Il professore e la strega
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Il Male, il Bene, lo Spirito, la Carne, la Verità e la Menzogna vi si muovono da protagonisti, come in una sacra rappresentazione medievale.
Il Professore, novello Odisseo, ha ben chiaro quale sia l’itinerario che porta alla salvezza ma ha sperimentato che negli abissi oceanici s’aggirano sempre un’Orca, una Piovra gigante, una Moby Dick, pronti a risalire in superficie quando meno te l’aspetti, per tenderti un agguato mortale.
Lui resiste con le armi dello studio, dell’ironia, dell’umorismo spassoso.
Alla lotta si accompagna però il profondo amore non solo per il suo insegnamento e per la Grecia che da sempre lo ispira, ma anche e soprattutto per le persone belle che ha avuto la fortuna di incontrare: amici, studenti e colleghi straordinari.
Da questo deposito di ricchezza potrà sorgere un sole nuovo per la Scuola e per il Paese: non a caso l’ultima parola del libro è “Rinascimento”.
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Anteprima del libro
Il professore e la strega - Andrea Del Ponte
Cap. I
Professore
Si alzò in piedi per primo Giovanni, il ragazzo con l’alopecia, a labbra strette e ben diritto sulle gambe. Il cranio tondo e pelato poteva ricordare in quel momento un elmo di oplita ateniese; il suo sguardo mi fissava intenso ed enigmatico. Dalla seconda fila si alzò Roberto, tarchiato e pesante. Con un lieve fruscio della gonna si levò poi alta e snella Federica.
Dritta stette, aspettandolo: e fu in dubbio Odisseo
se, le ginocchia afferrandole, pregar la fanciulla occhi belli,
o con parole di miele, fermo così, da lontano,
pregarla che la città gli insegnasse e gli desse una veste.
Sì, anch’io ero nudo, lacero e sporco come Odisseo, sbattuto naufrago dalle onde sulla riva. Il mio Poseidone feroce era stato alcuni giorni prima il dirigente del mio liceo, un omone grezzo e scortese. No, anzi: il paragone con il dio del mare sarebbe del tutto ingiusto. Simile a Polifemo, piuttosto: il mio Polifemo, ottuso gigante il cui unico occhio certifica la trucida pochezza del suo intelletto, era un tal Pisciatelli. Peccato che Omero non ci abbia descritto le colossali pisciate che evidentemente doveva fare il suo enorme personaggio. Ma già, l’epica non prevede questi dettagli eroicomici. Il mio Pisciatelli invece mi aveva da poco teso una trappola del tutto imprevista durante un consiglio di classe, sostenuto da una perfida Circe dagli occhi di ghiaccio e dalle labbra sottili: una creatura mitologica crudele. Aveva orchestrato una sorta di interrogatorio punteggiato di capi d’accusa da manuale, imputandomi eccessiva severità, eccessive pretese, eccessivi approfondimenti della materia, così da ingenerare ansia negli studenti.
« Vero, signora, che i ragazzi sono ansiosi a causa del professore? »
Gli interrogatori possono esser suddivisi in tre tipologie a seconda della finalità:
ottenere informazioni;
convertire / rieducare;
piegare la volontà.
Certamente erano gli ultimi due gli obiettivi che si proponeva, agitando le grosse mani sudate e ponendomi stringenti domande in tono ultimativo per ottenere la resa: che arrivò soprattutto quando l’algida bionda confermò con acido tono di voce ogni rilievo più aspro ( « Eccome, signor Preside, vanno a letto tardissimo per studiare latino, dormono male e si alzano da letto già stanchi».), sogghignando soddisfatta per l’umiliazione cui ero sottoposto. Aggiunse, tagliente e sprezzante:
« Caro prof, si ricordi che gli esami non finiscono mai! »
La Schadenfreude è un'emozione di gioia di fronte alla sfortuna di qualcun altro, e può trovare radici e impulso nella gelosia, nella competitività, e talvolta addirittura nell'odio.
Ne parlano anche Aristotele e Plutarco: « L’invidia è il tormento di fronte ai beni altrui, mentre la malignità è il piacere che si prova davanti ai mali altrui; entrambe sono figlie di una passione crudele e selvaggia, la cattiveria. »
Fatto sta che il mio crollo psicologico fu, sul momento, totale.
La sera dell'8 settembre 1943 tocca nuovamente al maresciallo Badoglio leggere alla radio un proclama che annuncia al paese l'armistizio tra Italia e Alleati. L'accordo viene reso noto solo dopo pesanti pressioni da parte anglo-americana: gli Alleati, infatti, pretendono che il governo italiano smetta di tergiversare e annunci la resa dell'Italia, e di conseguenza circa un'ora prima del proclama badogliano la notizia dell'armistizio è diffusa dalla radio alleata di Algeri.
« Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.
La richiesta è stata accolta. »
L’indomani, presentandomi alla classe, mantenni un comportamento volutamente abulico, totalmente estraneo alla mia consueta passionalità e brillantezza nelle spiegazioni, e lo stesso feci nei giorni seguenti. Mi limitavo a leggere con tono neutro e strascicato brevi pagine sul libro di testo, ripetendo più volte le informazioni anche più semplici in modo piatto ed elementare. Gli occhi erano spenti, le parole provenivano da un’anima morta, e nella sua morte comunque sarcastica. Chiedevano un insegnamento insulso? L’avrebbero avuto, in tutta la sua più misera veste.
ETIMO: dal lat. insŭlsu(m), composto di in- con valore privativo e l’aggettivo salsus salato, spiritoso
.
Sinonimi: fatuo, insignificante, insipido, vuoto. Contrari: interessante.
Dunque una mattina, con un lieve fruscio della gonna si levò alta e snella Federica, nel bagliore dei suoi lunghi capelli biondi. E poi Antonio, e Marco, e Paola, e Serena, e Marianna, in un crescendo che contrastava con la mia immobilità stupefatta. Stava accadendo qualcosa di straordinario, stava riproducendosi davanti ai miei occhi la scena finale, struggente e indimenticabile, di L’attimo fuggente , e io ero Robin Williams.
O Capitano! mio Capitano! il nostro viaggio tremendo è finito,
la nave ha superato ogni tempesta, l’ambito premio è vinto,
il porto è vicino, odo le campane, il popolo è esultante…
Dopo alcuni secondi di silenzio, con tutta quella folla di giovani uomini e di giovani donne che mi fissavano in silenzio, prese la parola l’oplita:
« Professore, le chiediamo tutti di ritornare quello che lei è. Bravo a spiegare, capace, esigente. Non sopportiamo più di vederla così spento. Ci pare di essere presi in giro. A noi piace studiare con lei, affrontare gli impegni, imparare. Torni per favore a insegnare come prima, noi la seguiremo. E non si preoccupi di quello che dicono gli altri. »
Oh, happy day
(Oh, happy day)
Oh, happy day
(Oh, happy day)
When Jesus washed
(When Jesus washed)
When He washed
(When Jesus washed)
When He washed
(When Jesus washed)
My sins away, yeah
(Oh, happy day)
« Grazie, ragazzi. Grazie. E ora riprendiamo a studiare sul serio la letteratura latina. Ripartiamo da Virgilio. »
Ne venne fuori la lezione più bella della mia vita.
In quell’occasione scoprii con certezza che io ero il professore. Chiunque sia o sia stato mio studente sa bene che respingo il nomignolo prof , che pure a tanti altri è molto gradito quale segno di affettuosa confidenza. Ho troppo studiato e troppo sofferto per rinunciare a quelle dieci lettere in cui si condensano la mia persona pubblica e il mio io intellettuale. L’autorevolezza deve avere un suo corrispettivo nominale.
Si ubriaca prima di entrare in classe, insulta la prof e collassa.
Molestie sull’alunna di 11 anni: prof di musica condannato a 2 anni.
Picchiare i prof ormai è sport nazionale.
Il papà scappa dai domiciliari e picchia il prof.
Studente modello querela il prof che gli rovina la media.
Posso andare in bagno prof? Ma prof, non è giusto…
Prof muore a scuola dopo la lezione.
Prof sempre fu e prof morì. Sit ei terra levis. Riposi in pace, povero prof.
Il nomignolo, di cui si compiace la stampa cialtrona, è troppo spesso associato a una situazione scolastica di degrado, di faciloneria, di approssimazione nel complesso rapporto tra maestro e discepolo. Sì, perché noi insegnanti siamo maestri, magistri , cioè educatori che sanno di più
, magis in latino; e gli alunni sono discipuli perché imparano
, discunt . E professore
significa che professa la conoscenza della sua materia
. E dunque combatte contro l’ignoranza e la rusticità di ogni Polifemo.
Cap. II
IN GRECIA
Se vado indietro nel tempo con la memoria, scopro di aver avuto la fortuna di incontrare persone straordinarie che mi hanno segnato nell’intimo con lo stigma della loro superiorità, regalandomi la percezione della mia minorità e mantenendo alto il livello della mia lotta interiore.
Era l’estate del mio primo anno di scuola come insegnante di greco e latino in un ginnasio. Traboccante e quasi ebbro di lingue antiche, avevo deciso di trascorrere due settimane di vacanza in Grecia, direttamente nella culla della bellezza del sapere, in quella terra magica dove gli uomini sono ànthropoi e il mare è thàlassa .
In piedi a fianco della cattedra stava l’interrogato in una luminosa mattinata di aprile. Dalle finestre aperte si udiva frangersi il mare sugli scogli, cantando la sua eterna canzone. Il ragazzino, sudato e torcendosi le mani, cercava di riunire tutte le facoltà della sua memoria ripetendo la declinazione di thàlassa, mare
.
« Thàlassa, thàlassas, thàlassa… » .
« No D’Arrigo , stai sbagliando sia le desinenze che gli accenti. Ascolta e riprova: è come il flusso e il riflusso delle onde, avanti e indietro: thàlassa, thalàsses, thalàsse, thàlassan, thàlassa… Thàlassai, thalassòn…: senti il genitivo plurale? Un’ondata più forte ha sbattuto sugli scogli e ha fatto rumore ».
Scelsi di fare il viaggio nel modo più tradizionale possibile, alla maniera degli antichi, come Cicerone ogni volta che si recava in Grecia per ragioni di studio o quando seguì Pompeo nella sua precipitosa fuga dall’Italia, incalzato da Cesare: prima una lunga discesa a sud fino a Brindisi, porta dell’Oriente, e poi in traghetto fino a Igoumenitsa, porta dell’Epiro; da qui, con un pullman, avrei raggiunto Atene con un ulteriore trasferimento di sei ore. M’incantavo a studiare sulla cartina l’itinerario che avrei percorso, a leggere i nomi affascinanti e misteriosi che avrei incontrato per via: Ioànnina – peccato che l’avrei evitata per poco -, Pènde Pigàdia, il ponte tra Andìrrion e Rìon, Rhododàfni, Dervèni, la magica Corinto, Mègara… e infine l’arrivo trionfale nei luoghi della seconda guerra persiana: Eleusi, lì di fronte l’isola di Salamina, poi finalmente l’Attica!
Già a Brindisi sentivo l’emozione che dà una terra lontana e diversa, come straniera: i moli bassi e sproporzionatamente lunghi, come in attesa di flotte imperiali smarrite nel tempo, le scalinate bianchissime e deserte, la superstite colonna romana che si ergeva nel silenzio di un mezzogiorno accecante, qualche vecchia fasciata di nero nell’ombra di un àndito, insondabili gatti acciambellati accanto a vasi di fiori sui balconi. Per la partenza avevo scelto la soluzione più economica e spartana del passaggio ponte
, rinunciando a priori alle comodità della cabina o della poltrona numerata. La Grecia avrebbe dovuto ricevermi come un devoto pellegrino, a piedi nudi e con una veste di sacco sulle spalle.
L’incontro con il traghetto mi riservò non poche sorprese, per la maggior parte spiacevoli: mi ero trovato in mezzo a una calca sudata e sgomitante, inspiegabilmente ansiosa di salire su un’invereconda bagnarola rugginosa, che dalla ciminiera sputava un fumo nero e puzzolente che, quando il vento era contrario, intossicava i polmoni. Salendoci, in mezzo a un’umanità variegata tra cui circolavano le lingue più improbabili, mi colpì l’assoluta mancanza di legno o di plastica nella struttura: tutto era invariabilmente fatto di un ferro cigolante, che risuonava fragorosamente sotto i piedi di chi si avventurava su e giù per le scalette che conducevano ai vari livelli. Inesperto, trovai già occupati tutti i possibili posti dove sistemarsi con maggior agio durante la navigazione, come sedie e divanetti: dopo due o tre giri per la nave, che sapeva di un misto di salsedine e di fuliggine, finii per rassegnarmi a sedere per terra con il mio zaino e il mio sacco a pelo, su una sorta di indefinibile linoleum marrone tutto slabbrato e marcio ai margini. La partenza fu lenta e laboriosa, con manovre di retromarcia e di aggiustamento di rotta che pareva dovessero costare molta pena e fatica al vetusto natante, che tremava tutto mentre i motori venivano sollecitati, e che dalla ciminiera sembrava dover rendere l’estremo respiro. Finalmente fummo in mare aperto, le case basse e chiare di Brindisi e i palmizi dei viali litoranei rimpicciolirono fino a sparire; e l’avventura ebbe inizio.
Tirai subito fuori dallo zaino il volume dell’Odissea, che avevo portato con me come viatico, e aprii una pagina a caso, certo che la sorte benevola e gli dèi ellenici mi avrebbero dato la giusta ispirazione. Gli occhi caddero sulla chiusa del libro nono:
Ma come, figlia di luce, brillò l’Aurora dita rosate,
allora spronando i compagni ordinai
di salir sulla nave e di scioglier la gòmena.
Subito quelli salivano e sui banchi sedevano,
e in fila seduti battevano il mare schiumoso coi remi.
Ecco, la mia fiducia era stata ricompensata: in quei versi, in cui il protagonista è Odisseo, forse si parlava di adesso, di quel viaggio per mare che stava portandomi alla mia patria spirituale, di quella schiuma che, se andavo a poppa, potevo vedere in doppia scia snodarsi serpentina nel mare, via via che il traghetto procedeva affannato verso oriente. Solo il momento della giornata era diverso: quel cielo nel quale il sole stava a poco a poco calando si sarebbe tinto, tra non molto, della luce aranciata del tramonto. Forse vi si parlava anche di me, del professore: certo, io ero solo in questo viaggio, non avevo compagni, ma mi riconoscevo in quell’attività dello spronare, anche del comandare; ripensavo alla mia aula battuta, in basso, dal mare e dal vento, alle file ordinate dei banchi, alla compostezza di quei miei alunni con la schiena e la testa china sul protocollo, a vergare diligentemente con le stilografiche i loro pensieri.
… Crescendo forse mi soffermerò a riflettere su quello che mi capita, su ciò che accade nel mondo e da sola troverò le risposte ai più gravi interrogativi che attraversano la mia mente, ma per ora, a quattordici anni, ho ancora bisogno di qualcuno che mi spieghi come fare, che mi parli delle esperienze che fanno sentire veramente che qualcuno o qualcosa ci governa, che una potenza superiore e infinitamente buona sovrasta le nostre azioni ed è pronta ad aiutarci e a mostrarci la via se necessario, cioè quando tutto attorno ci pare estraneo e buio e ci sentiamo come una piccola barchetta in balia degli alti flutti del mare in tempesta . Elena L.
All’avvicinarsi della sera vidi con orrore emergere dalle fessure del pavimento schifose blatte brunastre che si misero a correre forsennatamente lungo gli spigoli, eccitate forse dall’odore di unto e di fritto che saliva dalle cucine. Mi ritirai disgustato in una sala interna, dove fortunosamente trovai una sudicia poltrona libera, e lì mi addormentai.
Avevo già acquisito delle conoscenze di lingua greca moderna, di cui mi avevano stupito alcune caratteristiche oltremodo singolari: la dominanza assoluta del suono i
, per cui qualche volta pare che la parlata dei Greci voglia imitare il fischio di un treno o il trillo incomprensibile di un fringuello: fititìs è lo studente universitario e ghì è la terra. Vi immaginate? « Ghì, ghì! , Terra, terra! » esclamano i naufraghi. Oppure la mancanza di lettere per indicare certi suoni, come b
, dato che beta
si pronuncia v
: con il risultato che per esprimere b
si ricorre all’artificio grafico di unire m
a b
: mpampàs è il papà, babàs
.
Ma in Grecia andavo munito innanzitutto del tedesco, la lingua con la quale qualche anno prima avevo stretto amicizia con un gruppo di ragazzi greci conosciuti durante un soggiorno internazionale di studio in Germania. La sintonia con quei coetanei era stata immediata, molto più che con quelli di altri Paesi. Mi univa a loro la vivacità di idee, la schiettezza, lo scintillio dello sguardo durante le nostre rapidissime intese. Avevamo fatto parèa , come dicono loro, cioè compagnia, squadra
. Ora sarei andato a trovarne alcuni, avremmo trascorso di nuovo un po’ di tempo assieme, mi avrebbero introdotto in quella loro patria amatissima e difficile.
Mentre il pullman, nella livida luce che precede l’alba, si addentrava nel primo anello della periferia ovest di Atene, percorrendo a strappi la mostruosa Leophòros Athinòn, che taglia i due quartieri di Chaidàri e di Peristèri con la stessa violenza con cui un machèri spacca un’anguria, mi colpì l’ininterrotta sequenza di sgangherate officine meccaniche che urlavano il loro Andallaktikà (ricambi
) vergato a mano su cartelli di tutte le fogge e dimensioni sistemati alla bell’e meglio, per dritto e per traverso, all’ingresso, accanto a vetture un tempo importanti, ma adesso ammaccate e rugginose.
Cinque anni prima era caduta la giunta militare di Papadòpoulos, che aveva consentito ai privilegiati (come gli armatori) di arricchirsi in modo spropositato, mentre intanto però l’inflazione era salita fino a oltre il 30%, generando vaste aree di povertà tra il popolo; la rinnovata democrazia di Karamanlìs stava cercando di riportare l’economia su parametri più accettabili, ma i suoi sforzi erano ostacolati sia dalla crisi petrolifera generata dalla cacciata dello Scià dall’Iran sia dalle spese militari dovute all’aspro confronto con la Turchia, che nel 1974 aveva occupato la parte nord di Cipro, stroncando il miraggio dell’ È nosis , l’unione politica dell’isola alla Grecia. E appena tre anni prima era morto Alexandros Panagulis, l’eroe della resistenza contro i colonnelli, che nel 1968 aveva fallito un attentato alla vita di Papadòpoulos, venendo condannato al carcere duro. Un misterioso e molto dubbio incidente automobilistico aveva poi troncato la sua vita tre anni dopo la sua liberazione, nel 1976.
Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano. Infatti non si alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole, sommergendole con l’implacabilità della lava che nel suo straripare divora ogni ostacolo, assordandole con il suo zi, zi, zi. Sottrarsene era illusione. Alcuni tentavano, e si chiudevano nelle case, nei negozi, negli uffici, ovunque sembrasse di trovare un riparo, non udire almeno il ruggito, ma filtrando attraverso le porte, le finestre, i muri, esso gli giungeva ugualmente agli orecchi sicché dopo un poco finivano con l’arrendersi al suo sortilegio. Col pretesto di guardare uscivano, andavano incontro a un tentacolo e ci cadevano dentro, diventavano anche loro un pugno chiuso, un volto distorto, una bocca contratta. Zi, zi, zi! E la piovra cresceva, si spandeva in sussulti, a ciascun sussulto altri mille, altri diecimila, altri centomila. Alle