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Fame
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E-book311 pagine4 ore

Fame

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Info su questo ebook

Fame parla di gioventù, quella spensierata e allegra che ancora vive nei ricordi di molte generazioni, quella che amava le corse in bicicletta, le esplorazioni all’aria aperta e i ritrovi improvvisati. Una gioventù libera dalla tecnologia, che crede che tutto sia possibile soltanto sperandolo e che sa fare gruppo davanti alle difficoltà. Ed è proprio davanti a un’enorme difficoltà che il gruppo di bambini protagonista del romanzo scopre di essere molto più che amici. Insieme affrontano una minaccia reale, di quelle che ogni genitore non manca mai di ricordare ai propri figli: lo sconosciuto con le caramelle che tante volte è stato descritto per mettere in guardia i più piccoli, e un qualcosa che grava sull’intera comunità e che proprio i protagonisti saranno chiamati a debellare affrontando eventi e pericoli estranei alla loro stessa età.
Sullo sfondo di una cittadina sonnolenta, troppo occupata a prepararsi all’ennesima stagione turistica, un esaltato convinto di possedere poteri sovrannaturali affronterà il gruppo in una lotta senza esclusione di colpi, dove un passato tragico e dimenticato si intreccia con un presente fatto d’estate e spensieratezza, e dove il futuro pretende l’estremo impegno di alcuni semplici bambini, chiamati a caricarsi sulle spalle responsabilità troppo a lungo ignorate dagli adulti.
Un romanzo forte e suggestivo. Lorenzo Bernasconi, prendendo spunto dai maestri del genere, costruisce una trama complessa e senza sbavature, creando momenti di terribile suspense e di profonda dolcezza, mostrando un’ottima capacità di introspezione psicologica.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2019
ISBN9788832924923
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    Anteprima del libro

    Fame - Lorenzo Bernasconi

    lux.

    Prologo

    E in principio furono le tenebre. Poi venne la luce che tutto mutò facendo del nulla ciò che vediamo e conosciamo. Alcuni degli antichi esseri che scaturirono dalla primordiale oscurità svanirono nella luce abbagliante della creazione; altri sopravvissero nei pertugi, nelle fenditure, nelle profondità marine o sulle alture. Qui, sulla zona, disse la donna guardandosi attorno, vegliano i Guardiani, che tutto sanno e tutto possono. E attendono...

    Il ragazzino si allungò afferrandole la mano.

    Ho paura dei ragni, dei pagliacci, dei vampiri e dei lupi mannari e non entrerei mai in una casa con dei fantasmi!

    Oh, sbuffò la donna, di quelli non ti preoccupare. I ragni sono utili, i pagliacci li puoi evitare, è tutta gente triste che tira a campare cercando di far ridere, e per quanto riguarda lupi e succhia sangue non esistono neppure.

    E le vecchie case? E le streghe?

    Entrambi ruderi. Innocue, disse sorridendo al bambino, ma, continuò cambiando tono, è ai Guardiani che devi prestare attenzione. Leggono i pensieri e, se non ti comporti bene, ti svuotano dell’energia come un moribondo sul punto di morte, concluse sfoderando la dentatura giallo nicotina. Si portò le mani al petto, levò un momento gli occhi al cielo poi tornò sul bimbo. Si fece seria.

    Ogni tanto, l’energia di quegli esseri si affievolisce e necessitano di un corpo in cui rinvigorirsi e rinascere e di altri di cui nutrirsi, proseguì la donna toccando con l’indice la punta del naso del bimbo, con due occhi di piombo grigio tutto fuorché scherzosi o affettuosi, magari un corpo come il tuo.

    Il bambino rabbrividì sotto il lenzuolo.

    Ma sono cattivi?

    Una volpe è forse cattiva se mangia i conigli, o i loro troppi piccoli?

    Sì, avrebbe voluto rispondere, ma scosse la testa. La donna si accigliò ma sorrise lo stesso.

    Sono necessarie, nonostante tutto. I Guardiani sono quel che chiamiamo sesto senso, un’intuizione, le ombre sotto un lampione che si allungano di notte in una strada buia. Sono quel qualcuno che non esiste eppure ci terrorizza credendolo pronto a ghermirci. Sono lo spettro di una persona cara che preghiamo possa proteggerci. I Guardiani sono nulla nel tutto e tutto nel nulla e vivono di quel che si nutrono i sogni e gli incubi.

    La donna tirò un lungo respiro, fece per alzarsi e anche se il bambino ne aveva timore, l’altero portamento, i vestiti curati come il suo volto, le dita lunghe e affusolate e quei denti gialli celati dalle labbra sempre pittate, la pregò di rimanere ancora un attimo, almeno finché il sonno non avesse inglobato il buio nel suo scorrere naturale.

    Lei lo guardava dall’alto, come si guarderebbe un qualcosa di molliccio appena pestato, ridusse le palpebre a due fessure sottili e annuì.

    Quando la donna che si ostinava a considerare sua madre si sedette sul bordo del letto iniziando a raccontargli, per l’ennesima volta, quella storia che sarebbe durata ben più dell’arco di una nottata, il ragazzino aveva superato da poco il suo decimo compleanno, aveva seppellito suo padre e non avrebbe mai immaginato quanto spesso i legami famigliari mutino in catene pesanti e arrugginite, inesorabili, capaci di trascinare anche l’animo più deciso verso un fondo di rimorsi e rimpianti. Un fondo melmoso di acque limacciose, che riempie i polmoni, occlude le narici e immobilizza il malcapitato senza però strapparlo alla vita sollevandolo così dall’angoscia.

    Il ragazzino attendeva, allora, soltanto la sua storia. Sua madre, gli occhi che sprizzavano un insondabile contrasto tra l’affetto sopito e l’inconfessabile terrore di non saperne esprimere che una minima parte, lo guardò sorridendo. Era abituata bene, sua madre. Abiti di classe, scarpe alla moda e la spesa consegnata a casa ogni tre giorni dal droghiere in persona. E per la moglie di un contadino non era affatto cosa da poco. Moglie affranta di fattore benestante, così recitava il trafiletto uscito pochi mesi prima sul giornale locale. Tanto colpita dal lutto che non era riuscita a rinunciare alle sue solide abitudini. Lui aveva conservato il ritaglio spalmandolo di coccoina e appiccicandolo in un album, assieme alle foto. Papà sul trattore, il primo giorno di scuola, il battesimo. Papà sorridente, sempre, mamma imbronciata e quasi mai catturata dall’obbiettivo di turno.

    La donna intrecciò le mani sul ventre e inclinando la testa di lato, poco, con quel suo sorriso esagerato cresciuto man mano che la storia per il bambino lievitava in lei come un feto deforme, iniziò di nuovo a raccontare.

    E sui crinali affacciati sulla città, dalle alture attorno il lago, osservano tutti noi stagliandosi contro il cielo, al crepuscolo e all’alba, immobili, quietamente silenziosi. Osservano i loro domini senza che alcuno possa decifrarne gli scopi e svaniscono nell’attimo di un pensiero perché di pensieri sono fatti quando da lassù ci scrutano infilandosi come tarli nei crani dei dormienti e di chi si è appena svegliato. Scavano nei pensieri e di pensieri si nutrono, sapendo tutto di tutti e qualsiasi segreto si tenti di celare negli angoli reconditi del cuore o della mente loro lo scovano afferrandolo con le lunghe dita e imprigionandolo nelle ali scure di tenebra dei mantelli che indossano. Ma se ci si comporta bene, ubbidendo e seguendo la retta via, i Guardiani si adoperano a proteggere e custodire la casa in cui si abita e ogni pensiero occupi la testa dei suoi abitanti.

    Il bambino, di sua madre, scorgeva soltanto le labbra pittate di un rosso acceso che ondeggiavano a ogni parola scoprendone i denti giallastri e desiderò, un giorno, poter baciare labbra simili, dipinte solo per lui. Si coprì il mento con il lenzuolo reggendolo forte con le manine ai lati del viso, rosso di vergogna per quel pensiero impuro, e trattenne il respiro finché sua madre non s’interruppe per riprendere fiato.

    Sotto il lenzuolo, il calore umido del respiro lo faceva sentire come protetto, avvolto da un’idea di intimità a lui sconosciuta, quasi la carezza tanto agognata che da sua madre, troppo attenta a mantenere le distanze non solo da lui ma dal mondo intero, non aveva mai ottenuto. E lei, sempre sul bordo del materasso, stretta in un abitino troppo ridotto per i suoi fianchi abbondanti, riprese a narrare dei Guardiani all’erta sulla valle, dei loro occhi luminosi e vuoti e delle sembianze umanoidi che talvolta assumevano facendosi solidi e scendendo tra gli uomini, divenendo forma visibile dalla condizione naturale nella quale erano di solito costretti. Quindi sciolse le mani e richiudendo la bocca come petali di fiore in prossimità della notte, spense il sorriso e guardò suo figlio.

    Il bambino respirava ancora sotto il lenzuolo senza osare chiederle nulla, che fosse una semplice parola o uno sguardo diverso. La seguì alzarsi e gettargli un’ultima occhiata dalla porta ridotta ormai a sottile fessura.

    Nei giorni precedenti aveva promesso di raccontargli ogni sera la stessa storia, perché, diceva lei, e ne era convinta davvero, un uomo solido e fiero sa poche cose della vita e quelle che conosce deve poterle recitare a memoria per evitare di mescolarsi alle masse. Qualunque cosa avesse voluto dirgli, lui aveva annuito.

    Annuì ripensando a quelle parole poi la porta inghiottì l’ultima lama di luce protesa nella sua cameretta e nel buio e in quella stessa oscurità che l’avrebbe inghiottito vent’anni dopo sperò che i Guardiani vegliassero anche su di lui.

    1

    Ragazzi dell’estate

    I

    Iniziò tutto con un rumore. E con le bolle che uno di noi aveva gettato nel tombino a due passi da casa. Quando mia madre venne a sapere del giocattolo rubato al bambino andò su tutte le furie. Telefonò ai genitori degli altri e quelli fecero fare ai miei amici la fine che a me stessa era toccata. L’esilio dal mondo esterno. Un mondo immerso nell’estate, nei giochi, nei profumi e nella spensieratezza del tempo senza obblighi scolastici. Mi aveva costretto a osservare tutta quella vita dalla finestrella della mia camera, un ritaglio uno per uno messo di sbieco nel corridoio tra gli edifici del nostro condominio.

    Riuscivo a sbirciare a malapena il sole crescere sugli steli delle spighe di grano che ondeggiavano facendosi d’oro e argento a ogni alito di vento. Poco prima del campo, il sentierino dove i miei amici mi aspettavano chiamandomi e io, velocissima, afferravo lo zainetto, costume e ciabatte, e schizzavo giù dalle scale con l’immagine del lago a rinfrescarmi la mente e a carezzarmi la pelle accaldata. Ma quelle bolle avevano rovinato tutto e mia madre aveva stretto il senso stesso della mia giovinezza tra le dita, strizzandone fuori tutta l’essenza e la speranza.

    Sei esagerata, disse lei all’ennesima protesta, è solo una settimana dopotutto.

    Per noi, che alla nostra età il tempo appariva ancora infinito e poco quantificabile, quella parola, settimana, appariva come un tragico rimando a tempi ancor meno felici, quelli scolastici.

    Il tuo amichetto sapeva quel che faceva.

    Ma è stato lui, mica io o Alessandro o Madda, piagnucolai aggrappandomi al suo grembiule e iniziandone a tormentarne i risvolti. Lei si girò, posò il coltello scostando dal tagliere il cetriolo tagliato a pezzetti. Si piegò sulle ginocchia e puntò i suoi occhioni nei miei, condendo il tutto con un sorriso che non voleva dire altro se non arrenditi.

    Un gruppo è tale anche nelle difficoltà. Tornò a ergersi su di me in tutta la sua altezza da adulto, senza perdere il suo sorriso. Quindi si condividono anche i momenti difficili. E con questo tornò a voltarsi e a riprendere il suo lavoro.

    Mi diressi al finestrone che dava sulle montagne. Il sole ne aveva già sfiorato le cime e sulla mia testa l’orologio batteva le otto. Sbadigliai alla prigionia e mi costrinsi a letto e alla forzatura di un libro scolastico. Poi, per qualche motivo a me ignoto, il tempo iniziò a scorrere in maniera diversa. Mi addormentai svegliandomi nel bel mezzo della notte. Nessun rumore nell’appartamento che era stato di papà, nessun muoversi di piedi o il leggero brusio della tv dal soggiorno.

    Da fuori, invece, giungeva un fastidioso rumore, lo stridio di qualcosa di rugginoso e instabile. Sembrava il canto disperato di qualche creatura mitologica morente, l’agonia di un essere che anela al perdono divino e spira piangendo lacrime che nemmeno sapeva di avere. All’epoca, invece, credetti fosse un cancello tirato avanti e indietro da un qualche buontempone senza sonno. Un perditempo che odiava il riposo altrui.

    Cercai di riappisolarmi ma quello stridio era tanto forte da graffiarmi i timpani e la tranquillità. Iniziai a sudare, a stringere il lenzuolo, a morderlo, a fremere. Poi scesi dal letto, spostai i libri che coprivano la sveglia e ne puntai il rosso lampeggiare.

    Zero zero, zero zero, zero zero. All’infinito.

    Scavai tra altri volumi alla ricerca del walkie talkie, ne tastai la rotella d’accensione e per scaramanzia anche quella delle frequenze. Mamma aveva tolto le pile e le aveva nascoste chissà dove pensando di fermarmi. Corsi in salotto, le orecchie ben tese a captare ogni possibile rumore. La porta della sua camera era ben chiusa e sul balcone, dove di solito si attardava a fumare, spiccavano solo i contorni della sdraio avvolti nelle luci della notte. Afferrai il telecomando e con un colpo secco mi appropriai del suo prezioso contenuto.

    Mi ripromisi di inserirle di nuovo prima che potesse accorgersene ma ero altrettanto convinta di dimenticarmene. Eccitata dal sapore inebriante della trasgressione rimisi in funzione la ricetrasmittente e sintonizzai il canale in attesa di una risposta. Fuori, intanto, quel qualcosa non smetteva di stridere e lamentarsi.

    Il mio regalo natalizio gracchiò un poco, captò di fortuna una stazione radio locale e poi si fece muta. Chiesi un paio di volte se ci fosse qualcuno, tossii, ridacchiai sottovoce e mi arresi. Solo un sibilo simile al vento correva sul fondo della trasmissione. Feci per riporla sotto i libri quando una voce conosciuta mi chiamò per nome.

    Emma, Emma, diceva anche lui sussurrando.

    Pigiai il tasto di risposta. Un sorriso sbocciò sul mio volto, mi alzai da terra e chiusi la porta della mia stanza con attenzione, bloccandola con la schiena.

    Sono io, dissi rilasciando il tasto.

    In che guai ti trovi?

    Colpa di tuo fratello, dissi cercando di dissimulare la felicità del contatto con una sorta di tono da rimprovero.

    Lo sa anche lui. Ma quello spara bolle, ha detto, si bloccò in mezzo alla frase e io lo immaginai scuotere la testa come poi avrebbe fatto mille altre volte nel corso della sua vita. Non poteva proprio resistergli. Rosso, con quelle belle scrittine blu.

    Anche tu sei rosso, lo interruppi.

    Sono i miei capelli, disse alzando un poco la voce.

    Rimanemmo in silenzio per qualche istante. Poi lui mi anticipò chiedendomi dei rumori. Secondo te cosa sono?

    Penso provengano dalla zona del parco giochi. Forse dovremmo andare a vedere, dissi aggrottando la fronte assumendo quell’espressione che mia madre definisce da bimba Rambo.

    Alessandro non rispose. Ebbi paura che mi desse della pazza, dell’irresponsabile. Ma dalla mia avevo l’inesperienza dell’età e qualsiasi cosa avesse detto non mi avrebbe cambiata, anzi. Non lo fece e mi diede appuntamento sotto casa mia in una manciata di minuti. Sorrisi.

    Giusto il tempo di vestirmi.

    Appoggiai l’orecchio alla porta di mia madre. Ne sentivo il respiro attraverso il legno e me la vedevo girata su un lato, un braccio sopra il lenzuolo e l’altro sotto il cuscino, le tende della finestra a sfiorare il letto sospinte dalla brezza serale che dal lago, tutte le sere, si alzava ad alleviare l’afa della giornata. Mi infilai un paio di calzoncini e una canotta, accesi la luce del bagno e mi diedi una veloce pettinata.

    Alzai gli occhi sullo specchio. Assorta sul modo in cui uscire di casa non mi accorsi della gatta, abituata da sempre a dormire nella vasca, che intanto si era sollevata sulle zampette anteriori e mi osservava in quel modo tutto felino capace di far rizzare i peli sulle braccia e viaggiare i pensieri. Mia madre credeva potessero vedere gli spiriti o scorgere oltre l’immagine riflessa nello specchio il mondo segreto e oscuro descritto in tanti romanzi e da tanti scrittori. Comunque fosse miagolò incerta, saltò fuori e mi si strusciò addosso. Mi chinai per carezzarla, lei sfregò il musetto sul polpaccio e prese a fare le fusa. Spensi la luce dirigendomi all’ingresso, raggiunsi la cassetta delle chiavi e tirai, piano, una sedia a ridosso della parete. Dal corridoio la gatta mi osservava chiedendosi cosa volessi fare e io speravo non si mettesse a chiedermi del cibo, con quei suoi insistenti miagolii capaci di svegliare persino qualche vicino.

    Alzai gli occhi alla cassetta e allungai una mano. Senza sedia, nulla da fare. Montai sulla seduta e afferrai la chiave dal gancio. Un vero e proprio atto di ribellione perché mamma aveva sempre insistito sull’inviolabilità di quel gancio e delle chiavi. Essere agganciate là sopra significava per lei aver serrato il mondo e i suoi problemi fuori dall’appartamento e aver messo me e lei compresa al sicuro dai mostri della vita quotidiana.

    Scesi dalla sedia tenendo il mazzo tra le mani, come un tesoro insostituibile e senza prezzo. Lasciai la sedia accanto la parete, contando di tornare prima che mamma potesse alzarsi anche solo per un bicchiere d’acqua. Infilai la chiave nella toppa poi mi ricordai del letto. Corsi in camera mia in punta di piedi e sotto il lenzuolo con i palloncini colorati ammassai cuscino e pigiama. A luce spenta il trucchetto sarebbe riuscito a ingannarla. Almeno così avevo visto fare nei film e non credevo di essere meno furba di qualche attore. Tornai all’ingresso e sotto lo sguardo vigile della gatta uscii sul pianerottolo.

    Respirai a fondo prima di infilare le scale e, anche dopo aver acceso le luci, mi sembrava di vivere in una specie di sogno. Uno di quelli dove mi ritrovavo sola a scappare da qualcuno di diabolico e gridavo aiuto in una città vuota e silente, immersa in una notte perenne.

    E la notte c’era davvero, perché quando uscii nel cortile il mondo stesso, quello che ero solita conoscere, non era lo stesso di sempre. I suoi contorni, i dettagli, perfino i profumi erano tutt’altro che normali. Mi guardai attorno assaporando quel mio gesto insolito e avventato poi scavalcai il muretto e voltai a destra nella piccola stradina accanto ai campi di grano.

    Nel buio non erano affatto quel che ricordavo e se davvero ci fosse stata qualche bestia morente ero certa che lì mi avrebbe ghermita. Per mia fortuna, sotto un pallido lampione, Alessandro mi aspettava a braccia conserte, non meno impaurito di me. Non la smetteva di muovere i piedi e teneva le mani serrate sulle braccia scheletriche, come fosse scosso da un freddo improvviso. Mi guardò di sfuggita mentre i suoi occhietti azzurri guizzavano tra le ombre e i campi immoti.

    Che facciamo? chiese senza guardarmi.

    L’animale in agonia lanciò il suo grido seguito dallo stridio di unghie sozze su qualcosa di metallico e rugginoso. Fece stringere anche me tra le braccia ma abbozzai ugualmente un sorriso.

    Andiamo a vedere. Non sono mai stata tanto curiosa in vita mia, risposi cercando di strappargli un sorriso senza successo.

    Alzai le spalle e mi incamminai verso il parco giochi. Lo sentii raggiungermi a passo svelto. Una volta sulla strada gli si sciolse la lingua e mi chiese se non volessi sapere di Filippo e Madda. Mi voltai puntandomi i pugni sui fianchi.

    Infatti. Dove sono?

    Lui sogghignò. Alla luce arancio dell’illuminazione i suoi capelli sembravano quasi sprizzare fiamme e quel ghigno gli dava un taglio da cattivo che poco gli apparteneva ma del tutto calato nel contesto del rumore e della strada buia.

    Madda dorme. Suo padre però no e per lei è impossibile anche sbadigliare senza che se ne accorga. Filippo, invece, si passò un dito sul naso e sorrise, è già là che ci aspetta.

    Se ne stava là, nel mezzo della strada, proprio dove la linea bianca s’interrompeva frammezzandosi per consentire la svolta sul viale. In fondo, oltre l’isola spartitraffico, il tabacchino e, nascoste dagli alberi, sui lati, le scuole elementari e il giardino d’infanzia. A due passi da loro, un ampio parcheggio che un tempo era stato un campo da calcio fangoso.

    Alessandro gli gridò di levarsi ma il piccolo se ne stava tutto assorto a guardare in alto, con la mano a schermarsi gli occhi, come a ripararsi dal sole. Emma lo raggiunse correndo, si guardò attorno e fece un cenno all’amico. Se fosse arrivato qualcuno, con il silenzio che c’era, l’avrebbero sentito con parecchio anticipo. Alessandro afferrò suo fratello per le braccia e lo trascinò sul marciapiede senza che quello smettesse di puntare un qualcosa nel cielo buio.

    Ma che fai? Vuoi farti ammazzare? disse Alessandro facendosi più bianco del solito.

    Filippo scosse la testa e sul volto gli si disegnò un sorrisetto di soddisfazione. Gli occhietti azzurri brillarono di furbizia e ilarità. Poi, tutto d’un tratto, annuì deciso e si fece serio. Indicò con la mano il punto nel cielo per il quale si era perso e attese che gli altri due ne individuassero la forma. E la forma venne loro incontro stridendo e gemendo.

    Ma che diamine… disse Alessandro aggrottando le sopracciglia nel tentativo di mettere a fuoco.

    Emma fece lo stesso ma fu più rapida a capire di cosa si trattasse.

    La gru, esclamò la bambina iniziando a saltellare di giubilo.

    Filippo le disse di calmarsi, si portò un dito alle labbra e li raccolse attorno a sé.

    Non vi sembra strano che si sia messa proprio ora a cigolare?

    Alessandro alzò gli occhi al cielo, si bagnò la punta dell’indice sulla lingua e alzò il dito. Nemmeno un alito di vento. E fa così da settimane.

    Potrebbe essere difettosa. Mamma dice che la corrente elettrica è imprevedibile.

    Anche voi ragazze lo siete, disse Alessandro rispondendo con una smorfia all’osservazione dell’amica. Se ne sta sopra la vecchia casa dei Piva da mezzo secolo.

    E quanto è mezzo secolo? lo interruppe Filippo continuando ad annuire.

    Tanto, rispose seccato Ale, e proprio adesso prende a muoversi e cigolare. Papà la vorrebbe abbattere ma non si sa di chi sia. Dice che prima o poi provocherà una ecatombe.

    Sui tre calò il silenzio. Ale si ravvivò i folti capelli color carota e Filippo si puntò le ginocchia con le mani, dondolandosi appena.

    Credevo che le catacombe fossero sottoterra, disse Emma rompendo lo stallo.

    Ale si limitò a scrollare le spalle, imitato da suo fratello.

    C’entra sempre con i morti, comunque. Abbassò la voce. In ogni caso avete visto dove punta il suo mezzo braccio?

    Verso la casa e il suo comignolo, disse Filippo ringalluzzito. Quello da dove usciva il fumo della cremazione.

    La gru gemette ancora facendoli sobbalzare di colpo. Puntarono il mezzo braccio annerito cercandolo nella notte. Se il fulmine che l’aveva colpita qualche anno prima avesse fatto il suo dovere, di lei e della vecchia casa non ci sarebbe stato più nulla da tempo. Il rumore smise e le loro testoline tornarono sul viale e sul parcheggio.

    Allora… disse Emma interrompendosi e sgranando gli occhioni verdi che sua madre amava tanto.

    Filippo corse alle spalle di suo fratello e, alzandosi in punta di piedi, sbirciò l’uomo che dal parcheggio camminava verso di loro avvolto in una giacca lunga quasi fino a terra e che, a ogni passo, somigliava al nero sbattere d’ali di un pipistrello. Si guardarono, Ale strinse il braccio del fratellino e corse verso l’aiuola spartitraffico, verso l’altro marciapiede e verso le quattro mura di casa loro.

    Emma non riusciva a muoversi, le ginocchia come incollate tra loro e lo stimolo di urinare sempre più forte. Poi la voce di Alessandro la svegliò dal torpore gridandole di scappare. L’uomo aveva lasciato il parcheggio e se avesse accelerato il passo l’avrebbe ghermita nell’attimo di un respiro.

    Finalmente si mosse, e percorse lo stesso tragitto dei due amici che ormai non si vedevano più. Mentre correva, occhi bassi e fiato corto, pregò non si trattasse dell’uomo su tutti i giornali, quello sospettato di far sparire i bambini e non solo. Ma fu un pensiero evanescente e rapido perché fu sostituito in un lampo dall’immagine rassicurante del suo letto, della gatta e di sua madre addormentata. Sorpassò il giardinetto del signor Vanni, che prima di andare in pensione aveva prosperato con gli stampi in cemento per poi spostarsi sulle sculture in legno.

    Il Pinocchio a cavallo di un dondolo, che di solito la faceva sorridere di tenerezza, ora era infestato da ombre oblique, impietose, e lo stesso destriero dalla criniera stopposa sembrava un reperto gocciolante riportato in superficie da una nave affondata. Corse più forte e chiuse gli occhi a scacciare la risata di quel Pinocchio sinistro e i passi secchi dell’uomo con la giacca da pipistrello.

    Senza che riuscisse a proteggersi il volto inciampò in un avvallamento del marciapiede, lanciò un urlo e rovinò a terra, pesante, di botto, come un sacco pieno di sassi. Sentì una specie di calore correrle fin sul collo. Si passò il dorso della mano su quel liquido caldo e si accorse che una lunga striscia rossa lo divideva in due perfette metà. Avrebbe piagnucolato, in una situazione normale ma la sensazione di pericolo imminente riuscì a sovrastarne l’impulso fanciullesco.

    Si alzò ansimando, con il cuore che batteva all’impazzata gli ultimi colpi di bambina, certa di essere prossima alla fine. Si voltò ma l’uomo non c’era, come non si sentivano i suoi passi o non se ne scorgeva l’ombra alata. Espirò di sollievo ma poi ricordò quel film che aveva visto accoccolata accanto a mamma fingendo di dormire, quello del clown muta forma e dei ragazzi coraggiosi. E lei non era affatto tanto coraggiosa, anzi.

    Abbassò gli occhi sui pantaloncini. Una macchia scura si era allargata dal centro fino alle gambe, inzuppando mutandine e tessuto e

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