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Racconti dal Mondo che non Dorme: I viaggi del Professor Jonathan Guess
Racconti dal Mondo che non Dorme: I viaggi del Professor Jonathan Guess
Racconti dal Mondo che non Dorme: I viaggi del Professor Jonathan Guess
E-book213 pagine2 ore

Racconti dal Mondo che non Dorme: I viaggi del Professor Jonathan Guess

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Info su questo ebook

Vi siete mai chiesti cosa succede davvero alla nostra mente quando dormiamo? E se ognuno di noi durante il sonno raggiungesse una nuova dimensione e vivesse in un’altra realtà? È quello che accade al professor Jonathan Guess una notte in cui riceve la visita del Sonno in persona e viene condotto a Reventhell, un mondo fantastico i cui abitanti, invece, non dormono mai. Cominciano così le avventure del professore in quella terra meravigliosa, fino a quando il suo segreto non verrà scoperto… E allora la sua vita cambierà per sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2022
ISBN9788833469843
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    Anteprima del libro

    Racconti dal Mondo che non Dorme - Libera Giordano

    I

    Di quando il professore incontra il Sonno

    Il professor Jonathan Guess era dotato di una fervida immaginazione e amava moltissimo usarla ma, cosa ancora più importante, sapeva bene quando era ora di smettere, perché non c’è cosa più pericolosa nella vita che confondere la realtà con l’immaginazione. E fin qui nulla di strano.

    Nessuno conosceva esattamente la sua età, ma doveva avere un certo numero di anni, almeno a giudicare dal suo aspetto. I suoi capelli, infatti, erano quasi completamente bianchi, le spalle erano curve e appesantite e tante piccole rughe solcavano con minuzia la fronte spaziosa. Eppure, il professore era tutt’altro che vecchio. Un certo non so che gli conferiva un’aria giovanile e spensierata che faceva bene a chiunque lo incontrasse. Cosa fosse esattamente era difficile dirlo, forse l’espressione sempre ironica degli occhi celesti o il modo in cui si coloravano allegramente le gote quando fuori faceva molto freddo o aveva bevuto troppi scotch o un certo movimento del naso e della fronte che eseguiva nei momenti più improbabili e con il quale era solito riportare i suoi occhiali dorati nella giusta posizione; o tutte queste cose insieme.

    Era poi terribilmente abitudinario e non usciva mai di casa senza alcuni oggetti per lui di assoluta importanza: la pipa, il suo fido bastone e un libro che in genere teneva stretto sotto un braccio e dal quale spuntava un variegato numero di fogli scribacchiati in ogni punto immaginabile.

    In passato aveva girato il mondo, per davvero si intende, e visitato molti Paesi lontani, ma ora erano anni che viveva a Ever, nel nord più nord della Scozia, e da lì non si era più mosso.

    Ever era proprio il tipo di villaggio che faceva per lui.

    All’epoca dei fatti che stiamo per narrare, non esistevano ancora l’automobile e il telefono, anche se forse erano nella mente di qualcuno. Le case erano fatte di pietra granitica grigia e tali erano rimaste, tutte identiche, basse e con i tetti spioventi. La chiesa, la scuola e il negozio dove si compravano il pane e il latte erano là dove erano sempre stati. Solo la natura, irrefrenabile e indomabile, non aveva arrestato il suo corso e l’edera e il muschio si erano allargati a vista d’occhio invadendo ogni muro e parete possibile; i cespugli e i rovi si erano moltiplicati dappertutto e gli alberi piantati anni e anni addietro dai nonni dei nonni dei nonni degli attuali abitanti erano cresciuti a dismisura fino a diventare quel fitto e impenetrabile bosco che ora circondava Ever e la nascondeva al resto del mondo. Gli abitanti dubitavano persino che fosse inserita nelle cartine geografiche, visto che non si vedeva un viso nuovo da almeno trent’anni. Eppure, ognuno di loro sapeva con certezza che il centro abitato più vicino era a soli cinque giorni di cammino.

    I cambiamenti facevano fatica ad arrivare a Ever e forse era proprio questo che piaceva più di tutto al professore. Non avrebbe mai immaginato che la notte in cui ebbe inizio questo racconto, la notte del 21 dicembre 1838, la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

    Era l’ultima sera d’autunno, era venerdì e come tutti i venerdì sera era seduto sotto la grande quercia che separava Ever dal bosco, circondato da una dozzina di ragazzini intenti a chiacchierare tra loro allegramente.

    Faceva molto freddo e uno dei ragazzi aveva avuto la brillante idea di accendere il fuoco non solo per riscaldarsi, ma anche per mettere su qualche succulenta salsiccia a rosolare. Qualcun altro aveva portato delle caramelle, altri della frutta, qualche candito, dei biscotti e delle noci e ora tutto quel bel mucchietto giaceva invitante su una morbida coperta di lana accanto ai libri e alle borse che i ragazzini avevano abbandonato alla rinfusa al loro arrivo.

    Il brusio allegro dei ragazzi – un misto di incessante chiacchiericcio e risate che scoppiavano all’improvviso – si udiva fino al villaggio. Non si placò quando le salsicce furono dichiarate pronte e neppure quando vennero infilzate a una a una nei ramoscelli limati sul momento; anzi, aumentò quando vennero distribuite fra la comitiva e raggiunse il suo apice quando vennero rubate da uno scoiattolo che si era affacciato curioso, richiamato dal profumo invitante che si era diffuso nell’aria.

    Si acquietò solo tra un boccone e l’altro e il professore ne approfittò per decidere insieme ai presenti la storia che avrebbe raccontato. Il baccano riprese: c’era chi ne chiedeva a gran voce una in particolare, chi domandava cosa stesse facendo in quel momento un certo personaggio, chi dava improbabili suggerimenti su come cambiare il finale di alcuni racconti.

    Il professore ascoltò tutti con molta serietà tirando lunghe boccate dalla pipa. Poi cominciò a raccontare.

    Immediatamente, quasi come se recitassero un copione imparato a memoria, i ragazzini presero posizione: chi in disparte, soprattutto i più grandi; chi seduto comodo per affilare il suo bastone; chi a penzoloni su un ramo; chi più occupato a verificare se una certa ragazzina stesse guardando dalla sua parte. I più piccini invece si sistemarono beatamente in grembo alle ragazze dotate già di un innato istinto materno e anche gli orsacchiotti di stoffa, ai quali era stato intimato con grande serietà di prestare la massima attenzione, erano tutti in prima fila con le orecchie pelose rizzate in trepida attesa.

    Nessuno osò più fiatare e mentre il professore parlava, il fuoco si tinse di verde, di oro e di blu, assumendo forme strane e inconsuete che si riflettevano su quei candidi visi intenti ad ascoltare di viaggi verso mondi bizzarri, dei loro abitanti e delle loro avventure.

    Poi però, proprio sul più bello, arrivarono i papà per riportarli nel mondo reale e… a casa.

    Ora, i papà di questi ragazzini erano stati giovani anche loro e avrebbero dovuto sapere quanto poteva essere brutto interrompere una serata come quella. Probabilmente lo sapevano, anzi, ne siamo più che certi, ma si sentivano comunque in diritto di farlo.

    Avevano lavorato tutto il giorno, erano stanchi, affamati e nervosi, volevano tornare a casa e… volete qualche altra ragione? Ve ne daremo una, la più importante. Il professore li metteva terribilmente a disagio. Vi sembrerà strano ma è proprio così.

    Il professore era più vecchio di loro e tuttavia in certi momenti sembrava avere la metà dei loro anni. E non certo per lo stile di vita, che in un villaggio come Ever non poteva che essere monotono e ripetitivo, quanto per il suo irresistibile interesse verso tutto ciò che fosse nuovo, bizzarro o semplicemente insolito, che era in contrasto con l’atteggiamento indifferente, quasi rassegnato, di quei genitori. La curiosa verità, tuttavia, era che tutti avevano la strana sensazione che il professore riuscisse a vedere le cose sotto un’altra luce e che quella luce fosse la maniera corretta di osservarle.

    Quella sera però, erano più seccati del solito. Il loro unico desiderio era cenare e mettersi in pantofole davanti al camino.

    «Forza, Peter!» ordinò risoluto il padre allungando il braccio per far scendere il figlio dall’albero. «Non cominciamo come al solito. Lo sai che è tardi e la mamma è preoccupata. Dobbiamo tornare a casa.»

    «Già. Ascolterete le storie del professore un’altra volta» aggiunse il papà di Tom. «E poi, guardate il cielo. Sembra che stia per arrivare un bel temporale.»

    Peter protestò: «Non possiamo tornare a casa adesso!». Allison supplicò: «Ancora cinque minuti!» e Mary piagnucolò un implorante: «Per favore!». Ma i papà erano irremovibili, sempre più seccati e sempre più stanchi.

    Il professor Guess guardò i suoi ragazzi e poi i loro padri. Dietro le folte sopracciglia bianche, gli occhi si strinsero nel ricordare i tempi in cui raccontava le stesse storie a quei genitori che adesso facevano tanta fatica a comprendere. Ora lo guardavano con la pazienza e il rispetto con cui si guarda un vecchio, ma un tempo anche loro avrebbero dato qualunque cosa per rimanere fuori un’ora in più. Si rammaricava che avessero perso la meraviglia della scoperta e si chiese quando lo stesso sarebbe accaduto ai loro figli. Perché doveva succedere?

    Adesso però si era fatto davvero tardi e probabilmente avevano anche ragione.

    «Suvvia,» intervenne con il suo solito tono pacato, rigirandosi la pipa tra le mani, «le vostre mamme vi stanno aspettando. La prossima volta vi racconterò la storia del pianeta delle stelle. Andate a casa adesso.»

    Dopo molte suppliche e altrettante minacce tutti andarono via salutando il professore.

    Era rimasto solo. Guardò il cielo grigio che si stava velocemente riempiendo di nubi nere, torve e accigliate, che minacciavano di precipitare, dispotiche, da un momento all’altro. Certe notti aveva l’impressione che qualcosa o qualcuno lassù lo stesse osservando e che ascoltasse persino le sue storie ed era solito rimanere a lungo lì, su quel prato, a contemplare il mondo sopra di lui. Ma non quella sera. Era ora di tornare a casa.

    Raccolse i libri che aveva posato su un sasso e li rimise nella sacca marrone che aveva portato con sé. Un vento gelido si stava alzando velocemente, di quelli che entrano dentro le maniche del cappotto salendo su per le braccia e fanno correre un brivido lungo la schiena. Incurvò ancora di più le spalle, nel vano tentativo di respingere il freddo che avanzava. Era perfettamente inutile. Si avviò lentamente verso casa appoggiandosi al bastone e affondandolo bene nel terreno per rendere più stabile il passo.

    A quell’ora, le strade erano deserte e solitarie ed era difficile incontrare qualcuno. Le voci, che fino a poco prima avevano riecheggiato chiassose e allegre per le vie, si erano trasferite all’interno delle case e il professore poteva sentirle a mano a mano che oltrepassava le porte e le finestre. Quei suoni – accompagnati dal profumo della legna che ardeva, delle foglie bagnate, persino dell’odore acre del primo gelo invernale, – gli erano così familiari e cari, che ebbero il potere di riscaldargli il cuore. Quando arrivò alla fine del suo tragitto davanti alla sua casa, l’unica non ancora illuminata, pensò ancora una volta che non si sarebbe mai allontanato da Ever, dai suoi ragazzi e dalla sua quotidianità. Le cose erano semplicemente come dovevano essere.

    Ma il destino aveva altro in serbo per lui.

    Tutto ebbe inizio proprio quella fredda sera di fine autunno in cui il professore, salutati i ragazzi, tornò a casa.

    La giornata era finita e lui si sentiva stanco e desideroso di ristorarsi con una cena calda e del buon vino. Come sempre, chiuse il pesante uscio, si assicurò che le chiavi fossero appese al solito gancio, il cappotto all’attaccapanni e si avviò verso il salotto. Riattizzò il fuoco nel camino e scaldò la cena.

    La casa era confortevole e calda, della misura giusta per un uomo della sua età, abituato a vivere da solo, in compagnia dei suoi libri. Eh già, perché di libri il professor Guess ne aveva davvero parecchi: nella libreria, sul grande tavolo di legno lucido fronte al camino, sulle sedie, sull’enorme tappeto che copriva tutto il salotto, persino sulle credenze. E non solo quelli. Infatti, il professore, da studioso qual era, aveva collezionato una quantità impressionante di quadri, mappe, cartine, telescopi che usava o consultava regolarmente.

    Tuttavia, nonostante l’accumulo degli oggetti, la casa si presentava abbastanza in ordine e ogni cosa era più o meno al suo posto, conferendo all’ambiente un aspetto di vissuto confortevole che riscaldava il cuore di chi vi entrava.

    «Si sta preparando una terribile bufera, mia cara Zei» disse il professore accarezzando la piccola gatta color cenere che lo aveva raggiunto e si strofinava ai suoi piedi. «Senti il vento che sferza impetuoso fra gli alberi? Ho fatto appena in tempo a tornare. Meno male che tutti i bambini sono tornati a casa.»

    La gatta si limitò a sbadigliare, gli girò le spalle e tornò a dormire su una delle sedie libere, incapace di concepire qualunque altro tipo di attività.

    Cenò con un pezzo di squisito cosciotto, patate dolci fumanti e una torta di mele che le mamme dei bambini, a turno, non mancavano mai di fargli avere. Bevve dell’ottimo vino rosso e quando si sentì ristorato e soddisfatto prese un libro dalla sua nutrita libreria, si sprofondò sulla poltrona accanto al camino e cominciò a leggere, immerso nel torpore caldo del focolare, sotto la coperta di lana, mentre la stanza si riempiva di navi e onde tempestose, animi intrepidi e cuori innamorati.

    Non seppe nemmeno lui quanto tempo fosse passato. A un certo punto, udì solo due colpi decisi sulla porta che si spalancò, nonostante fosse sicuro di averla chiusa a chiave. Una gelida folata di vento entrò con prepotenza spegnendo all’istante il fuoco del camino e lasciando la stanza nel buio più completo.

    Terrorizzato, il professore non riuscì a vedere nulla, ma avvertì la presenza di qualcosa nonostante non avesse udito alcun rumore di passi.

    «Chi è là?» gridò alzandosi in piedi. Solo allora provò come la sensazione di non avere peso. Cosa ancora più strana, gli sembrò di essere in due posti contemporaneamente: ancora seduto accanto al camino, al caldo, con Zei che si era raggomitolata ai suoi piedi, e allo stesso tempo in piedi, al freddo e al buio, in attesa che qualcuno o qualcosa palesasse la sua presenza.

    Silenzio.

    «Chi c’è, per l’amor di Dio?» gridò ancora più forte, strabuzzando gli occhi nel vano tentativo di mettere a fuoco qualcosa.

    «Sst, non c’è bisogno di urlare! Ti sento benissimo anche se sono più vecchio di te!» disse una voce sconosciuta e familiare allo stesso tempo.

    Il professore sbatté gli occhi più e più volte ma non vide ancora nulla.

    Poi finalmente riuscì a scorgere qualcosa. In piedi davanti a lui vi era la figura di un vecchio con barba e capelli bianchi, lunghissimi e disordinati, molto magro, con le guance scavate e gli occhi azzurri, splendenti e vivissimi. Un lampo di luce divertita sembrò attraversare quegli occhi che continuavano a fissarlo in silenzio. Il professore sentì un brivido attraversargli la schiena.

    «C-chi sei?» chiese con un filo di voce.

    «Chi sono?» ripeté la figura. «Dovresti saperlo, ci conosciamo da tanto tempo, ormai!» Aveva una voce bassa e carezzevole che il professore aveva senza dubbio già sentito, anche se in quel momento non ricordava dove o quando.

    «Sei… sei… la Morte?» chiese tremante il professore.

    La figura scoppiò a ridere, una risata squillante che echeggiò nella stanza ancora immersa nel buio.

    «Santo cielo, no! Non sono la Morte! Perché mi scambiate tutti per quella cocciuta di mia sorella? No, io sono il Sonno, quello che ti accompagna ogni notte e ti lascia ogni mattina.»

    Il professore rimase di stucco. Era forse uno scherzo?

    «Nessuno ti ha giocato uno scherzo!» esclamò il Sonno ancora più divertito. «Se proprio lo vuoi sapere, i ragazzi stanno tutti dormendo. Lo so perché li ho fatti addormentare io.» E scoppiò a ridere di nuovo.

    Si avvicinò al camino e sfregandosi le mani disse: «Brrr, che freddo! Quanto vorrei poter accendere quel bel fuocherello e sentirne il tepore!».

    Zei si era avvicinata incuriosita.

    «Ciao, piccola Zei» disse poi accarezzando la gatta. «Sono venuto dal tuo padrone, come ti avevo promesso.» Poi rivolgendosi nuovamente al professore esclamò: «Che magnifiche creature i gatti, non trovi? Gli unici esseri capaci di vedermi anche da

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