri che possedevano e Martino aveva aspettato la fine di una crisi, quando il ragazzo – spossato – era caduto in un sonno profondo. Lo aveva deposto adagio sulla carretta che usava per trasportare la legna, ed era partito.

    Ed ora era lì, con il volto gocciolante di pioggia, non più trattenuta dai suoi capelli radi e già grigi.

    Si segnò ancora una volta, mentre gli tornava alla mente la figura imponente di Oglerio, abate di Lucedio, il terrore degli spiriti immondi, come molti già lo chiamavano.

    Martino si passò la mano sul volto grondante e si schiarì gli occhi, spingendo la carretta nella strada fangosa, verso l’ingresso dell’abbazia.

    Posò una carezza sul volto di Giacomo, che ancora dormiva, e gli rimboccò la coperta, lasciandogli scoperti appena gli occhi chiusi, mentre una preghiera rabbiosa saliva verso le nubi gonfie.

    Fratello Guglielmo sentì il rumore del batocchio di ferro del portone e, coprendosi il capo per ripararsi, si affrettò all’ingresso.

    Accostò il pesante battente e vide il volto fradicio di Martino.

    «Mio figlio, mio figlio ha bisogno di cure» disse, mostrando con il dito la figura immobile.

    Guglielmo aprì il portone.

    «Vieni, entra. Mi racconterai tutto in un luogo coperto, questa pioggia ancora non accenna a chetarsi».

    Spinsero la carretta verso la parte occidentale dell’abbazia, dove c’erano gli edifici riservati ai conversi. La cucina era riscaldata da un fuoco vivace, che brillava nel camino.

    Al tepore della stanza, Giacomo si risvegliò.

    Il ragazzo cercò di mettersi seduto, ma il dolore alla gamba era quasi insopportabile e ricadde sdraiato.

    Martino ed il monaco lo sollevarono e lo misero su una branda accanto al camino.

    Guglielmo prese alcune pezze di tela e gli asciugò il volto.

    «Mio figlio è molto malato. Ha una brutta ferita alla gamba ed una vecchia mi ha detto che un demonio lo possiede e soltanto il vostro santo abate Oglerio può guarirlo. Quando questo demone si agita dentro di lui, le membra si irrigidiscono, poi si dimena e nessuno riesce a fermarlo. Gambe e braccia si scuotono, senza che lui possa comandarle. Cade poi in un sonno profondo e quando si risveglia è debole, senza forze e spesso non ricorda nulla».

    Martino si prese la testa fra le mani, mentre un singhiozzo sordo saliva nel petto.

    «È il mio unico figlio. Mia moglie ha già quasi quarant’anni e non potrà certo darmene altri. Vi supplico perché possa vivere».

    Guglielmo lo tacitò con un gesto di mano.

    «Non dovete supplicare gli uomini, ma soltanto il nostro Dio Onnipotente e Nostro Signore Gesù».

    «Ma tutti dicono che il vostro santo abate Oglerio…».

    «L’abate Oglerio è certo un sant’uomo, eppure anch’egli è soltanto uno strumento del Signore, come certamente non mancherà di dirti egli stesso. Dovete aver fede, fede e devozione. In questo modo il vostro figliolo potrà essere salvato. Ma adesso, vediamo questa ferita».

    Guglielmo scostò la coperta e sollevò le braghe di telaccia che coprivano la gamba malata.

    La ferita era profonda e suppurata. Anche senza grandi conoscenze mediche si capiva che era grave e che il ragazzo era in preda ad una forte febbre.

    «Una vecchia che s’intende di erbe, pochi giorni fa gli ha fatto un empiastro, ma non è servito a nulla».

    «Quella vecchia avrebbe dovuto preparare della polenta di castagne, invece di fare danni sulla gamba di tuo figlio», mormorò il monaco, ricacciandosi in bocca parole ben meno acconce e facendo ammenda per averle pensate.

    Prese una pezza di tela e un bacile di acqua tiepida e lavò accuratamente la ferita, allontanando i residui vegetali che ancora vi erano attaccati.

    Il ragazzo aprì gli occhi e cercò la mano di suo padre.

    Il monaco chino sulla sua gamba gli faceva paura.

    Spesso aveva visto i monaci di Lucedio, al lavoro nelle terre o in preghiera, e sempre gli avevano generato un certo timore.

    Ora la mano di suo padre lo stringeva forte e nulla avrebbe potuto nuocergli.

    Richiuse gli occhi.

    «Andrò a chiamare il fratello erborista, maestro Ugo. Egli conosce la scienza e la medicina della natura e delle erbe. Con l’aiuto del Signore potrà cercare di curare la ferita e rimediare ai danni che una vecchia stolta ha causato».

    Uscì in silenzio, dirigendosi versol’armarium, il locale posto nella parte orientale del monastero, dove si custodivano il libri dell’abbazia.

    Maestro Ugo stava consultando alcuni manoscritti della Scuola di Salerno di Guarimpoto, dove si trattava di come preparare e conservare i medicamenti.

    Il frate aveva superato di poco i sessant’anni ed il volto severo era incorniciato da una folta barba, abbondantemente spruzzata di bianco; gli occhi azzurri erano appena velati d’opaco, ma ancora ci vedeva benissimo e la sua mente era acuta e brillante.

    Alzò gli occhi verso una delle finestre che si aprivano sul chiostro e, mentalmente, prese visione della luce del giorno. Era quasi l’ora terza e fra poco ci sarebbe stata la funzione di metà mattina.

    Sfogliò un’altra pergamena, cercando informazioni sui fiori di meliato, che già conosceva e usava, tritati ed impastati con miele, per le ulcere degli arti inferiori.

    Sentì bussare alla porta e, non senza un soffio d’insofferenza, posò sul leggio il trattato e si recò all’uscio.

    «Maestro Ugo, necessita la vostra presenza. Un povero padre chiede aiuto per il figlio malato.

    Ha una brutta ferita alla gamba, che io ho già provveduto a pulire con acqua di fonte. Una vecchia ignorante aveva peggiorato il male, con erbacce ed empiastri e soltanto la vostra saggezza, unita alla fede in Nostro Signore, potrebbe guarirlo. Venite, vi condurrò da lui».

    Fuori, la pioggia batteva ancora insistente, e lo scandire ritmato delle gocce era il solo rumore udibile, in quella quieta mattina. I monaci lavoravano in silenzio, all’interno dei locali; chi in cucina, chi nel refettorio, chi al mulino, eretto accanto alla roggia Lamporo, che attraversava l’airale, il grande cortile.

    Maestro Ugo accelerò il passo, sentendo rivoli freddi scendere sul viso, coperto a malapena dal cappuccio.

    Il ragazzo ora respirava regolarmente, anche se la fronte, gocciolante di sudore, era in fiamme.

    Maestro Ugo scrutò con cura la ferita ed osservò il pallore del ragazzo.

    Il giovane aveva un’aria spaurita ed indifesa.

    Il monaco gli disse di giungere le mani ed una preghiera, semplice e leggera, fiorì sulle labbra.

    «La ferita è sporca, profonda e umida. Preparerò un unguento, dopo aver pulito ancora la piaga con una lozione di aceto e vino.

    Poi faremo bere al ragazzo un poco di vino cotto, per abbassare la febbre e favorire il riposo. Attenderemo, pregando il Signore e facendo penitenza, affinché vostro figlio possa guarire».

    «Una vecchia ha detto che egli è preda del demonio e che soltanto il santo Oglerio può liberarlo», mormorò a bassa voce Martino.

    Maestro Ugo lo guardò duramente, alzando gli occhi chiari e mettendo le sue mani sulle spalle di Martino.

    «Questo lo vedremo. Per ora io vedo soltanto una brutta ferita, che potrebbe andare in cancrena.

    Tuo figlio perderebbe la gamba e, forse, anche la sua giovane vita. Se dentro di lui c’è un demone, ebbene, aspetterà ancora qualche tempo, finché la gamba non sarà guarita. Se ciò avverrà. Ora veglia tuo figlio, non abbandonarlo e prega, prega Nostro Signore».

    Maestro Ugo uscì in fretta, diretto al suo laboratorio di speziale. Avrebbe preparato l’unguento prima delle funzioni dell’ora terza.

    Molte volte aveva visto ferite come quella. Spesso la cancrena aggrediva gli arti e allora l’unica soluzione era l’amputazione.

    Scosse la testa e pregò in silenzio, mentre miscelava radici di mirto dolce, tritate e passate al setaccio con olio puro di oliva.

    Non voleva pensare ad un’amputazione per quel giovane ragazzo di appena quattordici primavere.

    Alzò gli occhi, a guardare le gocce leggere che scivolavano sul davanzale di pietra e si perdevano nelle crepe del muro.

    La quiete di quel luogo era tangibile, come la nebbia bassa che spesso veleggiava già nelle prime ore della sera e si adagiava, imponderabile, occultando dolcemente.

    I monaci si preparavano per la terza, la funzione di metà mattina.

    Già avevano svolto la preghiera del mattutino, seguita dalle laudi, alle prime luci dell’alba, e dalla prima.

    Maestro Ugo guardò il gatto nero che dormiva, acciambellato in un angolo del laboratorio.

    L’animale era dimagrito e soffriva di dissenteria. Il monaco aveva cercato di fargli bere uno sciroppo adsorbente, ma con scarso successo. Aveva rimproverato frate Anselmo, che spesso passava all’animale scarti appetitosi, di nascosto dal cellerario, Bongiovanni di Robbio.

    Frate Anselmo aveva chinato la testa al rimprovero, scuotendo la sua imponente persona e lisciandosi la barba, un tizzone nero e disordinato che gli incorniciava il volto rubizzo.

    Dopo aver fatto, in cuor suo, ammenda, avrebbe cercato altri bocconi gradevoli per i suoi amici animali, il gatto nero ed il cane dal pelo rosso che spesso gli trotterellava accanto e che, a differenza del gatto, godeva di ottima salute.

    Nell’aria umida di pioggia suonò la terza.

    I monaci dovevano riunirsi per le preghiere.

    Maestro Ugo guardò l’empiastro che aveva preparato. Era una ricetta antichissima, che trovava menzione nel Trattato delle piaghe di Ippocrate e che il monaco aveva cercato di migliorare, servendosi del voluminoso scritto di Galeno, De semplicium medicamentorum temperantis et facultatibus, copia latina che conservava con cura e che consultava spesso.

    Maestro Ugo lasciò a riposare il suo preparato. Dopo le funzioni della terza l’avrebbe applicato alla ferita del ragazzo.

    Il gatto si era alzato e si strusciava sul saio. Il monaco notò la sua figura magra e debilitata e si propose di trovare un rimedio efficace per quella creatura del Signore.

    Uscì nel cortile che la pioggia ancora non si era chetata ed il sole era appena un soffio chiaro nascosto nell’autunno.

    Capitolo 2

    Borgo d’Ale, giorni nostri.

    Terza domenica di ottobre, mercato dell’antiquariato.

    Quel giorno era cominciato con la pioggia, una pioggia gelida che portava il freddo dei monti, ora celati dalla foschia umida.

    Gli antiquari, frammisti ad improvvisati venditori di carabattole, non avevano rinunciato al solito appuntamento mensile ed ora cercavano di scaldarsi con bevande bollenti e bicchierini di liquore mentre disponevano la loro mercanzia in bella vista.

    Mobili, quadri, libri ed ogni genere di svariata merce, scovata in cantine, solai e vecchie case, rivedevano la luce in quel luogo; una vendita di ricordi, un passato, spesso lontano e dimenticato che riprendeva colore.

    Silvio amava curiosare quel luogo; non importava se aveva dovuto svegliarsi all’alba; sapeva che gli affari migliori si facevano presto, quando ancora gli espositori stavano scaricando la merce e i pezzi più pregiati erano contesi da commercianti e collezionisti.

    A Silvio, giovane torinese di ventiquattro anni, piacevano gli oggetti antichi, quelli che avevano una storia da raccontare.

    E lui amava stare ad ascoltarli.

    Le sue possibilità economiche erano quelle di uno studente all’ultimo anno di architettura, che si manteneva agli studi con lezioni private e piccoli lavori saltuari.

    Quindi il suo portafoglio era perennemente d’un colore verde chiaro, sia all’esterno che all’interno.

    Qualche piccolo pezzo di storia, a volte, riusciva comunque ad acquistarlo.

    Un calamaio di vetro, una penna di legno con un pennino inciso, una piccola stampa antica od un libro ormai fuori commercio.

    Soprattutto gli piaceva curiosare, osservare, sentire nell’aria quell’odore buono dei tempi andati, quel sapore lontano di storia minuta che riaffiorava da quegli involti di carta di giornale, da quelle cassette di legno che i venditori scaricavano con cura.

    Era giunto quasi alla metà del percorso.

    Aveva adocchiato una piccola scatola di legno intagliata, che il venditore gli aveva assicurato essere un esemplare unico del ’600 inglese e che aveva riposto sul banco appena sentito il prezzo, certo adeguato anche per un servizio di porcellana ottocentesca per venti persone.

    Un piccolo vetro da farmacia, con un tappo a smeriglio, aveva poi attratto la sua attenzione.

    Recava ancora una traccia di etichetta e sarebbe stato molto bene sulla sua scrivania.

    «Dodici euro» disse il venditore, un barbuto sessantenne, posando sul bancone un largo bicchiere contenente ancora poche dita di grappa.

    Contrattarono per otto e Silvio lo ripose nella borsa di tela che portava alla spalla.

    Il giovane riprese il

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