Le avventure di un calligrafo
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Anteprima del libro
Le avventure di un calligrafo - Roberto Fontana
1.
I ROMANI SCRIVEVANO DI CORSA
Questa storia risale a quando Alcalimo Ehtelion era molto giovane, e iniziava a imparare a fare il calligrafo. Da alcuni anni aveva lasciato la casa in cui era cresciuto e, con la benedizione dei suoi genitori, si era trasferito a Vesproscuro. Questo era un paese nel nord della regione, che sorgeva in una valletta d’un territorio montuoso alquanto accidentato. Le relazioni con gli altri centri erano perciò difficili e saltuarie, e all’esterno pochi conoscevano l’esistenza del paese e cosa vi succedesse.
In realtà Vesproscuro era molto particolare: vi viveva infatti una colonia di gatti, composta da una sessantina di felini ben nutriti e pasciuti, che abitava Villa Miaugion, un’antica magione un po’ isolata dal resto del paese. Solida e spaziosa, era composta da numerose camere, sale e bagni, per non parlare dei magazzini e delle cantine fornite d’ogni bendidio. La cucina era un grande locale con molti tavoli e un imponente camino, dove i gatti si riunivano per consumare i loro pasti.
La qualità della loro vita raggiungeva un tale livello che, se per caso un topo fosse stato così stupido da azzardarsi a farsi vivo nei paraggi, i mici lo avrebbero unicamente usato per fare un po’ di sport, lasciandolo poi libero dopo essersi divertiti per bene a terrorizzarlo, sicuri che non avrebbe mai più osato attentare alla loro dispensa.
Nessuno nel paese sapeva da dove provenissero, né come avessero fatto a disporre della residenza. Solo i più anziani fra gli abitanti di Vesproscuro ricordavano vagamente una storia che avevano udito, ancora bambini, dai loro nonni: c’era stato un tempo in cui la contrada era stata infestata dai topi e solo il provvidenziale intervento dei gatti era stato in grado di debellare questo flagello. In ogni caso, i più si accontentavano del fatto che i gatti ci fossero sempre stati, e li consideravano un po’ come un portafortuna per il paese.
Anche la fonte della loro ricchezza era sconosciuta, ma ricchi lo erano per davvero, perché oltre a tutti i cibi, i mobili e le suppellettili che si compravano, potevano permettersi il lusso di impiegare una domestica al loro servizio. I gatti infatti, pur essendo svegli e intelligenti, non erano in grado – o più probabilmente non ne avevano voglia – di tenere pulita la casa, rifare i letti, preparare i pasti, lavare la biancheria, e bazzecole simili. Erano comunque dei datori di lavoro molto esigenti in fatto di pulizia e qualità e benché pagassero per i servigi a loro destinati un compenso più che adeguato, le fantesche alle loro dipendenze spesso si stancavano di vivere per lunghi periodi da sole con i felini, lontane dal paese. Fra le ragazze delle famiglie più disagiate di Vesproscuro era diventato una consuetudine andare a servizio dai gatti
. Molte però sceglievano quell’occupazione a malincuore e presto s’affrettavano ad abbandonarla per via delle dure condizioni. E così la villa aveva spesso nuove e ancora nuove cameriere.
Alcalimo aveva scelto Vesproscuro per la presenza dei gatti. Il più vecchio di loro si chiamava Tevildo Meoita e viveva da solo in una casetta nei pressi della villa, probabilmente l’antica dimora del guardiano. Oltre a saper parlare, era un esperto di calligrafia: non perché fosse capace a scrivere – le zampe dei gatti non sono adatte a questa mansione – quanto per la sua abilità nel decifrare le antiche scritture. Merovingia, carolingia, beneventana, textura, cancelleresca e bastarda non avevano segreti per lui, e neppure i geroglifici ed i caratteri cuneiformi. In uno studio di Villa Miaugion ben asciutto e areato, conservava una montagna di rotoli di papiro, codici di pergamena e fogli di carta manoscritti, per ognuno dei quali era in grado di riconoscere lo stile, interpretandone correttamente il contenuto.
Alcalimo aveva sentito parlare di questo studioso, non molto conosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di maestri calligrafi e, una volta giunto nel paese, aveva subito cercato di entrare in contatto con lui. Riconosciuto nel giovane un cultore della comune passione e una sicura promessa nel suo campo, Tevildo aveva concesso la sua amicizia al giovane scrivano, permettendogli di consultare la propria collezione e istruendolo nell’antica arte della scrittura a mano. Oltretutto gli faceva anche un po’ comodo avere un aiutante, perché in tal modo aveva qualcuno a disposizione per scrivere con penne e calami, cosa che a lui, come abbiamo già detto, risultava piuttosto difficile: se avete sentito parlare di qualcuno che scrive a zampe di gallina, dovreste vedere le scritture a zampe di gatto…
Tuttavia, il vero tesoro di Tevildo Meoita consisteva in un cospicuo numero di rarissime pergamene, pregiate non per il loro materiale – sebbene ve ne fossero alcune in per gamena purpurea ed altre di candido agnellino – quanto per la scrittura Tengwar che le adornava. La leggenda vuole che questo sistema fosse stato utilizzato dagli elfi e altri popoli fatati, e benché nessuno conosca la loro origine con certezza, non vi è alcun dubbio sulla loro bellezza e qualità artistica. Alcalimo si era innamorato al primo istante di questi caratteri esotici, e frequentando il patriarca dei gatti accresceva la sua dimestichezza ed esperienza con questo stile, non molto praticato se non dai calligrafi più curiosi.
Alcalimo non aveva molti altri amici a Vesproscuro, ad eccezione di Luna Splendente, una ragazza del luogo che viveva con la madre e una sorella gemella.
Erinti, la madre, aveva una spiccata preferenza per Ulbandi, la maggiore delle due figlie, anche se per pochi minuti, e trattava invece Luna malamente; la povera ragazza doveva sempre indossare i vestiti dismessi dalla sorella, era destinata ai lavori più umili della casa, e mai una parola d’affetto o d’apprezzamento usciva dalla bocca delle famigliari.
Anche all’ora dei pasti Luna era fortunata se riusciva ad ottenere qualche avanzo dal tavolo delle due megere, e anzi qualche volta non riusciva a racimolare neppure quello, così che era costretta ad andare ad elemosinare una ciotola di cibo dai vicini.
Era snella, un po’ più alta della media, e i capelli castani, raccolti in una lunga treccia, ornavano un bel volto, dolce ed espressivo, animato da due intensi occhi verdi.
Il busto era armonioso, le gambe lunghe e affusolate.
Era insomma una bella ragazza, sebbene a prima vista non apparisse tale, coperta come era da miseri stracci e sempre sporca per i lavori domestici.
Alcalimo aveva conosciuto Luna in giro per il paese mentre era intenta a fare acquisti e aveva continuato a frequentarla – di nascosto per evitare che la madre la battesse per bene – trovandola una compagnia gradevole e tutt’altro che noiosa. Insieme parlavano del loro futuro, che a Luna appariva quanto mai triste e sfortunato, mentre Alcalimo le spiegava invece la propria passione per la calligrafia con un tale ardore che l’argomento iniziò a interessare anche alla sua nuova amica. A volte semplicemente ridevano di tutte quelle cose per cui i ragazzi ridono a quell’età.
Le due sorelle erano una il ritratto dell’altra, ma tanto era simpatica, gentile e di buon cuore Luna, quanto fredda, gretta e scorbutica Ulbandi. Inoltre, mentre la prima era sveglia e sempre pronta a darsi da fare, la seconda non brillava certo per intelletto ed era pigra e inconcludente. La loro somiglianza esteriore aveva tratto in inganno lo stesso Alcalimo.
Un giorno, avendo creduto di intravedere in una strada affollata Luna, per fare uno scherzo le si era avvicinato senza chiamarla e le aveva sfiorato un braccio; appena però la ragazza si era voltata, avendone scorto il volto arcigno e la malagrazia evidente, si era accorto dell’errore. Grazie alla folla che li circondava, era riuscito ad allontanarsi senza farsi riconoscere, lasciando Ulbandi adirata verso lo sconosciuto che aveva osato toccarla. Quando Alcalimo le aveva raccontato ciò che era accaduto, Luna era scoppiata a ridere canzonando l’amico. A scanso d’equivoci, avevano però escogitato un modo per far sì che il malinteso non avesse a ripetersi: si erano perciò accordati che, nel caso in cui l’identità della ragazza fosse incerta, Alcalimo avrebbe chiesto questa doman da: Come scrivevano la corsiva i Romani?
, e Luna avrebbe dovuto rispondere Di corsa!
(tale è infatti l’origine di questo tipo di grafia). Non avevano però finora mai avuto modo di sperimentare lo stratagemma.
In uno dei loro incontri, Luna si lamentò per l’ennesima volta di come fosse trattata da serva in casa propria.
«E allora perché non vai a offrirti come domestica dai gatti?» le suggerì Alcalimo. «Peggio di così non potranno trattarti. Ho sentito che Baccabella, la figlia dei tuoi vicini, si è licenziata ed è tornata a casa». «Non credevo di essere arrivata a un tal punto» osservò triste la ragazza, «ma l’idea non è da buttare via: ti prometto che ci penserò». In realtà pensava ai graffi che aveva scorto sulla faccia di Baccabella e ai pianti della ragazza.
«Inoltre potremmo anche vederci più frequentemente, perché io sono spesso da loro» aggiunse Alcalimo, a cui non dispiaceva poter trascorrere più tempo con l’amica.
Quando però, rientrata a casa, Luna trovò che tutta la cena era stata consumata e che, anziché desinare, avrebbe dovuto pulire il pavimento della cucina, non ce la fece più a mantenere la pazienza, e sbottò: «Basta, non ne posso più! Me ne andrò a servizio dei gatti! Così, visto che mi odiate, vi libererò una volta per tutte della mia presenza».
Per tutta risposta, Erinti prese una scopa di saggina e la sbatté fuori di casa, con i soli abiti che aveva indosso, mentre ormai stava per calare la sera.
Infreddolita, in lacrime e con nulla nello stomaco, Luna raggiunse Villa Miaugion. Bussato alla porta le venne ad aprire Cuorpiccino, un enorme tigrato fulvo che era il più tremendo di tutti, proprio quello le cui unghie Baccabella aveva conosciuto.
«Chi sei e cosa vuoi?» le chiese in malo modo.
«Mi chiamo Luna Splendente, e sarò la vostra nuova domestica, se mi vorrete» rispose la ragazza, con gli occhi rossi di pianto e di vergogna.
Fu fatta entrare e, alla luce delle lampade, la sua situazione apparve a tutti gli abitanti della casa così miserabile che nemmeno i più dispettosi ebbero il cuore di infierire sulla sventurata giovane.
«Per stasera va’ a riposarti» le disse Codabianca, il gatto più anziano fra i presenti, un soriano bianco e grigio, orbo da un occhio. «Inizierai a prendere servizio domani. Itarille ti accompagnerà nella tua camera» aggiunse poi, incaricando una graziosa gattina bianca con una stella nera sulla fronte.
In tutta la casa aleggiava un debole sentore di gatto – non tanto però quanto s’era immaginata – ma la camera a lei assegnata era pulita, così come le lenzuola. Luna si mise comoda entrando nel letto e pianse fino a che non si fu addormentata.
Il giorno dopo si svegliò di buon mattino. Il cielo era limpido, e i raggi del sole che stava sorgendo contribuirono a donare serenità al suo cuore. Si lavò, si rivestì, quindi iniziò a svolgere le sue mansioni. Malgrado tutti i gatti dormissero ancora, iniziò a pulire i locali comuni, i bagni e la cucina; nei due giorni in cui la casa era rimasta senza una mano esperta a governarla,