Storia di un sognatore
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Anteprima del libro
Storia di un sognatore - Daniele Rubino
Storia di un sognatore
Daniele Rubino
EDIZIONI SIMPLE
Via Weiden, 27
62100, Macerata
info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it
ISBN edizione digitale: 978-88-6259-921-4
ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-994-8
Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand
Via Weiden, 27 - 62100 Macerata
Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.
Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.
Prima edizione cartacea luglio 2014
Prima edizione digitale luglio 2014
Copyright © Daniele Rubino
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.
Well, my feet they finally took root in the earth, but I got me a nice little place in the stars.
Bene, i miei piedi hanno finalmente preso posto sulla terra, ma io mi sono guadagnato un posticino carino tra le stelle.
Bruce Springsteen
Alla mia famiglia, grazie alla quale sono quello che sono.
Ad Anna, che è riuscita a tirar fuori la parte migliore di me.
Il bambino era seduto su un tavolo di legno, bello pesante, e guardava dal balcone del sesto piano la luna piena.
Aveva sei anni e le gambe gli penzolavano, tanto che scendere richiedeva un bel saltello; salire era forse più semplice.
La luna non era rotta quella sera – lui la chiamava così quando non era piena- ma era, beh, intera.
E ci parlava con il pensiero, cercando d’interpretare quell’espressione che a lui pareva un po’ stupita, ed ogni mese quell’appuntamento che a lui sembrava cadere molto più spesso, forse una volta alla settimana, gli regalava qualcosa di nuovo.
C’è da dire che quando la luna era rotta lui non ci parlava.
La guardava, ma non ci si soffermava a lungo. In quelle settimane, o pochi giorni tra un appuntamento e l’altro, quando la temperatura e la mamma lo consentivano, stava sul tavolo a guardare i passanti, le automobili sfrecciare sulla strada statale.
Le persone parlavano quindici metri più giù e le sentiva distinta-mente: una delle domande da fare al più presto era chiedere come fosse possibile.
E le automobili, poi, chissà dove andavano…
E si chiedeva se anche i suoi compagni di classe pensavano quelle cose della luna, e dei suoni che arrivano fino al sesto piano.
Era probabile che non fosse così, e realizzare la sua unicità lo spa-ventava un po’, ma pensava tanto, ed una soluzione la trovava sempre.
Sapeva che avrebbe trovato tutte le risposte quando sarebbe diven-tato grande, in quinta elementare. Infatti i bambini di quinta doveva-no avere un’esperienza di vita enorme, chissà quante cose sapevano fare! I grandi, quelli di vent’anni o addirittura i vecchi, dai trent’anni in su, non erano mai stati bambini, quindi c’era poco da chiedere.
A parte papà. Lui si sedeva ogni tanto sul tavolo con il bambino, ed era diverso dai grandi o dai vecchi.
Si dava un gran da fare a rispondere a tutte le domande del bambino, che erano tante e richiedevano qualche quando sarai grande capirai
.
Si chiedeva dove andassero tutte queste persone, che cose importanti avessero da fare tutti questi grandi, questi vecchi, che sapevano sempre cosa fare. Il bambino non sapeva ancora che più sarebbe cresciuto, e quei grandi e quei vecchi sarebbero ringiovaniti, quando li avrebbe raggiunti avrebbe pensato che non sapevano sempre cosa fare.
Il bambino si chiamava Leonardo. Era l’estate del 1942.
1944
Le domande. Gli piaceva tanto farle, ed ascoltare le risposte sgranando gli occhi come davanti ad una fontana d’acqua fresca dopo una partita a pallone. Non che avesse mai giocato con un pallone vero: riusciva a fare delle palle con la carta dei quotidiani che portava a casa suo papà, fermandole con lo spago della mamma, ma quelle duravano appena una ventina di calci l’una. Quando nel cortile si univa qualche bambino più grande, la palla diventava inutilizzabile dopo appena dieci calci.
I suoi genitori, Antonio, un uomo alto e forte con un accenno di chioma bianca e la barba poco curata e Simona, una bella donna dagli occhi chiari e dal sorriso dolce, vivevano a Milano, in una via vicino alla stazione Centrale.
Leonardo aveva otto anni, era il 20 ottobre.
Era ormai abituato a nascondersi insieme alla maestra e a tutti compagni nei rifugi sotterranei durante gli allarmi aerei, e a dir la verità, non era neanche poi tanto spaventato: gli sembrava un gioco, almeno fino a quel giorno.
Tornando a casa moriva di curiosità, voleva provare finalmente a capire cosa significasse quella parola che sentiva diverse volte al giorno, una parola che sembrava racchiudere in sé la spiegazione, il senso di tutto. Quando rientrò chiese a sua mamma: «perché c’è la guerra?»
La mamma scoppiò a piangere, ma dopo un po’ si ricompose e gli disse: «perché gli uomini sono stupidi ed egoisti… non tutti, caro, ma chi ha permesso tutto questo…»
Lui abbracciò la mamma e le disse di non piangere, ma voleva farlo anche lui.
Quando era uscito da scuola, la gente sembrava impazzita: urlava, qualcuno si prendeva a botte.
Dopo qualche minuto si riuscì finalmente a capire.
Nel quartiere di Gorla, a pochi chilometri da casa sua, una bomba aveva ucciso centinaia di bambini. Erano scappati nel rifugio come faceva spesso anche lui, ma non bastò.
Morirono bambini della sua età.
Tornò a casa anche suo papà, sconvolto dall’accaduto, ed anche dall’aver appreso che almeno due delle persone morte sotto le bombe erano suoi amici.
Leonardo non aveva il coraggio di chiedergli nulla, ma quando il papà andò a dargli il bacio della buonanotte, gli chiese di chi fosse la colpa dell’accaduto.
«E’ difficile da spiegare, piccolo mio… siamo in guerra, ed in guerra accadono cose orribili. Muoiono i soldati e le persone comuni, e spesso gli innocenti. E quando gli innocenti sono bambini, è ancora più atroce.»
Leonardo salì istintivamente sullo sgabello e si allungò verso la piccola libreria, tirando a sé il vecchio dizionario. «Atroce…non lo trovo. » Il padre