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Rodney Stone
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E-book375 pagine5 ore

Rodney Stone

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Info su questo ebook

Primi anni del XIX secolo: Rodney Stone e il suo migliore amico Jim, un orfano con la passione per la boxe, sono sempre stati attratti dal mistero di Cliffe Royal, un castello abbandonato dopo essere stato teatro di un omicidio.
La curiosità giovanile passa in secondo piano quando Rodney si trasferisce a Londra al seguito di suo zio Charles Tregellis, amico intimo del futuro re Giorgio IV e da poco imbarcatosi in una scommessa sportiva: deve trovare e allenare un giovane pugile in grado di battere sul ring un fortissimo campione di Bristol…
Rodney Stone è un romanzo di formazione dai toni gotici e ambientato tra la Londra dandy dei primi dell'800 e il mondo del pugilato e delle scommesse sportive.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2021
ISBN9791280243065
Rodney Stone
Autore

Sir Arthur Conan Doyle

Arthur Conan Doyle was a British writer and physician. He is the creator of the Sherlock Holmes character, writing his debut appearance in A Study in Scarlet. Doyle wrote notable books in the fantasy and science fiction genres, as well as plays, romances, poetry, non-fiction, and historical novels.

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    Anteprima del libro

    Rodney Stone - Sir Arthur Conan Doyle

    57

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    La grande ombra

    Arthur Conan Doyle, Rodney Stone

    1a edizione Landscape Books, febbraio 2021

    Collana Aurora n° 57

    © Landscape Books 2021

    Titolo originale: Rodney Stone

    Traduzione di Maria Gallone, riveduta e aggiornata; l'editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti della traduzione, resta a loro disposizione per l'assolvimento di quanto eventualmente dovuto.

    www.landscape-books.com

    ISBN 979-12-28024-06-5

    In copertina: rielaborazione da Carl Becker

    Realizzazione a cura di WAY TO ePUB

    Arthur Conan Doyle

    Rodney Stone

    Prefazione

    Tra i libri ai quali ho maggiormente attinto in questo mio tentativo di tratteggiare alcune fasi della vita e del carattere inglese all’inizio del secolo, vorrei citare in modo particolare L’alba del XIX Secolo di Ashton; Reminiscenze di Gronow; La vita e i tempi di Giorgio IV di Fitzgerald; La vita di Brummell di Jesse; Lungo la strada di Brighton di Harper; L’ultimo Conte di Barrymore e Il vecchio Q. di Robinson; Storia dei campi di corse di Rice; Al tempo dei postiglioni di Tristram; Storia navale di James; Wood e Nelson di Clark Russell.

    Sono pure debitore ai miei amici J. C. Parkinson e Robert Barr per le informazioni fornitemi sulla vita e l’ambiente del ring.

    A. CONAN DOYLE

    Haslemere, 1 settembre 1896.

    I.

    Il villaggio di Friar’s Oak

    In questo primo giorno di gennaio dell’anno 1851, il diciannovesimo secolo è giunto al mezzo del suo cammino, e molti di noi che ne hanno condiviso la giovinezza già hanno ricevuto i segni preannunciatori del tempo che fugge e non ritorna. Noi, i più vecchi, avviciniamo le nostre teste ormai grigie e discorriamo degli antichi giorni gloriosi, ma ci accorgiamo, allorché parliamo con i nostri figli, che ci è difficile farci comprendere da loro. Noi, e i nostri padri prima di noi, abbiamo vissuto più o meno un’esistenza identica, ma i nostri figli con le loro ferrovie e le loro navi a vapore appartengono a un’età diversa. È bensì vero che possiamo mettere tra le loro mani i libri di storia, dove possono leggere della nostra estenuante lotta, durata oltre quattro lustri, contro quel genio incompreso e malvagio che fu Napoleone. Possono sì apprendere da queste letture come la Libertà fosse fuggita dal continente, come fu sparso il sangue di Nelson, come il nobile cuore di Pitt si spezzasse nel disperato tentativo che la Libertà non ci abbandonasse per sempre, cercando rifugio tra i nostri fratelli d’oltre Atlantico. Tutte queste cose i nostri figli possono leggere, nonché imparare le date di questo o quel trattato, di questa o quella battaglia, ma non so dove potrebbero leggere di noi, della gente che eravamo, dell’esistenza che abbiamo condotta, e come si mostrasse il mondo ai nostri occhi quando eravamo giovani come essi lo sono adesso.

    Se prendo in mano la penna per parlarvi di tutto ciò non dovete pensare che io abbia in mente un racconto ben preciso, perché quando questi fatti accaddero ero ancora giovanissimo, e benché già intuissi le vicende delle vite altrui non potevo certo pretendere di averne una mia propria. È l’amore di una donna che forma l’esistenza di un uomo, e molti anni dovevano ancora passare prima che io posassi per la prima volta lo sguardo sulla madre dei miei figli. A noi sembra cosa di ieri appena, eppure quei ragazzi già possono cogliere le susine sull’albero mentre ancora noi stiamo cercando la scala a pioli, e là dove poc’anzi ancora passeggiavamo con la loro manina nella nostra, siamo adesso lieti di poterci appoggiare al loro braccio. Ma io dirò di un tempo in cui il solo amore che conoscessi era quello di mia madre, e se voleste cercare dell’altro, sappiate allora che non sarà per voi che io scrivo. Ma se vorrete penetrare con me in quel mondo dimenticato, se vorrete conoscere il Giovane Jim e Harrison il Campione, se vi farà piacere incontrare mio padre, uno dei fedelissimi di Nelson, se vi interessa di cogliere una visione sia pure fugace della persona di questo magnifico Marinaio, e di Giorgio, destinato a divenire in seguito l’indegno re inglese, se soprattutto siete curiosi di fare la conoscenza del mio celebre zio, Sir Charles Tregellis, il re degli elegantoni, e dei pugili famosi i cui nomi suonano tuttora familiari alle vostre orecchie, datemi la mano, ché incominceremo subito.

    Devo però avvertirvi che se credete di trovare nella vostra guida elementi di particolare interesse resterete delusi. Nel far scorrere lo sguardo lungo i miei scaffali mi accorgo che soltanto gli spiriti saggi e arguti o gli uomini valorosi si sono arrischiati a mettere per scritto le loro esperienze. Per quel che mi riguarda, se potessi soltanto avere la sicurezza di essere capace e ardimentoso quanto la media dei miei simili mi riterrei soddisfatto. Molti uomini d’azione hanno giudicato favorevolmente il mio ingegno, e molti uomini d’ingegno hanno giudicato favorevolmente l’opera delle mie mani, e questo è il meglio che io possa dire di me. A parte una innata predisposizione per la musica, tanto mi è facile e naturale dominare qualsiasi strumento, non saprei vantare un’altra speciale prerogativa che mi distingua dal resto dell’umanità. Sono stato sempre e in tutto un uomo mediocre; sono persino di media statura, i miei occhi non sono né grigi né azzurri, e i miei capelli, prima che il Tempo li spruzzasse della candida cipria degli anni, erano tra il biondo e il bruno. Di una cosa forse posso vantarmi, e cioè che in tutto il corso della mia esistenza non ho mai provato una sia pur lieve punta d’invidia, anzi ho sempre ammirato i migliori di me, e ho sempre visto tutte le cose come sono in realtà, me stesso compreso, il che dovrebbe pur segnare qualche punto a mio favore, adesso che vecchio ormai mi accingo a scrivere le mie memorie. Col vostro permesso dunque cercheremo di tener quanto più lontana possibile dal quadro la mia persona. Se riuscirete a immaginarmi come un cordoncino sottile e incolore sul quale infilare quelle che vorrebbero essere le mie perle, mi accetterete nei termini che io ritengo ideali per il corso di questa mia narrazione.

    La mia famiglia appartiene da generazioni alla Marina, ed è sempre stata usanza tra noi che il figlio maggiore prendesse il nome del comandante favorito del proprio padre. Possiamo pertanto far risalire la nostra schiatta al vecchio Vernon Stone, che comandò nella lotta contro gli olandesi una nave di linea dall’alta poppa e dalla prora appuntita. Da Hawke Stone e Benbow Stone si scende a mio padre, Anson Stone, il quale a sua volta mi battezzò Rodney, nella Chiesa parrocchiale di St. Thomas di Portsmouth nell’anno di grazia 1786.

    Dalla mia finestra, mentre scrivo, vedo nel giardino il mio figliuolo maggiore e se dovessi chiamar forte Nelson! capireste che anche io sono stato fedele alle tradizioni della mia famiglia.

    La mia adorata mamma, la migliore madre che sia esistita al mondo, era la secondogenita del reverendo John Tregellis, vicario di Milton, una minuscola curia che sorge ai margini delle paludi di Langstone. La sua famiglia, benché povera in origine, si era presto acquistata una certa fama poiché il fratello maggiore di mia padre era il notissimo Sir Charles Tregellis il quale, avendo ereditato la sostanza di un ricco mercante delle Indie Orientali, era divenuto l’uomo del giorno e l’amico intimo del principe di Galles. Di lui parlerò più a lungo in seguito: per il momento mi limiterò a dire che era mio zio per parte materna.

    Mia madre era poco più che una bambina quando si sposò, e giovanissima ancora la ricordo nelle mie prime memorie infantili, sempre in faccende con le sue agili dita, e perfettamente rammento la sua dolce voce e ancora la vedo bellissima con quegli occhi teneri di colomba, piuttosto piccola di statura, è vero, ma eretta e fiera di portamento. In quei miei lontani ricordi da adolescente ella è sempre vestita di un abito marezzato color di viola, una sciarpa bianca le cinge il lungo collo candido, e ne rivedo le mani abilissime che sferruzzano senza posa. E la rivedo ancora più avanti negli anni, sempre tenera e amorosa, destreggiarsi e compiere miracoli con i pochi scellini al giorno concessi dalla paga di tenente di vascello di mio padre, e con i quali doveva mandare avanti la villetta in cui abitavamo a Friar’s Oak e mantenere di fronte al mondo un’apparenza dignitosa. E anche adesso basta che io entri nel salotto per rivedermela ancora davanti, con oltre ottant’anni di una vita integerrima alle spalle, con quei suoi capelli d’argento, il volto placido, l’elegante cuffietta guarnita di nastri, gli occhiali cerchiati d’oro, le spalle coperte dall’inseparabile scialle di lana orlato di blu. L’ho amata quando era giovane e l’amo adesso che è vecchia, e quando se ne andrà si porterà con sé qualcosa che nulla al mondo potrà sostituire ai miei occhi. Voi che leggete queste pagine, per quanti amici potrete avere, e anche ammesso che vi sposiate, sappiate che di madre ce n’è una sola per ognuno di noi. Vezzeggiatela dunque finché vi è possibile, poiché verrà giorno in cui il ricordo di un gesto scortese o di una parola aspra tornerà a pungervi il cuore con implacabile rimorso. Questa dunque era mia madre; in quanto a mio padre mi soffermerò a descriverlo meglio quando arriverò al punto del suo ritorno in mezzo a noi dal Mediterraneo. Durante tutta la mia infanzia egli fu per me soltanto un nome e un volto che mi guardava da una piccola miniatura appesa al collo di mia madre. Da principio mi dissero che combatteva contro i francesi, poi, dopo qualche anno, intesi parlare sempre meno dei francesi e sempre più del generale Bonaparte. Ricordo il terrore col quale un giorno vidi esposto nella vetrina di un libraio di Portsmouth il ritratto del Grande Corso. Era dunque quello l’arcinemico contro il quale mio padre trascorreva la propria esistenza in una tremenda, incessante contesa? Poiché nella mia immaginazione infantile si trattava di una questione personale, e nella mia mente bambina vedevo mio padre a tu per tu in un duello mortale e senza quartiere con quell’uomo dal volto glabro e dalle labbra sottili. Solo quando incominciai a frequentare la scuola compresi che c’erano tanti altri bambini i cui padri subivano la stessa sorte del mio.

    In quei lunghi anni mio padre venne a casa, in licenza, una sola volta, il che vi farà capire che cosa significasse in quei giorni essere la moglie di un Marinaio. Ciò accadde poco dopo il nostro spostamento da Portsmouth a Friar’s Oak, dove egli soggiornò per una settimana prima d’imbarcarsi agli ordini dell’ammiraglio Jervis nell’impresa che doveva poi mutare il nome di quest’ultimo in Lord St. Vincent. Rammento come rimasi spaventato e affascinato a un tempo dai suoi racconti di battaglie, e ricordo come se fosse ieri l’orrore che mi assalì nel notare sul merletto della sua camicia una macchiolina di sangue provocata certamente da un suo movimento troppo brusco nel farsi la barba. Allora però non ebbi il minimo dubbio che fosse sprizzata dal corpo esanime di chissà quale francese o spagnolo, colpito a morte dalla sua mira infallibile, e mi ritrassi atterrito non appena egli mi posò sul capo la mano callosa. Mia madre pianse disperatamente quando egli ripartì, ma io non fui affatto dispiaciuto di veder sparire lungo il viale del giardino la sua giacca azzurra e i suoi corti pantaloni bianchi poiché avevo la sensazione, nel mio spensierato egoismo infantile, che quando eravamo soli lei e io fossimo più vicini l’uno all’altra.

    Avevo undici anni quando partimmo da Portsmouth per stabilirci a Friar’s Oak, un villaggetto del Sussex a nord di Brighton che ci era stato raccomandato da mio zio Sir Charles Tregellis, forse perché dimorava in quei pressi Lord Avon, uno dei tanti suoi fastosi amici. Il motivo reale di questo nostro trasloco era però che la vita in campagna costava di meno, e a mia madre riusciva più facile mantenere un certo decoro lontano da una cerchia di persone altolocate che era tuttavia impossibile non ricevere in modo degno. Erano infatti tempi assai difficili per tutti fuorché per gli agricoltori, i quali avevano in quegli anni realizzato guadagni tali che potevano benissimo permettersi il lusso, così avevo inteso dire, di lasciare metà delle loro terre incolte, vivendo da gran signori con i proventi dell’altra metà. Il grano costava centodieci scellini il quarto e la pagnotta di quattro libbre uno scellino e nove penny. Avremmo stentato a sbarcare il lunario anche nel nostro modesto villaggetto se nella squadra destinata al blocco navale e di cui mio padre faceva parte non ci fosse stata di quando in quando l’occasione di cogliere qualche piccolo bottino. Le navi da battaglia che facevano la spola al largo di Brest non potevano sperare di guadagnar nulla, fuorché onore e gloria, ma le fregate in agguato s’impadronivano di numerose navi costiere e queste, secondo il regolamento del servizio, venivano calcolate come appartenenti alla flotta, e il loro carico spartito come diritto di preda bellica veniva convertito in una cifra individuale. Grazie a questo sistema mio padre era in grado di inviare alla famiglia quanto bastava a sostenere le spese della villa e della mia frequenza alla scuola diurna di Joshua Allen, dove per quattro anni appresi tutto ciò che quel brav’uomo aveva da insegnarmi. Alla scuola di Allen, appunto, feci per la prima volta la conoscenza di Jim Harrison, il Giovane Jim come tutti lo hanno sempre chiamato, il nipote di Harrison il Campione, fabbro del villaggio. Lo ricordo ancora com’era allora, con quelle gambe e quelle braccia lunghe, penzoloni, quasi informi, che lo facevano assomigliare a un cucciolo di Terranova, e una faccia che costringeva a voltarsi per guardarla tutte le donne che incontrava. Fu in quei giorni che si stabilì tra noi un’amicizia destinata a durare per tutto il corso della nostra esistenza e che ancor oggi, benché ormai vecchi e stanchi, ci unisce fraternamente. Io lo aiutavo nei compiti di casa perché sin da allora la sola vista di un libro gli dava la nausea, e lui a sua volta mi insegnò la lotta e il pugilato, come si pesca la trota nell’Adur, e come si accalappiano i conigli sulle colline di Ditchling, perché quanto il suo cervello era pigro altrettanto svelte per contro erano le sue mani. Era maggiore di me di due anni, tuttavia, cosicché molto prima che io avessi terminato la mia istruzione, già lui se n’era andato ad aiutare lo zio alla fucina.

    Friar’s Oak si trova in una conca dei Downs, e proprio nei pressi del villaggio sorge la quarantatreesima pietra miliare tra Londra e Brighton. Non è che un villaggetto di poche case di mattoni rossi, circondate ognuna dal proprio pezzo di giardino minuscolo e raggruppate intorno a una chiesa coperta d’edera e a una bella canonica. A una estremità del paese c’era la fucina di Harrison, all’estremità opposta la scuola del signor Allen. Il villino giallo, lievemente discosto dalla strada, dal piano superiore sporgente e ornato di un intreccio a listarelle di legno nero inserite nello stucco, era quello nel quale noi abitavamo. Ignoro se esista ancora, ma credo di sì, poiché non sembrava un luogo destinato a subire molti mutamenti.

    Proprio di fronte a noi, sul lato opposto della larga strada bianca, sorgeva la Taverna di Friar’s Oak, tenuta ai miei tempi da John Cummings, il quale godeva di una reputazione eccellente in casa propria ma andava soggetto a strani eccessi allorché viaggiava, come si vedrà in seguito. Benché lungo la strada si avvicendasse un fiume incessante di traffico, le vetture provenienti da Brighton erano ancora troppo fresche per fermarsi al nostro villaggio e quelle provenienti da Londra troppo impazienti di raggiungere la loro destinazione, cosicché, se non fosse stato per qualche tirella spezzata di quando in quando o per qualche mota allentata, l’oste avrebbe dovuto contare, per tirare avanti, unicamente sulle gole assetate del paesetto. Erano quelli i giorni in cui il principe di Galles aveva da poco costruito a Brighton il suo curioso palazzo in riva al mare; perciò da maggio a settembre, cioè durante la stagione, passavano giornalmente davanti alla nostra porta, in mezzo a un fragore di ruote e uno scalpitare di cavalli, almeno duecento tra carrozzini, calessini di posta e vetture padronali. Quante sere d’estate abbiamo trascorso sull’erba, Jim e io, a osservare il passaggio di quei gran signori del bel mondo, acclamando a gran voce i cocchi londinesi che sfrecciavano via velocissimi tra nugoli di polvere e squilli di trombe, con i cocchieri impettiti a cassetta nei loro cappellucci a tricorno, e i volti scarlatti al pari delle loro livree! Di solito i passeggeri ridevano, quando Jim li salutava con voce tonante, ma se avessero indovinato tutta la forza nascosta nelle sue membra robuste, benché ancora in formazione, e nelle sue ampie spalle, forse lo avrebbero guardato meglio e gli avrebbero restituito il saluto.

    Il Giovane Jim non aveva mai conosciuto né il padre né la madre ed era sempre vissuto con lo zio, Harrison il Campione. Harrison era il fabbro di Friar’s Oak e si era guadagnato quel soprannome durante un combattimento contro Tom Johnson quando questi deteneva la cintura di campione britannico, e certamente lo avrebbe battuto se i magistrati del Bedfordshire non avessero fatto di tutto per interrompere l’incontro. Per vari anni non vi furono incassatori e picchiatori che potessero superare Harrison benché egli sia sempre stato, così mi sembra, piuttosto lento di gambe. Finalmente, in un incontro con Baruk il Nero, l’ebreo, terminò il combattimento con un colpo così fulmineo che non soltanto mandò a finire l’avversario fuori delle corde, ma per oltre tre settimane lo lasciò tra la vita e la morte. In tutto quel tempo Harrison fu come pazzo, attendendosi da un’ora all’altra di sentirsi intorno al collo la stretta di un messaggero di Bow Street e di essere condannato alla pena capitale. Questa esperienza, unita alle preghiere della moglie, gli fece abbandonare per sempre il ring, inducendolo a usare la forza dei suoi muscoli nell’unico commercio in cui sembrava potergli offrire un vantaggio. Si potevano concludere parecchi buoni affari a Friar’s Oak, tra il passaggio del traffico e gli agricoltori del Sussex, tanto che Harrison divenne in breve l’uomo più ricco del villaggio, e soleva recarsi in chiesa tutte le domeniche, accompagnato dalla moglie e dal nipote, con l’aspetto del più rispettabile padre di famiglia che si possa immaginare.

    Non era alto di statura, e molti dicevano che se avesse avuto un pollice di più di altezza neppure Jackson o Belcher nella loro forma migliore sarebbero riusciti a fargli le scarpe. Aveva un torace che pareva una botte, e avambracci come non ne ho mai visti, con profondi solchi tra un muscolo e l’altro, che parevano altrettanti pezzi di roccia corrosi dal logorio dell’acqua. Ma nonostante la sua forza immensa era un uomo mite, ossequioso, buono, tanto che nessuno in tutta la contrada era più amato di lui. Il suo volto placido, un po’ pesante, sempre accuratamente sbarbato, poteva assumere però un’espressione assai minacciosa, come ebbi occasione di constatare più volte; ma per me e per ogni altro ragazzo del villaggio c’era sempre un sorriso sulle sue labbra e un saluto amichevole nei suoi occhi, e tutti i mendicanti della regione sapevano per esperienza che Harrison aveva il cuore tenero quanto erano duri i suoi muscoli.

    Non vi era nulla che gli piacesse quanto il discorrere dei suoi antichi incontri; però si fermava immediatamente non appena vedeva arrivare la moglie, poiché la sola grande ombra che minacciasse l’esistenza di lei era la costante paura che un giorno o l’altro il marito buttasse mazza e raspa per correre di nuovo sul quadrato. E dovete pensare e rammentare una volta per tutte che a quei tempi la professione del pugile non si trovava nello stato di degradazione nella quale piombò in seguito. A poco a poco, infatti, l’opinione pubblica finì con l’avversarla per il fatto che essa venne a cadere quasi completamente nelle mani di persone disoneste, favorendo vigliaccherie e imbrogli. Così come accade intorno al nobile purosangue, l’impostura e l’inganno erano fatalmente attirati dall’onestà e dalla prestanza del pugile valoroso per sfruttarlo ai propri loschi fini. Ecco perché il ring sta oggi morendo in Inghilterra, e dobbiamo augurarci che quando Caunt e Bendigo saranno scomparsi non vi sia nessuno a prendere il loro posto. Ma nei tempi di cui parlo le cose erano assai diverse. L’opinione pubblica favoriva ed esaltava l’arte del pugilato, e ne aveva buon motivo. Era quella un’epoca guerriera, in cui l’Inghilterra, con un Esercito e una Marina composti soltanto di volontari desiderosi di combattere unicamente perché sentivano ribollire dentro di sé l’ardore della lotta, doveva affrontare, come potrebbe essere chiamata ad affrontare oggi ancora, una potenza che grazie a una legislazione dispotica era sempre pronta a tramutare ogni cittadino in soldato. Se il popolo non fosse stato animato da questa sete di combattere è certo che l’Inghilterra avrebbe finito con l’essere sopraffatta. Ed è altrettanto certo che duelli siffatti, tra due uomini indomabili, trentamila persone che stavano a osservarli e tre milioni a discuterne, aiutarono parecchio a creare un esempio di resistenza e di tenacia. Era uno spettacolo brutale, senza dubbio, che aveva come ultimo e unico fine la brutalità, ma uno spettacolo sempre meno brutale della guerra. Ora, se sia logico insegnare agli uomini a essere pacifici in un’età in cui la loro stessa sopravvivenza può dipendere dalle loro capacità guerriere, è un problema di cui lascio la soluzione a cervelli più profondi del mio. Ma questo è quel che noi ne pensavamo ai tempi dei vostri nonni ed ecco perché si potevano vedere agli angoli del quadrato statisti e filantropi della forza di un Windham, di un Cox, di un Althorp.

    Il solo fatto che gente di quello stampo proteggesse l’arte del pugno era motivo sufficiente per prevenire gli imbrogli che vi si insinuarono in seguito. Per oltre vent’anni, ai tempi di Jackson, di Brain, di Cribb, dei Belcher, di Pearce, di Gully e di tutti gli altri, i dominatori del quadrato erano uomini la cui onestà era al di sopra di qualsiasi sospetto; e quello fu appunto il ventennio in cui il quadrato servì forse, come ho detto, la causa nazionale. Già sapete come Pearce salvò da una casa in fiamme una ragazza di Bristol, come Jackson si guadagnò il rispetto e l’amicizia degli uomini migliori del suo tempo, come Gully si elevò fino a ottenere un seggio nel primo Parlamento Riformato. Questi erano gli uomini che davano l’esempio, e dalla loro professione scaturiva un monito inequivocabile, che cioè né un ubriacone né uno scioperato poteva a lungo durarci. Senza dubbio vi erano tra loro alcune eccezioni... i prepotenti come Hickman e i bruti come Berks, ma nel complesso ripeto ancora una volta che erano tutti gente onesta, coraggiosa e tenace sino all’inverosimile, e che onorarono il paese che li aveva generati. Come vedrete in seguito, mi fu concesso di assistere a qualcuna delle loro imprese, e se vi parlo di loro è perché le mie esperienze in proposito sono di prima mano.

    Posso assicurarvi che nel villaggio eravamo tutti molto orgogliosi di avere in mezzo a noi un uomo dello stampo di Harrison il Campione, e se qualche forestiero si fermava alla taverna non mancava mai di spingersi fino alla fucina per conoscerlo di persona. Del resto ne valeva veramente la pena, soprattutto nelle notti d’inverno, quando il rosso chiarore della fornace si rifletteva sui suoi muscoli possenti e sul volto altero del Giovane Jim, mentre insieme picchiavano e martellavano un vomere incandescente tra uno sfarfallio di scintille a ogni colpo. Harrison soleva battere una sola volta con la sua mazza da trenta libbre e Jim due volte col maglio, e ogniqualvolta risuonava il loro clunk-clink, clink! Clunk- clink, clink!, io mi mettevo a correre per la strada del villaggio nella speranza, dal momento che erano entrambi occupati all’incudine, di trovare un posticino per me ai mantici.

    Una sola volta, in quegli anni al villaggio, rammento di aver visto Harrison darmi per un attimo la prova dell’uomo che era stato. Accadde un mattino d’estate. Mentre Jim e io eravamo in piedi sulla porta della fucina, ecco giungere da Brighton un equipaggio privato trainato da quattro cavalli freschi, tutto scintillante d’ottoni, il quale passava rapidissimo tra un così allegro tintinnio di campanelli che il Campione uscì di corsa per vederlo, con un ferro di cavallo a metà finito tra le tenaglie. Il cocchio era guidato da un gentiluomo in cappa bianca – li chiamavano corinzi a quei tempi – e una mezza dozzina di pari suoi gli sedevano dietro ridendo a squarciagola. Forse il guidatore fu colpito dall’imponenza dell’aspetto del fabbro, forse agì per pura sventatezza, o forse si trattò di un semplice caso, ma il fatto è che, nel passare, l’estremità della lunga frusta sibilò vicinissima a noi e s’intese sul grembiule di cuoio di Harrison lo sguiscio di una secca sferzata.

    «Ehi, padrone!», gridò il fabbro. «Non ci si può fidare di voi, a cassetta, se non sapete tener meglio la frusta in mano».

    «Che c’è?», gridò di rimando il guidatore fermando di colpo l’equipaggio.

    «Vi ho detto di fare attenzione, altrimenti tra poco sulla strada dove passerete voi ci sarà qualcuno cieco di un occhio».

    «Oh, davvero», ironizzò il guidatore posando la frusta nella scanalatura e togliendosi i guanti di guida. «Voglio scambiare due chiacchiere con voi, bello mio».

    I gentiluomini sportivi a quei tempi erano quasi tutti ottimi pugili, poiché era di moda allora prendere lezioni di pugilato da Mendoza, esattamente come qualche anno dopo non vi era nessun zerbinotto di città che non incrociasse i guantoni con Jackson. Consapevoli delle proprie capacità, non rifiutavano mai gli incerti di un’avventura imprevista, e accadeva di rado che un barcaiolo o un Marinaio avessero molto di che vantarsi dopo uno scontro con un giovane aristocratico.

    Quello di cui parliamo scese di cassetta con la sveltezza di chi non nutre dubbi sull’esito del litigio, e dopo aver appeso il mantello al bilancino della carrozza si rimboccò con eleganza i polsini di pizzo della camicia bianca di cambrì.

    «Ti pagherò il disturbo, amico», disse.

    Sono sicuro che i compagni a bordo dell’equipaggio sapevano perfettamente chi fosse il corpacciuto fabbro e dovevano considerare uno scherzo impagabile la vista dell’amico che s’avviava verso un trabocchetto di quella fatta. Si misero perciò a urlare di gioia rintronandogli le orecchie con suggerimenti e consigli.

    «Fagli giù un po’ di fuliggine, Lord Frederick!», berciavano. «Servigli la colazione, a quella recluta. Sbattilo nella sua brace! Picchia sodo e fa’ presto, se non vuoi che scappi».

    Incoraggiato da quelle grida il giovane aristocratico avanzò verso il suo uomo. Il fabbro era rimasto immobile, ma la bocca gli si era fatta dura e cattiva, mentre di sotto alle irsute sopracciglia gli occhi gli luccicavano di una vivida luce verde. Aveva lasciato cadere le tenaglie e le sue mani penzolavano libere.

    «Attento, padroncino», disse. «Le buscherete sode se non state in guardia».

    Qualcosa nel tono sicuro di quella voce, qualcosa in quel tranquillo atteggiamento avvertì il giovane lord del pericolo che lo minacciava. Lo vidi fissare attentamente l’avversario mentre al tempo stesso braccia e mascella gli ricadevano inerti.

    «Perbacco!», esclamò, «ma tu sei Jack Harrison!»

    «In persona, padrone!»

    «E io che ti avevo giudicato un qualunque zoticone dell’Essex! Perbacco, non ti ho più visto dal giorno che per poco non mandasti all’altro mondo

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