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Il Codice Moncada
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E-book355 pagine5 ore

Il Codice Moncada

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Info su questo ebook

Una storia struggente ambientata in età garibaldina raccontata in prima persona da Nonò, anziano orologiaio. Con una prosa affascinante, l'uomo narra - oltre ai suoi incontri con un bambino molto particolare - la vita di quell’epoca, la miseria e le malattie che colpivano gli abitanti di Caltanissetta, decimandoli. Gasparino, che di bambino ha solo le sembianze fisiche, con i suoi ragionamenti aprirà la mente di Nono’ e lo condurrà verso la consapevolezza: ognuno di noi fa parte del tutto. 
Accanto alla narrazione di Nonò c'è quella storica che fa riferimento al 1860, anno in cui Garibaldi espulse i Padri Gesuiti dalla Sicilia e le descrizioni di una biblioteca sotterranea dove le ombre vivono la loro oscura vita.
LinguaItaliano
Data di uscita7 giu 2021
ISBN9791220814164
Il Codice Moncada

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    Anteprima del libro

    Il Codice Moncada - Salvatore Paci

    Salvatore Paci

    Il Codice Moncada

    (romanzo)

    A Diego, a Giusy e a Mia

    che adesso mi amano dal Cielo

    Da quell’ultima volta che lo vidi non ho più dimenticato quei giorni magici che hanno cambiato fatalmente il corso della mia vita; il fascino delle sue parole, la tristezza del suo sorriso, il luogo incantato nel quale ci incontravamo, il segreto che già da allora mi batteva dentro per uscire e che invece ho custodito fino a oggi che sono a un passo dalla morte.

    ***

    Caltanissetta – Chiesa di Sant’Agata al Collegio - Terzo Millennio

    «Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.»

    «Amen.»

    Antonio La Mattina fece per alzarsi dall’inginocchiatoio ma Padre Celestino lo fermò.

    «Aspetta Antonio, devo dirti una cosa.»

    «Adesso?»

    «È importante.»

    Antonio appoggiò entrambi gli avambracci sulla ruvida mensola di legno del confessionale e si sporse in avanti.

    «Mi dica, Padre.»

    L’anziano si avvicinò alla grata, fino a sfiorarla con i baffi e la barba.

    «La notte, qui dentro...»

    Poi, ruppe in lacrime.

    ***

    Caltanissetta – Torrente della Grazia – 1866

    "La prima volta che lo vidi fu nel 1866, in una fredda e secca mattina di dicembre. Stava seduto su un masso, con i gomiti sulle ginocchia e le mani sulle guance, a guardare l’acqua spumeggiante del Torrente della Grazia scorrere gorgogliante verso sud. Era di spalle e indossava una giacca a quadri grigia, di una taglia più grande di lui. Mi sentì arrivare quando ancora ero lontano. Me ne accorsi perché con la manina batté sul masso, come per invitarmi a sedere accanto a lui. Percorsi con attenzione il sentiero in discesa, tra ciottoli ed erba bagnata e mi sedetti al suo fianco. Quando si voltò per guardarmi mi regalò un sorriso triste. Non poteva avere più di otto anni e i suoi capelli rossi e riccioluti tradivano la sua origine non caltanissettese. Mi guardai intorno, convinto di scorgere un suo parente, ma i miei occhi non videro altro che massi, acqua e il profilo grigio delle case a est.

    «Ciao gioia, come ti chiami?», gli chiesi piegandomi verso di lui.

    «Gaspare signore e vossia?»

    «Onofrio. Ma puoi chiamarmi Zio Nonò.»

    Fece un mezzo inchino e mi sorrise con i suoi denti bianchissimi.

    «Sei solo?»

    «Siamo tutti soli», disse alzando le spalle.

    Non mi aspettavo una risposta del genere da un bambino.

    Poi prese un ramo e lo immerse nel torrente muovendolo su e giù, lo sguardo perso in un punto indefinito tra il suo viso e l’acqua.

    «Dove abiti?»

    A questa domanda non rispose e da quel momento in poi fu come se la sua mente inseguisse un pensiero lontano, come se qualcosa o qualcuno a me invisibile stesse attingendo a tutte le sue risorse. Per lui non esistetti più.

    Feci la strada verso casa giù di corda, per usare una frase da orologiaio quale sono. Mi sentivo catturato — o meglio dire affascinato — da un vago senso di tristezza che come nebbia si stava posando sulla mia persona; leggero ma persistente fino a inzupparmi i vestiti, fino a penetrare la mia pelle attraverso i pori per poi fermarsi sulle mie fragili ossa. Ero arrendevolmente triste e non ne capii la ragione fino a quando non vidi dei ragazzini che si rincorrevano per strada. Un figlio: il sogno mio e di mia moglie Crocetta. Mai realizzato, inseguito finché la natura ci ha dato la possibilità di provarci e il destino la sfortuna di non riuscirci.

    Giunto a casa le avrei raccontato del bambino incontrato al torrente e sicuramente mi avrebbe chiesto di farglielo conoscere il giorno dopo se... se fosse stata ancora su questa amara terra.

    Cercai di distrarmi dedicandomi a uno stupendo orologio Cartel in legno dorato e laccato di proprietà di un nobile palermitano. Percorsi il suo profilo con le dita. Delicatamente, come se una pressione maggiore dei miei polpastrelli potesse procurargli dolore. Mi affascinava il fatto che fosse il primo orologio ad avere una sola carica sia per il movimento che per la suoneria e lo stavo studiando attentamente quando una serie di nuvole nascosero il sole, tingendo di grigio e di tristezza la mia casa vuota. Provai a lavorare alla luce di una candela ma i miei poveri occhi, stanchi e consumati come il resto del mio corpo, mi convinsero a coprire l’orologio con una stoffa e a riposarmi.

    Per quanto cercassi di non pensare a Gasparino, mi tornavano in mente il suo sguardo intelligente e il sorriso più triste che abbia mai visto in vita mia. Qualcosa della sua persona aveva fatto vibrare le corde del mio cuore e riaperto ferite mai del tutto rimarginate.

    Considerato che non riuscivo a liberarmi del suo ricordo, decisi di infierire sulla mia psiche proiettando in un ciclo senza fine le immagini di quei pochi minuti trascorsi insieme. A un tratto capii che mi stava sfuggendo qualcosa di importante ma difficile da afferrare. Diedi una botta alla mia povera testa di vecchio come per rimettere in moto le rotelle e, lentamente ma inesorabilmente, un dubbio prese possesso del mio cervello, spingendomi a credere a qualcosa che non poteva essere accaduto realmente: durante il nostro incontro quel bambino non aveva mai aperto la bocca per parlare."

    ***

    Caltanissetta – Chiesa di Sant’Agata al Collegio - Terzo Millennio

    Antonio restò pazientemente con il sacerdote fino a quando anche l’ultimo fedele, arrancando con il suo bastone ebbe abbandonato la chiesa. Appoggiati alla balaustra si soffermarono a guardarlo mentre oltrepassava la cancellata. Poi tornarono indietro e si chiusero dentro.

    Padre Celestino, curvo per via dei suoi tanti anni, prese a braccetto il suo giovane parrocchiano e lo accompagnò per un dedalo di corridoi che Antonio, completamente assorto dallo stato d’animo del prete, percorse come un automa. Giunti al piano superiore il sacerdote raggiunse una pesante tenda e con uno strattone la spostò lateralmente facendo scendere un po’ di polvere e scoprendo così una finestra.

    «Vieni figliuolo», gli disse mentre il suo alito appannava il vetro. «Guarda lì», aggiunse tenendo un braccio sulla spalla dell’amico e indicando con l’indice il palazzo di fronte. «Vedi quel balcone con i fiori?»

    «Sì, padre.»

    «Quella è la mia stanza da letto.»

    Antonio si chiese dove volesse andare a parare e aspettava pazientemente il seguito del discorso. Intanto, una pioggia sottile aveva preso a picchiettare sul vetro. Padre Celestino affondò una mano in tasca e ne estrasse un portachiavi in legno con due chiavi.

    «Ti chiedo un favore», gli disse facendolo dondolare davanti agli occhi di Antonio.

    «Dica pure.»

    Padre Celestino inspirò, come per prendere lo slancio.

    «Vorrei che andassi a casa mia e che ti mettessi dietro i vetri di quel balcone. C’è un telefono portatile nella stanza da letto, non badare al disordine che troverai; sono solo un povero vecchietto che divide i suoi giorni con sorella solitudine e con il Padre. Bene, quando ti vedo arrivare ti chiamo. Adesso, per favore, vai!»

    Antonio prese il portachiavi e andò via dalla stanza.

    Confuso.

    Il sacerdote non lo accompagnò, dunque fu costretto a ripercorrere da solo quel labirinto tenebroso illuminato dai ceri che bruciavano sotto le immagini sacre.

    Fuori lo accolse una fredda serata d’inverno che lo costrinse ad alzare la cerniera del giubbotto fin sotto il mento. Accostò il pesante portone senza far scattare la serratura e si diresse verso le scale.

    Intanto, la pioggia era riuscita a distribuirsi uniformemente sull’asfalto di via Re d’Italia e le gomme delle automobili scrosciavano sull’acqua sollevando piccoli schizzi.

    Giunto dall’altro lato della strada trovò il portone e infilò una delle chiavi. A una a una tolse tutte le mandate e lo aprì. L’androne puzzava di umidità e la luce giallognola emanata dalle lampade a incandescenza — e accompagnata dal ticchettio del temporizzatore — tingeva di tristezza un luogo imbruttito dal trascorrere degli anni. Due ampie rampe di scale lo condussero al primo piano. Guardò le targhette in ottone sulle porte e individuò quella del sacerdote. Infilò la chiave più piccola nella toppa e aprì. Una volta dentro cercò l’interruttore ma non lo trovò. La poca luce che arrivava dalla scala gli permise di vedere appena un lungo corridoio sul cui lato sinistro si trovava una consolle. Sopra questa, una serie di immaginette con dei lumini elettrici che, riflettendo la loro luce sullo specchio, coloravano le pareti di un rosso pallido. Finalmente, quando gli occhi si abituarono alla penombra trovò l’interruttore e lo premette. Chiuse la porta, prese una boccata d’aria e si mise a cercare la stanza da letto. La trovò in fondo a destra. Era piccolina ma con il tetto alto, a volta. Sul letto giaceva una copia consunta della Bibbia, sul comodino il cordless. Lo prese e si avviò verso la finestra. Uno squillo, anche se atteso, lo fece saltare in aria. Guardò fuori e vide il sacerdote che lo salutava con la mano. Prese il telefono.

    «Antonio, osserva bene questa e le finestre accanto.»

    «Okay.»

    Padre Celestino chiuse gli scuri.

    «Cosa vedi?»

    Antonio in un primo momento non notò niente di interessante. Poi vide qualcosa tra le fessure della finestra. Era un gioco di ombre e di luci. Immaginò che il sacerdote si stesse spostando, passando davanti ai ceroni e quindi proiettando delle ombre nel resto della stanza. Dopo un po’ vide che le ombre si erano spostate nella finestra di sinistra.

    «Visto qualcosa?»

    «Sì, padre.»

    «Cosa?»

    «Ombre.»

    «Okay. Per piacere chiudi tutto e raggiungimi.»

    Antonio non vedeva l’ora di abbandonare quell’appartamento. Troppe immagini sacre, troppi ceri. Anche se era sempre stato un credente spesso subiva la presenza di icone, foto e occhi in generale. Si sentiva osservato. Come se quegli occhi disegnati tutto a un tratto si potessero spostare, seguirlo, scrutarlo. Dopo aver chiuso la porta a chiave scese i gradini saltandoli a due a due. Raggiungere il marciapiede fu come tornare nel regno dei vivi, dopo essersi immerso per un po’ in un’atmosfera troppo cupa. Ma anche questa sensazione durò poco; solo il tempo della strada. Cinque minuti dopo era già intento ad attraversare i corridoi della chiesa nei quali regnava il silenzio e l’oscurità.

    «Figliuolo, quello che hai visto questa sera io lo vedo ogni notte dal mio appartamento. Con una differenza sostanziale, però: quando accade a me… qui dentro non c’è nessuno.»

    «Ma no, padre! Come nessuno? Non è possibile. Saranno dei ladri oppure qualcuno che ha trovato il modo per entrare e dormire al calduccio.»

    Padre Celestino si era seduto su una vecchia sedia in legno con le mani in testa e i gomiti sulle ginocchia.

    «No, Antonio», disse rialzandosi con uno scatto degno di un ragazzino. «Seguimi.»

    È la sera delle passeggiate, pensò seguendo l’anziano.

    Ancora una volta Antonio si ritrovò a percorrere i corridoi bui, questa volta dietro il sacerdote. Questi si fermò poco prima di entrare in chiesa, premette un interruttore e, a poco a poco, dopo una serie di sfarfallii, tutto si illuminò di una fioca luce gialla. Si diresse verso il portone e indicò qualcosa in alto. Antonio aguzzò la vista e la vide: una telecamera.

    «Ce n’è una per ogni uscita.»

    «Ebbene?»

    «Di notte da queste porte non entra e non esce nessuno.»

    ***

    Caltanissetta – a casa di Zio Nonò – 1866

    "Più ci pensavo e più mi convincevo che non poteva essere andata così. Decisi che l’indomani mattina sarei tornato al Torrente della Grazia, avrei incontrato Gasparino, lo avrei sentito parlare come ogni essere umano e mi sarei tranquillizzato. Così avrei potuto continuare a vivere serenamente le mie giornate di vecchio orologiaio.

    Fuori il vento ululava forte e come un lupo graffiava con i suoi artigli muri, porte e imposte. Le folate arrivavano fin dentro casa, spostando la polvere dalla soglia verso l’interno. La città cercava di proteggere i suoi cittadini con mura e case spesso arroccate le une alle altre, ma il vento sembrava un Polifemo arrabbiato che bussa ad ogni porta alla ricerca di colui che lo ha accecato. Accesi il fuoco e vi misi sopra un pentolone con acqua e finocchi selvatici. Adocchiai la pietra che poi avrei utilizzato per riscaldare il letto e attesi pazientemente che l’acqua bollisse. Guardavo affascinato la fiamma mentre abbracciava il pentolone rallegrandolo con mille scintille, riproduzione casalinga di un firmamento di mere stelle cadenti. Poi, passando davanti allo specchio e osservando le mie rughe ormai divenute solchi, mi persi nei ricordi.

    Un anno prima Crocetta era con me, in questa casa, allegra e laboriosa come sempre. Bella di una bellezza che andava arricchendosi col trascorrere degli anni. Parlavamo molto durante la giornata io e l’amore mio. A volte recitavamo insieme le preghiere mentre lei si occupava delle faccende domestiche e io degli orologi. A quei tempi gli affari mi andavano abbastanza bene perché non mi pesava lavorare durante tutte le ore di luce mentre adesso, senza di lei, tutto sembrava più pesante e le giornate interminabili. Il colera - che brutta bestia! – qualche mese prima si era preso undici vite e, tra queste, quella del mio tesoro.

    Avvenne tutto in pochi giorni. Che tristezza! Non facevo in tempo a prendere il pitale e a svuotarlo fuori nel terreno che già mi chiamava perché aveva nuovamente lo stimolo per andare di corpo. Sentiva la bocca secca e le forze venirle meno ma, ciononostante, aveva sempre un sorriso da regalarmi. Chiamai il dottore e questi, dopo averla visitata, mi diede delle erbe con le quali preparare un decotto da farle bere. Ma non servirono a nulla né i decotti né le mie preghiere. Durante l’ultimo giorno di vita su questa amara terra non riusciva neanche ad alzarsi dal letto e vuotava l’intestino ormai senza controllo. L’aria della nostra casa era diventata irrespirabile, ma era l’ultima cosa alla quale pensavo. Nei giorni seguenti a Caltanissetta bruciarono decine di falò nei quali venivano inceneriti i vestiti e le lenzuola dei morti di colera. Fumo nero che portava il nostro messaggio di dolore verso il cielo. Molti dei miei concittadini, per paura di essere contagiati rimasero isolati nelle loro abitazioni e ci volle molto tempo prima che tutto tornasse alla tranquillità.

    A strapparmi via da questi tristi ricordi fu l’acqua del pentolone che cominciò a bollire. Mi sforzai per non ricadere nel mulinello del mio passato, ma mescolando il brodo della mia scodella mi persi in un ricordo più recente: l’acqua del Torrente della Grazia divisa dal ramo che Gasparino vi aveva immerso. Ma se questo pensiero, anche se strano, riesce a distrarmi da quello più doloroso della mia compagna di vita scomparsa, pensai, che ben venga. E mi addormentai col sorriso triste di quel bambino a coccolarmi l’anima, in quella fredda e inclemente notte di dicembre." 

    ***

    Caltanissetta – casa La Mattina – Terzo Millennio

    «Cavolo, in questa zona la corrente elettrica va e viene a suo piacimento», disse la ragazza.

    «Siamo in montagna e c’è un temporale. È un classico», le disse indicandole il cielo che proprio in quell’istante veniva squarciato da un lampo.  «Vedrai che da un momento all’altro torna.»

    «Speriamo. Vorrei vedere la fine del film», disse distendendosi sul divano e mettendo la testa sulle cosce del suo uomo.

    Amavano isolarsi in quella baita nei weekend invernali lasciando il mondo dei più a decine di chilometri di distanza. Quella notte il cielo era una teoria di nuvoloni neri che solo di rado permettevano alla luna di affacciarsi con i suoi raggi argentei. Adesso che la tivù era spenta, l’unico rumore che arrivava alle loro orecchie era il grido del vento che rimbalzava tra i monti e torturava gli alberi ormai spogli.

    Lui le accarezzò i capelli, lo sguardo sulla fiamma crepitante del camino. Tutto a un tratto la ragazza si irrigidì.

    «Ho sentito un rumore», la sentì bisbigliare aggrappandosi al suo braccio. «Ho paura.»

    «Tranquilla, è tutto a posto. Non sento niente. Rilassati!»

    «Sst! Proviene da là.»

    La stanza, animata dalle ombre generate dalla legna sul fuoco, divenne a un tratto cupa, lugubre. Lui seguì la direzione del dito della ragazza che indicava la porta. Si voltò appena in tempo per vederla spalancarsi con uno stridulo gemito. La sagoma nera si distingueva appena nello sfondo scuro del cielo notturno alle sue spalle. Con gli occhi dilatati e il cuore ormai pressoché fermo fece cenno alla ragazza di scivolare a terra. Si appiattirono più che poterono mentre qualcuno muoveva dei passi lenti verso di loro.

    Le sussurrò all’orecchio: «Cazzo! Al tre scappiamo verso la cucina e da là usciamo per raggiungere la macchina.»

    Lei, con la mano davanti alla bocca fece un cenno con la testa.

    «Uno, due e… tre.»

    Con la velocità che l’adrenalina gli permetteva corsero verso la cucina. L’uomo alla porta, dopo un momento di indecisione si mise a inseguirli. Quando raggiunse la porta di servizio i due erano già a un passo dall’auto. Lui, ormai vicinissimo, alzò la pistola e la puntò verso di loro.

    «Spegni la tivù che dobbiamo uscire», disse Roberta. Poi, visto che Antonio rimaneva inerte, gli strappò il telecomando dalle mani e spense l’apparecchio.

    «Quante volte ti devo dire di non guardare film dell’orrore?»

    «Ma non è un horror.»

    «Ma ti stressa allo stesso modo.»

    «Voglio sapere se i due si salvano», le disse prendendo nuovamente possesso del telecomando. Lei aggrottò la fronte, si diresse verso l’apparecchio e staccò la spina dalla presa.

    «Si salvano, si salvano. Vai a prepararti.»

    Roberta aveva deciso di farsi il regalo natalizio e dentro la tasca dei jeans il portafogli di Antonio tremava di paura. Come ogni domenica il centro storico era chiuso al traffico e i due, dopo aver svoltato a sinistra in Piazza Garibaldi, si incamminarono verso quel negozio di alta bigiotteria del quale Roberta era diventata un’affezionata cliente. Passando davanti alla chiesa di Sant’Agata Antonio si accorse che il portone era chiuso; un particolare insolito considerato che era un giorno festivo e un orario da Messa. Davanti alla cancellata chiusa c’era gente e si convinse che stessero aspettando Padre Celestino.

    Giunti davanti al negozio Roberta si fermò ad ammirare le sue amate pietre. Lui, invece, non riuscendo a evitare di fare una smorfia, si chiese che fascino potessero esercitare su sua moglie quei minerali lavorati. Roberta lo prese per il gomito e lo accompagnò verso la porta. Lui l’aprì ed entrarono. Gli occhi della commerciante brillarono di gioia quando vide la ragazza. Un acquisto sicuro, pensò. In pochi minuti il bancone fu riempito di pietre di ametista, giada, acqua marina e altri minerali che lui non conosceva. Ogni tanto la moglie gli chiedeva di esprimere un parere, ma la sua attenzione era rivolta ad altro.

    «Ma dài, concentrati e non fare ostruzionismo. A cosa stai pensando?», gli chiese.

    «No, niente, fai vedere. Quale, questa?»

    «Ma che dici? Forza, sputa il rospo, cosa c’è?»

    «Be’… okay: signora», disse rivolgendosi alla commerciante. «Che lei sappia sono cambiati gli orari delle Messe?»

    Dopo un attimo di riflessione la signora rispose: «No. C’è l’orario invernale. Ma è già in vigore da diverse settimane. Perché me lo chiede?»

    Roberta scrutò negli occhi del marito.

    «Ho visto la chiesa di Sant’Agata chiusa.»

    «Ah, sì, ho capito, per quello. Padre Celestino è in ospedale.»

    Gli occhi di Antonio si spalancarono.

    «Ma adesso sta bene: ha avuto un infarto la scorsa notte. Ormai il mondo va così: il giorno prima stai bene e l’indomani…»

    Antonio infilò una mano dentro la tasca dei pantaloni.

    Alle 19.45, dopo aver accompagnato la moglie a casa Antonio parcheggiò l’auto nello spiazzo di fronte all’ospedale S. Elia. Si informò a che piano fosse il reparto di cardiologia e salì a piedi per non fare una lunga fila davanti agli ascensori. I corridoi erano pieni di persone che indossavano sorrisi d’occasione su visi estremamente stanchi. Un malato passeggiava con la moglie trascinando con sé la piantana porta flebo. Un’anziana pregava davanti alla statua in gesso della Madonna facendo passare tra le dita i grani del Rosario. Finalmente, dopo aver sbirciato attraverso le porte aperte, riconobbe la barba del suo amico. Si accertò che non stesse dormendo ed entrò. Quando questi lo vide gli si rallegrarono gli occhi, quegli ovali che ad Antonio parvero infossati nelle orbite. L’anziano gli fece cenno di accomodarsi sulla sedia davanti al comodino e poi gli prese la mano e la strinse tra le sue, stando attento a non imbrogliarsi tra i tubicini della flebo.

    «Ma che mi combina, Padre?»

    «Indovina!», esclamò con un filo di voce.

    «Non saprei.»

    Sospirò.

    «Ombre. Ancora una volta. Ieri notte ho visto di nuovo quelle ombre e il mio cuore non ha retto.»

    Antonio arricciò le labbra.

    «E come ha fatto a chiedere aiuto?»

    «È stato il signore che abita nel mio pianerottolo a dare l’allarme. Cadendo mi sono trascinato un lume e il fracasso lo ha insospettito. Lui ha una copia delle mie chiavi. È entrato e… e… adesso sono qui.»

    «Capisco.»

    «Ragazzo, mi devi aiutare», disse accarezzandogli la mano e supplicandolo con lo sguardo.

    «Come?»

    «Devi aiutarmi a capire cosa succede di notte nella nostra chiesa.»

    «Ma non saprei cosa fare.»

    «Io sì», disse sorridendo. «Apri quel cassetto.»

    Antonio sfilò la mano da quelle del sacerdote e lo aprì.

    «Ci sono due mazzi di chiavi. Uno dei due lo riconosci, vero?»

    «Be’, sì.»

    «Prendili entrambi. Il secondo mazzo contiene tutte le chiavi di Sant’Agata. Innanzitutto vai a casa mia. Appostati, nasconditi e osserva. Ti prego, dimostrami che sono dei ladri quelli che ho visto. È l’unico modo per ridarmi la salute perché…»

    «Dica!»

    «Perché se così non fosse…, e si trattasse di una maledizione… ne morirei.»

    «Maledizione?» chiese Antonio stupito.

    «Strano vero? Non sono pazzo. Sono vecchio, stanco, malato ma non ho ancora perso la testa, credimi. Non me la sento di parlartene adesso, ma ti prometto che quando uscirò di qua ti racconterò una storia. Adesso vai. Hai carta bianca ma… non metterci di mezzo la polizia. Per nessun motivo al mondo. Capito?»

    ***

    Caltanissetta – La biblioteca sotterranea dei Padri Gesuiti – 1866

    "La mattina dopo mi svegliai presto e non riuscii più a riprendere sonno. Provavo a cambiare lato, ma la parte ghiacciata del letto svegliava ulteriormente i miei sensi invece che riassopirli. La stanza era freddissima come la solitudine e il mio fiato si condensava in vapore. Accendere il fuoco avrebbe riportato l’ambiente a una temperatura accettabile, ma non me la sentivo di sprecare della legna per un paio d’ore di sonno in più. Alla mia età svegliarsi presto è una maledizione perché la giornata diventa troppo lunga da trascinare fino alla fine. A volte mi chiedo se la mia fretta di arrivare alla notte non sia già un augurio di morte. Forse sì ma non dovrei dirlo, tantomeno pensarlo.

    Abitavo di fronte all’ex Convento dei Padri Gesuiti annesso alla Chiesa di Sant’Agata, sin da prima che venissero espulsi dalla Sicilia dal Decreto Dittatoriale di Garibaldi. In quel dicembre del 1866 era ancora un cantiere, pieno di fango e pietre e di muratori che si muovevano come formiche in un formicaio. Stavano smantellando tutto per ricavarne due scuole, una biblioteca, il Convitto Provinciale e un carcere giudiziario.

    Se per un verso il viavai dei muratori mi faceva compagnia, dall’altro mi si stringeva il cuore pensando che in quel convento avevo imparato a leggere e a scrivere. Che bei ricordi! Avevo dieci anni quando Padre Giuseppe mi fermò per strada.

    «Piccolo, sai leggere?», mi chiese quel giorno e io con una smorfia sulle labbra gli feci cenno di no. Ma non gli dovetti sembrare molto dispiaciuto perché dopo aver fatto un cenno d’intesa a mio padre – che si trovava a pochi metri - mi invitò a seguirlo in convento. Pensavo mi portasse in chiesa per farmi pregare e invece  attraversammo quest’ultima senza fermarci. Giunti in sagrestia spostò un mobile da un angolo della stanza portando alla luce una botola. Prese due ceri, li accese e me ne diede uno.

    «Seguimi», mi disse.

    Lo vidi afferrare il pesante anello in ferro e sollevare lo sportello in legno. Le cerniere parvero destarsi da un sonno profondo e lamentarsi con uno stridio per poi rassegnarsi con uno scatto secco quando il sacerdote ebbe appoggiato lo sportello alla parete. Padre Giuseppe si calò nella botola scendendo per una scala in ferro e si fermò una decina di pioli più giù. Allungò la mano con la quale teneva il cero e illuminò sotto: era un pozzo. L’acqua luccicava all’ondeggiare della fiammella. Sentivo risalire un tanfo di umidità che si miscelava alla puzza di sudore del Padre. Questi mi fece un cenno per farmi scendere ma io rimasi immobile, chiedendomi perché mai avrei dovuto calarmi in fondo a un pozzo.

    «Fidati», mi disse. «Tuo padre sa che sei con me.»

    Mi fidai. O meglio, ubbidii. Quando arrivai con i piedi all’altezza della sua testa lo vidi spostarsi di lato e, con mio grande stupore, entrare dentro un’apertura appena accanto alla scala. Scesi altri cinque pioli e m’infilai anch’io. Ci ritrovavamo in una galleria larga quanto basta per far passare due persone una accanto all’altra e alta, nella parte centrale, poco più della testa di Padre Giuseppe. Le pareti erano state rivestite di gesso ma in alcuni tratti sbucavano pezzi di roccia. Il tetto era a sesto acuto ma dalla forma discontinua. Ogni due o tre passi, sotto le zone macchiate di grigio scuro, sul muro c’erano degli anelli dentro i quali si trovavano delle torce. Ne accese un paio con il cero e la galleria si illuminò di un giallo tetro. Non ricordo se in quel momento ero più intimorito che incuriosito. Ciò di cui sono sicuro è che camminammo parecchio prima di arrivare a una pesante porta in legno. Tirò fuori una grossa chiave dalla tasca e con quella l’aprì. Una volta dentro, prese da terra una torcia e l’accese. Spense il cero con un soffio e lo posò al posto della torcia. Posai il mio cero accanto al suo. Mi porse una mano. Ci trovavamo in una stanza larga quattro o cinque passi e lunga una decina. Sia a destra che a manca c’erano delle librerie in legno, piene di vecchi volumi

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