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Memorie di un luogotenente di vascello
Memorie di un luogotenente di vascello
Memorie di un luogotenente di vascello
E-book273 pagine4 ore

Memorie di un luogotenente di vascello

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Info su questo ebook

Di ormai difficile reperibilità, 'Memorie di un luogotenente di vascello' è un libro vintage e forse proprio per questo sembra essere complicato ricavarne qualche informazione. Sappiamo però che l'autore Augusto Vittorio Vecchi (o Vecchj), conosciuto soprattutto con lo pseudonimo di Jack la Bolina, entrò nel 1856 nella Reale scuola di Marina a Genova iniziando una carriera militare che si concluse nel 1872 proprio con il grado di luogotenente di vascello. Ecco quindi che possiamo facilmente intuire quale sia il contenuto di quest'opera che si promette di ripercorrere le memorie dello scrittore e gli eventi storici di quegli anni.-
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2022
ISBN9788728411063
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    Memorie di un luogotenente di vascello - Augusto Vittorio Vecchi

    Memorie di un luogotenente di vascello

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1897, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728411063

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    MEMORIE

    DI UN LUOGOTENENTE

    DI VASCELLO

    AL

    VICE AMIRAGLIO

    GUGLIELMO ACTON

    MAESTRO

    IN ARTE NAVALE

    CON

    MEMORE AFFETTO D’ANTICO DISCEPOLO

    L’AUTORE

    DEDICA

    OFFRE

    firenze, m dccc xcvi

    CAPITOLO I

    Sono stato ospite della Regia Scuola di marina di Genova un giorno di soverchio, terminandovi il mio soggiorno con un inaspettato gastigo. Avevo corso la doppia quintana degli esami di classe e di quelli cosiddetti di Amiragliato con non comune fortuna. Avevo ricevuto dal presidente ch’era il comandante (poscia amiraglio) Wright la stretta di mano, significante che per esser ormai ufficiale non mi mancava che il decreto di S. M. Il mio compito era dunque salire in camera mia, spazzolarmi, chieder licenza d’andarmene a casa e scuotere i miei calzari dal limitare della scuola, dove durante i cinque corsi avevo appreso tutto, dalle matematiche al waltzer, dalla letteratura italiana all’esercizio del cannone da 40 1a specie; della scuola, in grembo alla quale avevo provato tutti i frequentissimi gastighi sotto la sferza di una disciplina addirittura feroce, il cui canone fondamentale era «gastighi a chi manca, niuna ricompensa a chi fa bene».

    Avrei dunque dovuto andar in camera mia; mi spuntò invece in mente lo sciagurato pensiero d’entrare nello studio dei piccoli che si preparavano silenziosamente agli esami, di salir sulla tavola, e far loro i miei addii clamorosi in una concione d’indole faceta. Quella marmaglia si diè a ridere sgangheratamente. Il comandante della scuola, ch’era il buono ed austero Riboty, passando sotto il porticato del cortile ed udendo quello sconcio schiamazzo, s’affacciò alla finestra dello studio, vide me, dimenticò (o ne fece mostra) ch’ero virtualmente «ufficiale», e disse breve breve: «Signor V., vada in sala di disciplina». Discesi contrito dai miei rostri, e andai a costituirmi in quello a me arcinotissimo luogo ove il mio nome e quello dei miei compagni era ripetuto in ogni foggia grafica nei posti anche più reconditi ed inaccessibili. Qualche anno dopo la uscita della nostra promozione uno di noi (ipocrita) fé cancellare tutte le tracce del suo e nostro passaggio nelle sette prigioni della R. Scuola per dar ad intendere agli aspiranti (che or come ufficiale d’ispezione governava) esser egli stato un cherubino. Non lo era stato affatto. Poteva far cancellare il proprio nome se così piacevagli, ma il nostro serbarlo. Quelle iscrizioni votive, succedutesi di classe in classe, costituivano il tratto di unione tra lo stato maggiore della marina ed i giovinetti che ne avrebbero un giorno fatto parte. Passai quel giorno e la notte seguente in «prigionetta». Era così chiamata perché la più angusta; ma non era peggiore delle altre. La dimane alle 8 mattutine mi fu data la via come ad un passero; non salutai più nessuno, per paura che male me n’incogliesse; e discesi la ripida strada che da Santa Maria della Neve mena in Via Balbi senza rivolgere addietro lo sguardo. Temevo rimanere di sale come la moglie di Lot.

    A rischio di scandalizzare le anime pie dichiaro senza vergogna che non ho serbato verun dolce ricordo dei cinque anni di scuola di marina.

    Anzi, tutti amari come tossico. Comunque avessi raggiunto 18 anni mi trovai un po’ confuso nel camminare solo per le strade di Genova; erano ormai cinque anni circa che ciò m’era inconsueto. E me ne andai a Villa Spinola da mio padre, il cuore più nobile, l’anima più generosa e bella che mai abbia incontrato. Chi lo conobbe l’amò; e tra coloro che lo amarono svisceratamente, primo Giuseppe Garibaldi; il quale, molti anni dopo la dipartita di lui, me ne parlava con tenerezza.

    Prima di sbrigarmi succintamente dei miei ricordi di scuola dirò che quel pranzo toltomi da Riboty mi fu reso da lui nel 1867, cioè sei anni dopo. Ero allora ufficiale sulla Maria Adelaide, appunto capitana di Riboty. Un giorno di giugno fui invitato a pranzo alla sua tavola. Ed alla frutta, l’ammiraglio mi versò nel piatto una quantità di fragole, sciamando: «Per compenso di quelle che non mangiò quando, giusto in questo tempo dell’anno, lo trattenni un giorno di più nella scuola. Si ricorda?». Gli risposi di sì e che gli avevo augurato molti malanni che erano, la Dio mercé, rimasti sospesi in aria.

    Per tornar alla nostra scuola, dirò che l’istruzione teorica e la pratica vi erano impartite ammirevolmente. Credo sia raro incontrare insegnanti che uguagliassero Tardy, Boasso, Massa, Monteverde, Bertolami, Errante, Boccardo, Ciocca, Stevenson e Pareto. I due scadenti erano Piccone (odiato da tutti) e Cambiaso irreverentemente chiamato da noi «camaleonte».

    Anche Benedetto Brin fu nostro professore. L’uomo chiamato a levar sì alto grido di sé era un giovine di aspetto timido e freddo, che sembrava vivere nel mondo dei sogni. Giunto di recente dagli studi intrapresi in Francia, parlava eccellente italiano pronunciandolo con accento forestiero che maggiormente spiccava perché discorreva lentamente. Del resto chiarissimo, ma svogliato, espositore della sua scienza che era la costruzione navale. Il corso terminava col disegno (opera nostra) d’una cannoniera inglese. A quel tempo le cannoniere erano di moda, come ora le torpediniere. In faccende di mare i dirizzoni sono più frequenti che altri non supponga. Una nazione comincia; le altre, come i montoni di Panurgo, imitano.

    Educazione non se ne impartiva nel senso vero della parola. Non religiosa, perché non considero tale il confessarsi e comunicarsi a comando tre volte all’anno, oppure recitar le preghiere mattina e sera a norma d’orario, od ascoltar la messa alla domenica. Della morale sublime di Cristo non la menoma parola. Né manco educazione civile. Di tanto in tanto qualche buona massima sulla fedeltà al Re, capo del «nostro Stato»; ma sino al giorno in cui, uscito dalla scuola, giurai fedeltà al Re ed alla Costituzione, di questa niuno avevami mai fatto cenno; era una incognita signora.

    La educazione militare era procurata per via dell’esempio dei nostri superiori, ma non da altro. Invero uomini come Monale, Arminjon, Cappellini, Del Santo, Suni e Lovera (che fu l’ultimo del tempo mio) erano sì scrupolosi osservatori del dovere, sì leali servitori dello Stato, sì perfetti ufficiali che solo l’osservarli era educativo. Ricordo, a proposito di Cappellini, che reclamando per una punizione da me riputata ingiusta, usai la parola «diritto». Cappellini mi fermò e soggiunse: «Sappia che un militare ha doveri, e non ha niun diritto. Neppure alla paga s’ha diritto; essa è un dono di S. M. il Re, nient’altro».

    Del Santo spingeva il sentimento dell’equità a tal segno che, allorquando uno di noi reclamava, egli sempre rivolgevagli questa domanda. «Ella reclama perché trova il gastigo troppo lieve o troppo forte?». Son sicuro che non trovò mai alcuno che trovasse né «giusto» né «lieve» il gastigo.

    Curiosissima era la distinzione che facevamo tra i nostri ufficiali. Il comandante ed i due luogotenenti di vascello, i quali reggevano la scuola come ufficiali d’ispezione, erano rispettati al paro di semidei, anche se detestati in segreto. Essi erano agli occhi nostri antichi allievi della scuola; socialmente parlando erano nostri. Qui cade in acconcio ricordare che la scuola di marina si reclutava tra i nobili piemontesi e savoini; i giovani di sangue non baronale erano ben pochi. Rimanga a lode dei nostri superiori che dessi palesaronsi sempre insuperabilmente equi. La loro mano di ferro – senza traccia di guanto di seta — pesava ugualmente su tutte le spalle. I figli di ministri, di aiutanti di campo del Re, di uomini che coprivano cariche politiche altissime non godettero mai di alcun privilegio. Il rigorismo era inesorabile e puritano. I nostri ufficiali erano dunque gente che consideravamo fieramente come nostri pari sotto il riguardo sociale, e nostri superiori secondo il riguardo militare, e nostri maestri in cose professionali. Ma tra loro e noi stavano gli «aiutanti», da noi in gergo chiamati «busi»o «zubi»; quest’ultimo appellativo era una voce araba importata nel nostro idioma, voce sconcia che non traduco. Dio perdoni ai giovini anni miei e dei miei compagni l’odio, il disprezzo, i ripetuti insulti che noi rovesciavamo sopra questa brava gente, colpevoli d’aver conseguito le spalline dopo lunghi ed onorati servigi prestati nella bassa forza! Tallero, Vermout e Fornelli erano noiosi come la pioggia; ma non eravi perfidia onde non fossimo maestri per umiliarli. La nostra ingegnosità inventava ogni giorno novelle forme d’ingiuria. Tallero era tirolese, e nel 1848 era passato dai ranghi austriaci ai nostri. E noi, radunati in crocchio, ricamavamo al suo riguardo (ad alta voce perché non ne perdesse sillaba) la storia del caporale austriaco infedele al suo sovrano che per una promozione era passato nel campo nemico. Quanta vera virtù in quell’uomo che ascoltava impassibile e non ci faceva a brani! Fornelli era da noi chiamato il «luminaio». Un tempo caporale di Real Navi, era stato incaricato dei fanali sul San Michele. E noi a cantar una canzone sul «caporale luminaio», naturalmente ladro dell’olio del San Michele. Maliziosi come scimmie, arguti, superbi del rango o delle ricchezze avite, consci che nello stato maggiore dell’armata saremmo stati a loro superiori, noi eravamo spietati per i poveri «aiutanti» cui rimproveravamo vestire una divisa compagna a quella degli ufficiali di vascello. Ma non v’ha comunità di adolescenti che non si autoeduchi, rimediando al male ond’è percossa mediante le latenti forze proprie dell’età giovanile. La costrizione continua della disciplina; la crudezza spietata, ma sana, dei gastighi; e la specchiata uguaglianza di trattamento a nostro riguardo ingeneravano un codice d’onore al quale eravamo ligi. Mentitori sfrontati verso i «busi», leali e veritieri cogli ufficiali d’ispezione, rifuggivamo tra noi dall’inganno e dalla doppiezza. Eravamo in genere di mutua scrupolosa onoratezza. La parola d’onore era sacra; lo sparlare alle spalle — «tagliar cappotti» nel nostro gergo – era considerata azione di non comune viltà. L’aver paura nel pericolo («aver spaghetto»), il piangere sotto il gastigo, od anche semplicemente nelle strette del dolore fisico, erano casi disonoranti. Gran merito essere induriti alla sofferenza ed alle privazioni. Il gastigo ricercavasi per deriderlo; a chi lo temeva si dava del «prete»; insulto sanguinoso che si lavava con una partita a pugni, tra i giovanetti del medesimo corso. Se l’ingiuria era stata lanciata da qualcuno dei corsi superiori conveniva beversela, perché tutti i componenti un corso erano solidali. C’era dunque allato del codice d’onore anche il codice di oppressione onde i «nuovi» o «pivetti» erano le vittime. Il fagging delle scuole inglesi, e le brimades delle scuole militari francesi avevano la loro corrispondenza in quelle punizioni corporali violente ed interscolari che costituivano la «rusta». Questa vita strana, soldatescamente claustrale, aveva il suo vocabolario strano. Noi si parlava ufficialmente italiano; il dialetto genovese lo conoscevamo tutti e lo usavamo a bordo con i marinari; tra noi dominava il nostro gergo, composito quanto mai. Ricordo che Suni primo luogotenente dell’Euridice avendo chiesto a Grillo (ora contramiraglio) che malattia avesse uno di noi, Grillo ch’era sempre il primo del coiso, non solo nelle discipline matematiche, ma nelle letterarie altresì, rispose: «Il Sig. X. ha un ciavello sulla masca»: italice un «fignolo» su d’una «guancia». E dire che Bertolami ci tormentava con Dante! È giusto aggiungere che Dante non godeva appo noi di alcuna popolarità. Mi è rimasto antipatico anche adesso, del che chiedo scusa ai lettori; però debbo in omaggio al vero, dichiararlo. Il nostro gergo conteneva, come di dovere, innumerevoli locuzioni marittime e qualche importazione forastiera. Niuno diceva mai «va via» ma si bene «imish», dall’arabo emsh. Gl’Inglesi erano chiamati i «john». Anche i nostri nomi di famiglia davano luogo a soprannomi più o meno felicemente trovati. Faucigny è ancor tuttodì ricordato tra noi sotto il nome di «Foks», Marcello Durazzo di «Zebù»; il nome di battesimo non si usava mai, sembrava una debolezza; anche i due fratelli Serra e i due Resasco mutuaimente interpellavansi con i soprannomi di collegio.

    A rinvigorire la nostra autoeducazione ruvidamente virile, a rincalzare la somma di pregiudizi sociali, scolastici e marinareschi che ne costituivano i capisaldi, contribuiva la tradizione della scuola. Noi conoscevamo i nostri futuri comandanti per Ì ricordi che avevan lasciato nella scuola, ricordi d’impertinenze, di rispostacce, di lunghe prigionie, ed anche di atti generosi tramandati di bocca in bocca: poco sapevamo dei loro studi, ma assai minutamente della loro bravura in qualità di gabbieri: d’onde la devozione per alcuni uomini, ad esempio Mantica, Saint Bon, Arminjon, Racchia, De Negri e Gherardi. Una volta discoprimmo un registro di gastighi e fummo entusiasmati dal rilevare che Mantica aveva avuto tre punizioni crescenti per tentata e fallita uccisione d’un gatto; ed una quarta per averlo finalmente accoppato.

    Cotesta educazione da Lacedemoni la correggeva l’influenza esteriore di… Alessandro Dumas père et seul. Sì, egli contribuì moltissimo a far di noi quello che siamo. Costretti tra gli studi aridi delle matematiche pure e quelli pedanteschi della letteratura, sopperivano ai bisogni dell’imaginazione l’Histoire de la marine française d’Eugène Sue, Les Guerres maritimes de la République et de l’Empire di Jurien de la Gravière ed il Manœuvrier di Bonnefoux, aureo libro. Ma colla sete che ci divorava leggere, rileggere, ed ancora una volta leggere gli stessi libri a nulla giovava. Oh! Trois mousquetaires, Vingt ans après, Bragelonne, Dame de Monsoreau, Collier de la Reine, che penetravate per tutte le illecite vie nella R. Scuola di marina, quanto siete stati benedetti! Com’era dolce la prigione in compagnia vostra! Antonio Arese era uno dei più fortunati contrabbandieri di romanzi; anche Guglielminetti, astutissimo quant’altri mai. Si usavano mille precauzioni per non essere scoperti: pur troppo… gli ufficiali d’ispezione erano stati anche loro «aspiranti»! Ed ogni tanto una solenne, minuziosa rivista (che non risparmiava i nostri indumenti personali) compiva il temuto sequestro.

    Durante la campagna estiva a bordo all’Aquila od all’Euridice riuscivamo a lottare meglio con i nostri superiori. Sott’ufficiali, marinari, cuochi, scalchi erano i nostri complici. E poi quanti nascondigli! L’anima dei cannoni, l’alberatura (l’albero e la coffa di mezzana in ispecial modo) offrivano ospitalità – non sempre sicura – ai nostri contrabbandi. Arminjon una volta salì di persona in coffa di mezzana ad eseguire una perquisizione. Trovò ogni ben di Dio, anche due ariguste cotte, nascostevi da Guglielminetti sotto una ruota di cavo.

    Nella pancia della contro mezzana serrata un’altra volta Guglielminetti, Candiani ed io avevamo ficcato due enormi cocomeri, una scatola di rahat-lokoum (che è un dolce greco) ed un’oka di tabacco. Eravamo ancorati al Milo e quelle care provviste le avevano acquistate lungo il bordo e portate notte tempo nella nostra cittadella, Dio sa con quanta fatica e scaltrezza. Ecco che nell’antimeriggio di fatale domenica Riccardi sale in coperta, chiama «tutta la gente a posto di manovra», e si accinge a metter alla vela. «Pronti a largar le vele!», «A riva capi gabbieri e secondi capi e gabbieri al velaccio!», e poi subito: «a riva gabbieri!».

    Non abbiamo tempo di avvertir nessuno; d’altronde, interamente dediti all’opera nostra di marinari, ansiosi di esser celeri quanto i gabbieri degli altri alberi, di nulla ci curiamo fuorché del nostro dovere. Riccardi dà il comando di «larga!», «borda le gabbie!». Guglielminetti riesce a salvare al volo un cocomero; ma l’altro rimbalza sulle sartie, si spacca e un paio di libbre di polpa carnicina e di semini neri si spiattella sulle spalline e sul petto del comandante che tutto fradicio alza gli occhi ed esclama «porcaccioni!». L’oka di tabacco e la scatola di rahat-lokoum dopo alcune aeree evoluzioni cascano sfasciandosi in coperta, dove Tallero ne raccoglie gli sparsi resti. Credo superfluo aggiungere che Guglielminetti ed io, in qualità di capigabbieri, fummo chiamati responsabili del disastro e condannati a «due giorni di barre».

    «Vada sulle barre!»: ecco l’ordine che con non comune frequenza colpiva le nostre orecchie. Le barre era una punizione che si dava «ad ore», come per prendere un fiacchere. Era una sequestrazione sull’alto dell’alberatura che acquistava crudezza dallo stato del tempo, dal frigore dell’aere, dalla violenza del vento. Ma era punizione marinaresca, aspra; non punto, come fu vezzo chiamarla, crudele. Ho passato cinque giorni sulle barre dalle 4 del mattino alle 8 di sera; il pasto, cioè due gallette, me lo mandavano lassù, insieme a due boccie d’acqua. Ho visto bene da quell’osservatorio le coste di Spagna da Malaga a capo Trafalgar; ho visto i delfini ed i tonni a stuoli perseguitare le acciughe a sciami; ho dormito cullato dall’onda mediterranea e dal lungo flutto oceanico. Mi legavo bene un braccio ad una sartiola con un muscello (che è una treccia di cavo) per non cascare. Colla pezzuola di seta ed il fazzoletto facevo due bracotti su cui adagiare la schiena e le giunture dei ginocchi; così messo a posto, dormivo i sonni del giusto, dimentico della ragione per cui il comandante Riccardi mi aveva sì rigorosamente punito. L’avevo fatta grossa. È d’uopo sapere che ogni anno imbarcavasi con noi un professore di matematiche, tormentatore delle nostre vacanze. Quell’anno (fu il 1858) s’imbarcò Bartolomeo Massa. Questi ebbe il mal di mare sino dal porto. Imaginate la nostra contentezza! Sperai che non sarebbe mai uscito dal suo camerino. Infatti, tra per il tempo che si mantenne piuttosto cattivo, tra per i guai suoi, non salì in coperta che al primo porto. Ma in un breve lucido intervallo aveva chiamato a sé il nostro contro mastro (così chiamavasi il più anziano del secondo corso) e gli aveva consegnato un monte di esercizi d’algebra e di trigonometria da distribuire tra i compagni. Non me ne diedi per inteso e mi lasciai cullare dall’ozio padre di qualche vizio, ma anche dolce ricreazione delle creature intelligenti che durante sette mesi abbiano studiato materie acerbe ed ostiche. Massa «redivivo» mi domandò i miei lavori per esaminarli; siccome non avevo che carta bianca da mostrare, mentii sfrontatamente adducendo che avevo sofferto mal di mare quanto lui. «Vada sulle barre!» mi rispose. Come! anche quel pedante mandava sulle barre collo stesso tuono di voce di un tenente di vascello? Era tuttavia giallo come un limone, e si dava tant’aria? Presi le sartie di mezzana e me ne andai a posto mulinando pensieri di vendetta. A capo ad un’ora mi furono portate due «gallette» per colazione. Massa passeggiava sul casseretto giusto al mio nadir. L’ufficiale di guardia era sul banco di quarto; ufficiali e marinari erano a colazione. Presi le mie misure accuratamente e lasciai cadere una galletta di costa sperando cogliere Massa sul capo…, non azzeccai che la spalla destra. Guardò in su e capì ogni cosa. Dopo colazione fui chiamato abbasso. Massa m’investì ancora, risposi insolentemente; d’onde rapporto a mio carico e barre sino a N. O. Le iniziali significano «nuovo ordine», ed anche Nord Ovest; per cui codesto genere di punizione lo chiamavano «Nord Ovest». Monale, ch’era il secondo di bordo, mi annunciò che il comandante mi avrebbe graziato quando domandassi scusa a Massa. Mai, pensai io: piuttosto tre mesi di barre! Il terzo giorno mi fu dato un piatto di minestra alle 4 pomeridiane, e fui rimandato sulle barre. Alle 8 fui chiamato giù, e Monale mi chiese se ero disposto alle scuse. Risposi colla mano al berretto: «No, signor tenente». La dimane alla stessa ora diedi alla stessa dimanda eguale risposta. Infine la sera del quinto giorno mi fu domandata la mia parola d’onore che non avrei ripetuto la mia condotta insolente verso il Massa; se la pronunciassi, il comandante mi commutava la pena nella consegna a bordo per tre mesi. Consentii e rimasi consegnato. Massa non mi disturbò più… e non esigette da me lavoro eccessivo.

    Le barre erano il gastigo del guardiamarina e dell’aspirante. Anche i guardiamarina di 1a classe, il cui grado corrispondeva a sottotenente d’esercito, potevano essere mandati sulle barre; ma io non ne ho mandato che una volta solo uno in coffa; è ora il comandante Lanfranco Carnevale. Anzi la tradizione voleva che fosse per cagione di quel gastigo delle barre, cui i guardiamarina potevano soggiacere, che ai miei tempi essi non portavano spalline, ma certi nodi d’oro chiamati da noi «coltellette». Raccontavasi che un guardiamarina, ferito nell’amor proprio, aveva buttato dall’alberatura le sue spalline in coperta, e che da quel giorno il Re aveva dato quei nodi d’oro come distintivo dei guardiamarina.

    Il conte Ernesto Riccardi di Netro, nostro comandante tra il 1857 ed il 1860, era siffattamente buono ed affabile che tra i marinari aveva guadagnato

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