Curiose forme d'amore
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Anteprima del libro
Curiose forme d'amore - Francesca Bonanno
dopo
Viola
Il caffè americano, forte e dolce, le calmò il mal di gola; lunghe sorsate di benessere.
Avevano annullato la prenotazione in dodici a causa della perturbazione che stava attraversando l’Italia; soltanto due coppie di fidanzati avevano confermato il soggiorno per il fine settimana. Una rovina economica quella pioggia inopportuna nella penultima settimana di Luglio.
Seduta al grande tavolo di marmo chiaro in cucina, Viola osservava dalla finestra davanti il lavabo, la sua amata campagna toscana devastata dal temporale. Attorno alla grande villa dei suoi nonni adibita in parte ad agriturismo, soffiava un vento pungente che riportava le temperature ad un paio di mesi prima.
Grossi ceppi scoppiettavano allegri nel grande camino in pietra viva per togliere l’umido accumulato da una settimana di pioggia insistente.
Che nervi!
, sbottò Viola osservando con stizza le petunie sapientemente piantate lungo il vialetto d’ingresso, lacerate dalla pioggia battente.
Era stato un lavoro inutile. Le giovani piantine non avrebbero resistito ad un’alluvione di quella portata, era tutto da rifare, pensò Viola.
Avevano seminato in Maggio, dopo avere scelto con attenzione il pezzo di terra meglio esposto alla luce calda del sole estivo e meglio riparato in inverno. Avevano legato con tanta speranza le piantine di pomodori Pachino ai tutori per sostenerle, seminato melanzane, peperoni e zucchine di ottima qualità. Duccio, nascosto sotto un’enorme palandrana impermeabile, cercava con tutto il suo impegno di coprire l’orto dalla pioggia.
La parte riservata alle erbe aromatiche era l’orgoglio di Duccio. Viola si inteneriva a guardare un uomo così imponente e forte come il suo compagno, fotografare inorgoglito le prime piantine di profumato basilico. Avevano speso amore per creare l’orto che con i suoi frutti sarebbe servito al sostentamento degli ospiti dell’agriturismo.
Il caffè era ormai freddo e i biscotti al sesamo preparati per la colazione dei suoi ospiti, erano poggiati su un antico piatto smerlato, colorato d’azzurro. Sarebbero arrivati a momenti, doveva darsi una mossa, stamparsi sul viso un’espressione gioviale e materna e preparare una calda caraffa di caffè fumante.
Salve, benvenuti all’Allegro Maniero, accomodatevi!
, disse turbato Duccio alla vista degli ospiti sull’uscio inzuppati fino all’inverosimile.
Benvenuti.
, disse Viola con un tono leggermente più alto del normale, avvicinandosi alle due coppie con la mano destra stesa in avanti.
Sono Viola, la proprietaria di questo posto incantevole e sono una locandiera divorziata, lui è il mio compagno!
, disse sorridendo benevola a quattro facce esterrefatte, cercando di ignorare la pozza di fango ed erba che le giovani coppie avevano portato con loro.
Viola si presentava al mondo con quelle parole: locandiera e divorziata, come se quelle due parole insieme potessero definirla ed evitarle il fastidio di farsi conoscere.
La luce delle grandi torce accese in salone, rifletteva sulla brocca del vino ormai vuota.
Giulia
L’estate stona con l’infelicità.
, pensava Giulia.
Entrava molta luce dalle grandi vetrate, nonostante il temporale. Guardava, distratta, gli alberi carichi di nuove gemme piegate dalla pioggia.
La piccola sala, dove le cinque donne aspettavano davanti ad una porta chiusa, era intrisa di dolore.
Tutte quelle donne non sarebbero diventate madri, non di quei bambini perduti.
Il reparto di ecografia ginecologica pullulava di grandi pancioni. Risuonava di rapidi battiti di giovani cuori, di gioia.
Le quattro donne insieme a Giulia soffrivano.
Perdere un bambino è sempre una violenza che una donna eviterebbe volentieri.
Una giovane biondina, coperta di lentiggini, guardava impietrita un signore che riparava la macchina del caffè. Aveva la tuta macchiata di rosso scuro, scarpe da tennis sdrucite usate come pantofole e grandi occhi verdi gonfi di pianto. Annuiva distratta ad una corpulenta signora di mezza età che accompagnava la storia delle sue sventure, con svolazzi di mani minuscole. Raccontava tutto: aborto, raschiamento, emorragia.
è come se riuscissi a sentire l’odore del sangue, pensò Giulia.
è inguaiata!
, le aveva detto il maleducato dottore di origini campane, appena conclusa la prima ecografia.
è una gravidanza ectopica.
, aveva sentenziato scuotendo la testa.
L’embrione si è impiantato fuori dall’utero, dobbiamo operare e toglierle la tuba. È una precauzione per lei, signora, le gravidanze extra-uterine possono essere mortali.
, aveva annunciato togliendosi gli occhiali, dopo aver letto la cartella clinica di Giulia.
Il medico era un cinquantenne belloccio che si credeva estremamente spiritoso. Un’abbronzatura da vacanza sulla neve, una fede al dito e un gruppo di giovani infermiere adoranti, completavano il cliché.
Era incinta.
Aspettava un bambino dall’uomo con cui aveva una relazione clandestina.
Si sarebbe dovuta operare per estirpare il frutto del peccato, le suggeriva bigotta la sua anima indottrinata da un padre, la cui fede rasentava il fanatismo. Non era stata decisamente la sua settimana fortunata.
Era iniziata al meglio, rifletteva Giulia guardando il vento scuotere gli alberi: il suo amante le aveva regalato un viaggio di due settimane alle isole Eolie, a Salina. Era contenta, stupefatta ma contenta; probabilmente era quello di cui avevano bisogno.
Gli ultimi sei mesi erano stati un inferno di sensi di colpa e di passione sfrenata. Le avrebbe fatto bene cambiare aria, resettare tutto, dimenticarsi di questo brutto incidente.
Chissà cosa avrebbe fatto se il bambino fosse stato al posto giusto… Come sarebbe stato, cosa avrebbe fatto, che decisione avrebbe preso? L’avrebbe tenuto?
Il figlio di Marco, perché era di Marco, non aveva alcun dubbio.
A trentasette anni, con un lavoro part time e un minuscolo appartamento in affitto a Roma, la città più caotica del mondo, avrebbe avuto il coraggio di lasciare il suo fidanzato storico, per avere e crescere da sola il figlio del suo amante, un impenitente e orgoglioso single?
Dio hai veramente un bel senso dell’umorismo
, pensò amara.
Le luci della sala operatoria, da quella posizione, sembravano quelle di un’astronave aliena, pensò Giulia distesa sul lettino. L’anestesista accanto a lei armeggiava con la flebo attaccata al suo braccio.
I rumori della sala operatoria la terrorizzavano.
Giulia non muoveva un muscolo, non diceva una parola, guardava fisso gli occhi di quello che l’avrebbe addormentata. La mascherina e la cuffia coprivano quasi per intero il volto del medico, erano visibili solo due occhi neri e profondi.
Fammi dormire, voglio dormire per una settimana e dimenticare tutto! Chissà se esiste una medicina per dimenticare.
, pensò Giulia.
Quanto dura l’intervento?
, chiese timida all’anestesista.
Circa quaranta minuti, ma non ti preoccupare non sentirai niente, tu dormi!
, rispose sorridendo il medico con un deciso accento romano, controllando il dosaggio dell’anestetico nella flebo.
Sai cosa? Ti sembrerà strano, ma voglio calcolare i minuti in cui il chirurgo potrebbe fare uno sbaglio! Potrei anche non svegliarmi dalla tua anestesia! Se non mi dovessi più svegliare? Marco, non potrei vedere più Marco, le sue mani…
sospirò Giulia, ormai sotto l’effetto dell’anestesia.
Chi è Marco?
, chiese dolcemente l’uomo con gli occhi color pece, iniettando con una siringa un liquido trasparente nel tubo della flebo.
Lui è il padre del bambino messo male…e io…io…
, disse in un sussurro.
Giulia chiuse gli occhi, profondamente addormentata.
Elettra
L’ufficio aveva le pareti colorate di grigio, la lucida scrivania era di un tono più scuro dei muri color topo, il cielo fuori dalla finestra era coperto da nuvole cariche di pioggia che incombevano su una Milano ancora mezza addormentata. L’orologio segnava le otto e quarantacinque.
Dovremmo essere in estate!
, pensò con disappunto Elettra, scrollando dai lunghi capelli chiari la pioggia raccolta dalla corsa in motorino.
Maria, la sciatta ma efficiente segretaria, portò sulla scrivania di Elettra un fascio di ventuno rose rosse a gambo lungo.
Sempre lui?
, chiese, non alzando lo sguardo dal pc.
Sempre lui.
, rispose la donna aggiustandosi la gonna, porgendole il biglietto.
Prendile tu, usale per fare ingelosire quel rammollito di tuo marito.
Accartocciò il biglietto senza leggerlo e lo buttò nel cestino.
Erano settimane che ogni giorno arrivavano fiori da un vecchio amante respinto.
Le dita sottili battevano veloci sui tasti del pc, rispondere alle email arrivate era il primo compito delle sue lunghe giornate di lavoro.
Strategic-planner della più importante agenzia pubblicitaria di Milano, fino ad un anno prima Elettra si sentiva pienamente realizzata.
Aveva un ottimo stipendio che le permetteva di assecondare tutte le sue debolezze, era in affitto in un loft, piccolo, ma sapientemente arredato, e un nutrito giro di altolocate amicizie le regalava una brillante vita mondana.
Coltivava relazioni sessuali futili, al solo scopo di gratificare il suo ego. Cinica e di una bellezza scandinava, collezionava uomini come collezionava scarpe, per puro diletto.
Dodici mesi prima aveva incontrato Carlo ed era diventata la donna dell’unico figlio di un monumento dell’imprenditoria italiana. L’aveva puntato con la precisione di un killer, l’aveva sedotto, l’aveva avuto.
Qualcosa però da un po’ di tempo la tormentava. Antiche insicurezze, insonnia, voci che sapeva non essere reali.
Le lunghe dita battevano veloce la risposta ad un cliente molto importante. Si osservò la mano, sull’anulare mancava l’anello.
Era diventato un pensiero fisso, ossessivo, voleva vedere un grosso brillante splendere al suo anulare, desiderava sposare Carlo, trasferirsi nell’antica villa appena fuori Milano e avere un figlio il più presto possibile, anche se lei di figli, fino a quel giorno, non ne avrebbe mai voluti.
Carlo non le aveva mai neanche accennato alla possibilità di sposarsi, non aveva neanche mai parlato di convivenza, figuriamoci di figli. Un anno di dipendenza sconsiderata per un uomo decisamente meno interessante di lei, si era trasformata in una spasmodica ricerca di conferme.
Guardando la foto in bella mostra sulla sua scrivania che li ritraeva insieme, felici e appassionati, stesi abbracciati su una spiaggia alle Maldive, avvertì una familiare fitta allo stomaco.
La sua inadeguatezza cronica stava invadendo nuovamente la sua vita.
Le sue mani cercarono istintivamente il pacco di sigarette nella borsa di Prada, ne mise una in bocca per assaporare ancora spento il profumo aromatico del tabacco. L’ufficio, animato da puntuali stacanovisti come lei, vietava il fumo. Elettra si alzò, andò in bagno per aprire la finestra che dava su corso Torino, inspirò l’aria pungente di quel luglio anomalo e con movimenti lenti e studiati, si accese la terza sigaretta della giornata.
La sua stanza puzzava di stalla, pensò Elettra spalancando le imposte su una serata ancora umida. L’odore fresco di pioggia la rasserenò, le calmò i nervi tesi.
La stanza arredata con tutte le sfumature d’azzurro le sembrò claustrofobica, la luce tenue delle lampade ai lati del letto creava ombre sinistre sulle tende mosse dal vento.
Il vestito per la serata era appeso all’anta dell’armadio, era splendido, pensò. Lei, l’avrebbe valorizzato con la sua figura alta e snella, pensò. Il blu del morbido tessuto avrebbe fatto brillare i suoi occhi celesti, le scarpe alte, confezionate da un noto artigiano, l’avrebbero fatta assomigliare ad una modella, lo spacco profondo avrebbe messo in bella mostra le sue lunghe gambe muscolose.
Seduta a fumare sul letto disfatto, Elettra avrebbe voluto dimenticare l’appuntamento, nascondersi sotto le coperte, ubriacarsi e addormentarsi profondamente.
Tutta la Milano che conta, sarebbe stata al sontuoso ricevimento che la mamma di Carlo aveva organizzato. Lei era la sua accompagnatrice, lei era quella
che stava con Carlo Mercuzi.
Viola
Angeli ribelli ballano abbracciati sotto un cielo senza stelle, travolti da un’improvvisa perdita di lucidità . Viola scriveva sul piccolo quaderno degli appunti. Le lunghe ciglia scure sbattevano ritmiche, su due occhi persi in un mondo segreto.
Durante il giorno, gli ospiti dell’agriturismo potevano scovare la padrona nascosta in un angolo della casa intenta a scrivere assorta su un quaderno arancione che teneva sempre con sé. Era così concentrata, da non accorgersi delle presenze intorno a lei.
Viola era così, ad una prima casuale osservazione, appariva una bella stravagante signora con la testa fra le nuvole, un’originale svampita. I suoi vestiti, presi a caso da un armadio ricco di capi variopinti, contribuivano a creare un estroso personaggio.
La pioggia aveva smesso di devastare le giovani petunie, il sole era alto nel cielo.
Viola, in giardino, aveva finito di raccogliere le ciliegie dall’albero accanto la casa.
Seduta sulla panca, al grande tavolo di legno dove normalmente, in estate, serviva la colazione, scriveva frasi in libertà, gustava i dolci frutti maturi. Il ronzio di mosche affamate accompagnava i suoi pensieri.
Il sole faceva brillare la rugiada intrappolata sugli alberi, il profumo bagnato dei fiori illanguidiva i sensi e quel fresco di campagna umida invitava alla pace.
Buongiorno signori, volete delle succose ciliegie appena raccolte, da portare con voi per la passeggiata?
, disse amabile. L’aria era tiepida.
Buongiorno, visto Viola che bella giornata? Sì, grazie, le prendo volentieri, la mia ragazza ne è ghiotta.
, disse uno dei due giovani architetti, guardando la bionda e procace compagna, adorante