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La schiava del Signore
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E-book296 pagine4 ore

La schiava del Signore

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Info su questo ebook

Pubblicato per la prima volta nel 1933, questo romanzo storico dai toni fortemente lirici racconta la drammatica parabola di una giovane ragazza senza nome. Nata schiava, come sua madre prima di lei, sembra destinata a una vita di servitù e di sottomissione prima nei confronti del padre, poi del marito e, infine, del suo stesso figlio.-
LinguaItaliano
Data di uscita1 ago 2022
ISBN9788728328446
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    Anteprima del libro

    La schiava del Signore - Ramón María Tenreiro

    La schiava del Signore

    Translated by Carlo Boselli

    Original title: La esclava del Señor

    Original language: Spanish

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1933, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728328446

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PRLOGO

    Ecce Antilla Domini.

    I

    «L’Angelo del Signore annunciò a Maria; E concepì dallo Spirito Santo». Ricordo bene. È quella di San Cosimo di Limia codesta campana che comincia a squillar dolcemente, perduta tra le fronde dei castagni, nella solenne pace della dorata agonia del vespro. Dall’altra riva le risponde languidamente quella di San Martino di Dorneda. Ora alza i suoi suoni, gravi e dominatori, la squilla del tempio della città. Poi, lugubre e funesta come nenia mortuaria, quella di Sant’Adriano; ingenua e candida come preghiera di bimbo, quella di San Mamed di Coroto… E nell’estatico silenzio crepuscolare, solo turbato dalle querule strida degli uccelli della ría, il tocco dell’Angelus si va spandendo a poco a poco dai campanili di Muniferral e di Chorio, di Soandres, della Cela e di Faramillans: semplice coro di preghiere villerecce a cui si associano unanimi la terra e il cielo nel mistico transito del giorno.

    Ogni campana suona per me in modo inconfondibile e le vado riconoscendo ad una ad una, quali accenti amati, non più riuditi da anni. E alla loro voce, come se per incanto si cancellasse tutto ciò che m’accadde in quegli anni di lontananza (la mia vita intera!), mi par di tornare al tenupo beato in cui il loro suono mi cullava… In questo dolce languore del pomeriggio primaverile, respirando le fragranze campestri in mezzo alle quali alitarono per la prima volta i miei polmoni, contemplando su questo chiuso panorama della ría e delle montagne i sanguigni riflessi del tramonto, e ascoltando, insieme con le lamentose voci degli uccelli marini, la malinconica orazione delle campane, torno a vivere a un tratto con l’innocenza, la semplicità e l’allegria dei miei anni infantili, e mi pare che tutto quanto avvenne poi — miserie, dolori — non sia che un brutto sogno, e che il mio vero essere sia rimasto qui, come ammaliato, nell’umile casetta familiare, mentre io nel mondo soffrivo mali senza fine. Con la mia anima di bimba, e con voce pur quasi di bimba sulle labbra appassite, mormoro rispondendo all’invito delle campane: — Ecco l’ancella del Signore. Sia di me secondo la tua volontà…

    Sì. Tutto passò come un sogno. Ma qual sogno, e quali ambasce, e quante lagrime! Tutto è ormai passato, e nulla più rimane. Suona l’orazione nella mia valle natia, e la sua voce mi ridona, dopo tant’anni, il mio vero essere. Tutto è ormai dimënticato, perdonato. Oh, se il Signore, nella sua bontà, volesse dare a quanti m’han fatto soffrire la pace che a me ha concesso! A tutti, a tutti! Da parte mia ho loro perdonato. Che dico? Perdonai sin dal primo momento. Voglio bene a tutti, e a tutti auguro le possibili felicità della vita… Per questo io non credo all’inferno. Che Iddio mi perdoni se ciò è peccato, ma per quanto io faccia, non posso credervi. Se io, piena di difetti, con le ferite ancòra sanguinanti, non son capace di desiderare un castigo a coloro che me le han prodotte, che cosa deve fare Iddio nostro Padre (nostro Padre!) nella sua infinita perfezione?…

    Ma no, no: bando a teologie. Allorché, per non esser testimone di quanto non ho potuto evitare, mi son decisa a ritirarmi con la mia nipotina in questa povera casa della mia infanzia (unico bene che mi rimane sulla terra), ho pur deliberato di occupare le mie solitarie veglie scrivendo la storia della mia vita, ed oggi stesso, prima che si estingua del tutto la luce che illuminò il mio arrivo, voglio scribacchiare le prime pagine del mio quaderno.

    Siamo arrivate stamattina. Abbiamo spalancato porte e finestre, scacciando dall’interno della casa un’oscurità e un ambiente che vi erano rinchiusi da oltre quarant’anni, insieme con chissà quanti fantasmi della vita d’allora. Dico scacciare?. In quest’ora di penombra, dopo tutt’una giornata di grande strapazzo, quando, addormentata la mia nipotina, mi siedo davanti al tavolo, non lungi dalla sua culla, accanto alla finestra aperta da cui contemplo come gli ori di ponente si vanno trasformando in cenere, mi par di udire tutti gli spiriti familiari della casa, che l’ebbero per loro durante tanto tempo, rientrarvi tacitamente a uno a uno. Che spavento debbono aver provato al nostro arrivo! Avranno passato la giornata pieni di paura, accovacciati fra le sterpaglie dell’abbandonato giardino. Ma, a poco a poco, mi avranno riconosciuta. -— To’! Ma è la nostra bimba! — si saranno detti… Ora si odono rumori strani nel gran silenzio crepuscolare della casa; scricchiolano pavimenti e mobili; si scuotono le chiuse porte, come se qualcuno le spingesse; s’indovina un soffocato susurro di parole e un cauto scivolar di passi per gli angoli delle sale tenebrose. Debbono esser qui intorno a me, leggendo di su le mie spalle ciò che vado scrivendo, i vecchi spiriti benevoli che mi accompagnarono nei primi anni. E perché io possa contemplare le antiche scene della mia infanzia, essi tornano a prestar loro vita, perfino nei più piccoli particolari. Non ho che da scrivere quanto mi dettano: essi sono il pensiero, io la mano.

    E mentre malinconicamente accarezzata dalle ali del ricordo, rivivo nella mente con grande tenerezza gli episodi della vita trascorsa, laggiù lontano, in messo al mondo ardente e rumoroso, si agitano frenetici i miei figli, in cerca di piaceri, di vanità, di fortuna…

    II

    Primo ricordo. Sono da poco stata ammalata. Come in un quadro, vedo dinanzi a me il mio lettuccio da bambina, e dentro vi scorgo me stessa. Dalla finestra aperta penetra la fresca brezza mattutina, satura di campestri fragranze primaverili. Là in alto, sul puro cristallo del cielo, passano lentamente alcune nubi bianche, gonfie, rotonde: luminose vele di invisibili navi solcanti l’azzurro. Tali almeno mi sembrano. E la più bella, è la nave di papà; la nave di papà che torna dall’Avana, carica di dolci e di frutta: banane, ananassi, guaiabe, pere americane, e in cima a tutto questo ben di Dio, una grande bambola negra. Perché papà mi ha promesso una bambola negra; e, con piacere misto a timore, attendo l’istante di stringerla fra le mie braccia. Riesce così chiara la visione, che non posso a meno di gridare:

    — Guarda, guarda, mamma. Ecco papà, eccolo!

    — Che dici, scioccherella?

    — Che arriva il bastimento di papà. Di qui lo vedo… Tutto pieno di ananassi dell’Avana e su in cima la bambola negra.

    — Ma di dove viene?

    — Là, dal cielo. Guardalo, guardalo! Sta per entrare dalla finestra.

    La mamma, con un fresco accappatoio di batista, si pettina i capelli dinanzi allo specchio. Le sue braccia levate in alto, braccia brune, sode e armoniose, spuntano ignude dal candore delle ampie maniche orlate di merletti, e maneggiano con abilità e destrezza le grandi onde della sua ricca chioma corvina, che, scossa quale incensiere, riempie di aromi la stanza. Frammezzo a quella cascata di capelli, spunta il suo sorridente volto, illuminato dallo splendore dei piccoli denti nella rosa di fuoco delle labbra, e si avvicina festevole al mio lettuccio.

    — Dove, dove lo vedi, sciocchina mia? — chiede scherzosamente.

    — Ora non più, mamma; ora se n’è andato. S’era affacciato alla finestra, ma siccome non gli siamo andati incontro, se n’è andato continuando la sua strada.

    Morendo dalle risa, siede su d’una seggiola bassa accanto al letto, sulla quale si sparge, quasi coprendola, il profumato fascio di capelli. Come olezzano, Dio mio! Sollevandomi sul guanciale, affondo le manine in quella deliziosa matassa di lunghe e seriche fibre, nascondendo il visetto nel tepore delle sue tenebre fragranti.

    — Cucù, mamma! Non hai più bambina. Non hai più bambina. È andata via col papà e con la bambola negra sul bastimento che è passato dalla finestra.

    — Ma come? Dov’è andata quella birbona? Lasciami, che se la.trovo!…

    Ma non mi trova. Le sue mani, piccole e fini, vanno palpando e accarezzando il mio delicato corpicino attraverso le lenzuola. Io sopporto eroicamente il sollético, trattenendo il riso quasi a soffocare. Mammina va dicendo, come se parlasse fra sé:

    — È proprio vero che non c’è. Nossignore, non c’è. Questo è il pancino del gatto, queste le zampine del gatto, questo…

    Mezzo soffocata dalle risa, ebbra dell’aroma de’suoi capelli, raggiante di gioia, levo il mio acceso volto dal seno della sua capigliatura, come un nuotatore dall’acqua dopo un tuffo.

    — Dunque eri qua e non lo dicevi! Dunque mi ingannavi, furbacchiona! Vediamo, vediamo un po’ codesto culino, che te lo faccio diventar rosso come un pomodoro.

    E con viso grottescamente arrabbiato finge di volermi picchiare. Io mi torco nel letto difendendomi, rido come una pazzerella per il sollético che mi va facendo. Anch’essa ride a crepapelle, ma ecco che a un tratto rimane immobile e grave.

    — No, no; non possiamo giocare così. Diventi tutta nervosa, ti ritorna la febbre e poi viene il medico e mi rimprovera, dicendo che sono più bambina di te e che la colpa è mia. Sta quieta! Vado a finire di pettinarmi.

    Si rimette dinanzi allo specchio, e con dilettosa lentezza, sorridendo alla propria immagine, torna a districare col pettine la lunga massa di capelli, che le arrivano quasi ai garetti: li unge e li acconcia con gli aromatici prodotti racchiusi nelle boccette del suo gabinetto di toeletta; li divide in tre fasci, che di nuovo pettina e ripettina indefinitamente; tesse infine con tutti e tre una treccia così grossa da non poterla stringere nella mano, ravvolge a guisa di corona in alto sulla testa, sostenendo a furia di forcine una così lieve pompa; aggiusta e perfeziona con graziose toccature del pettine e delle mani l’ondulazione dei capelli, i riccioli della fronte e della nuca.

    Mentre io la guardo estasiata, finisce di pettinarsi e torna a sedere sulla seggiolina accanto a me.

    — Dio mio, piccina, come hai il letto! Sfido, non stai mai quieta! Si direbbe che son venuti qui ad azzuffarsi tutti i cani del quartiere! Non muoverti, che ora ti aggiusto le lenzuola… Ecco fatto qui sotto… Adesso la rimboccatura. Bene… Speriamo che duri… Vediamo ora un po’ come va codesta lingua, per sapere che cosa puoi mangiare a mezzogiorno. Tu, che vorresti? L’ombra d’un cappone?

    A un tratto, nel giardino, ai piedi della finestra, comincia a risuonare un coro di voci infantili. Non ne afferro le parole, ma la musica, lenta e malinconica, senza sapere perché, mi stringe il cuore. La mamma, come un uccellino, balza dal mio lettuccio alla finestra.

    — Ah! è calendimaggio! — esclama con giubilo. — Salite pure, bambine; salite a farvi vedere dalla mia piccina.

    Io vorrei protestare, non vorrei vederle, ma non ne ho il tempo, perché mia madre ha aperto l’uscio del corridoio, ed ecco entrare non so quante bimbe fra gli otto e i dieci anni, con abiti lindi e festaioli, corone di fiori sui disciolti capelli, ghirlande sulle gonne e mazzolini di rose e di lilla sul petto e fra le mani. In mezzo a loro v’è una bimbetta piccola, bionda e rosea, vestita di raso bianco, con un lungo velo di tulle sotto la coroncina di rose, e con collane, catenelle, ciondoli appesi al collo. Con tutto quel che porta indosso stenta a muoversi, e pare un idoletto piuttosto che una creatura viva. La mettono in mezzo alla stanza, e formando un cerchio, ricominciano la loro monotona salmodia, girando intorno alla piccina a passi lenti e gravi, come in una danza liturgica. Muovendosi, spargono al suolo i petali che si staccano dalle loro acconciature.

    — Ecco che viene il bel maggio

    tutto vestito di fiori…

    Ma io non posso contenermi oltre. Una pena incomprensibile, mista di timore e di vergogna, mi riempie di singhiozzi la gola; mi copro la testa con le lenzuola, e nella tepida ombra piango inconsolabile per non so quali remoti e oscuri presagi, che mi recano con le loro danze e i loro cantici quelle messaggere delle allegrie di maggio.

    III

    Papà, capitano della fregata Margherita, navigava costantemente la linea di Cuba, e non aveva che un mese di vacanza ogni anno per riposarsi dalle fatiche della vita di bordo, accanto alla moglie ed alla figlia.

    La nostra casa, piena di sole, circondata di fiori, ergesi sopra un’altura che domina il panorama della ría, a pochi minuti dalla porta più alta della città. Ai piedi del nostro giardinetto si distendono i grigi tetti di Somonte. Col primo denaro guadagnato mio padre aveva acquistato quel terreno, e poi a poco a poco, secondo lo spirar della fortuna, lo aveva cintato di muri, aveva fatto il giardino e l’ortaglia, costruito la casetta…

    Già dall’ingresso si intuiva come quella fosse la dimora d’un marinaio. La piccola fontana, che lanciava il suo grazioso getto di luminose e sonore perle dinanzi alla casa, era profusamente ornata di conchiglie e di chiocciole esotiche, con delicate sfumature incarnatine e madreperlacee, la cui fine soavità dava perfino invidia alle rose del giardino.

    Sotto il portone e sulle scale pendevano dalle pareti disegni ingenui e primitivi, nei quali i bastimenti su cui mio padre aveva navigato mostravano le varie caratteristiche dello scafo, deh l’alberatura e del cordame, avanzando a vele spiegate, con bandiere e gagliardetti issati sugli alberi, per un mare intensamente azzurro e increspato di onde simmetriche.

    La sala da pranzo, i corridoi e le camere da letto erano guarniti da incisioni rappresentanti vedute di Cuba e scene della vita cubana: «La baia dell’Avana alla luce della luna», «Dame avanesi in calesse», «Il giorno dei Re Magi presso i negri», «Combattimento di galli», «Pescatori di spugne a Nuevitas», «Dintorni di Baracoa».

    Quei quadri, familiari per me dacché avevo cominciato a rendermi conto di ciò che i miei occhi vedevano, e lungamente illustrati da papà in conversazioni indimenticabili, mi avevano dato sin dalla più giovane età la nostalgica visione di paesi meravigliosi, coperti da impenetrabili selve di strani alberi giganti, sapotiglie, acagiù, banani, palme da cocco, nei cui rami si aprivano fantastici fiori dai profumi inebrianti e maturavano le frutta più dolci, rare e succose; branchi di inquiete scimmie si trastullavano saltando d’albero in albero; garruli uccelli dai colori sgargianti si annidavano tra il fogliame; colibrì e insetti fosforescenti erano saette di luce sotto la penombra dei rami. E poi, nelle assopite e luminose città, belle dame avvolte in tulli prendevano il caffè distese indolentemente su amache; o passeggiavano la loro pigrizia in calessi e carrozzelle, fragili come zampe di ragno, negri spaventosi con occhi di bracia e denti abbaglianti fra le labbra gonfie, taciturni cinesi dallo sguardo trasognato e astuto a un tempo…

    Tutto quel mondo esotico visto come in sogno, acquistava per me un carattere precocemente sentimentale con la storia di Paolo e Virginia, svolta nei quadri che ornavano le pareti della sala, al disopra del severo mobilio di mogano, dalle teste di cigno intagliate nei braccioli dei seggioloni e del sofà. Mille volte la mamma doveva ripetere quel tenero racconto, al cui finale non arrivavamo mai senza che la voce della narratrice si appannasse di emozione e scaturisse dai nostri occhi una soave rugiada di pianto. Paolo e Virginia, bianchi, biondi, belli, lindamente vestiti di azzurro e di rosa nelle stampe, erano per me come carissimi fratelli, coi quali conversavo spesso a quattr’occhi. In uno dei quadri, Paolo attraversa uno spumeggiante ruscello, sotto la fronda tropicale degli alberi, saltando di roccia in roccia con Virginia fra le braccia; in un altro, perduti entrambi nella paurosa selva, vengono trovati dal negro Domingo, che guidato da Fido, il suo cane, arriva senza fiato al loro fianco; più in là alcuni negri selvaggi, illuminati da torcie a vento, portano attraverso il bosco, sulle robuste braccia, gli estenuati fanciulli per restituirli alle loro madri….

    Ma due dei quadri, quando papà era in viaggio, volgevano sempre la faccia alla parete. In uno, la fregata che conduce Virginia, bella come un gioiello, è infranta dalla furia delle onde contro le roccie della costa, sotto gli occhi del disperato Paolo; nell’altro, calmato l’uragano ed acquetato il mare, il negro Domingo trova Virginia come addormentata sull’arena della spiaggia, la bionda chioma sciolta, e nella rigida mano chiusa dalla morte, il medaglione col ritratto di Paolo. Per nulla al mondo mia madre voleva vedere scene simili, e i quadri rimanevano mesi e mesi mostrando la tavoletta del loro rovescio sino al giorno in cui papà, tornato, li rivoltava dal lato dritto fra celie e sghignazzate.

    Che gioia quella del suo arrivo! Che curiosità e che impazienza di vedere tutto ciò che contenevano i pesanti bauli, le ceste e le casse discese dall’imperiale della diligenza che lo aveva condotto dalla Corogna! Che grida, che applausi e che capriole nello scoprire i tesori che uscivano alla luce dalla pancia dei bagagli! Stoffe d’ogni sorta, disegno e colore; scialli di Cascimir e di Manilla; collane, fermagli e orecchini d’oro e coralli; boccette d’acqua odorosa; fiaschi di spirito di melassa, con cui mia madre mi strofinava tutto il corpicino dopo il bagno; barattoli e scatole di marmellate e confetture; sacchetti di fagioli, grappoli di banane, bastoncini di frutta candite, ananassi, pere americane, ignami, pomi cannella, noci di cocco…. E c’erano poi i regali viventi. Ricordo di non aver potuto pronunciar parola, tant’era commossa, quella volta che vidi papà scendere dalla vettura portando la gabbia d’un pappagallo. Successivamente, un anno dopo l’altro, mi portò una scimmietta con una burlesca faccia di vecchio e due inquieti occhietti brillanti; una coppia di inseparabili, sempre vicini l’uno all’altro sullo stesso regoletto della gabbia, un azzurro macao e uno strillante «cardinale» dal purpureo berretto e dall’abito cinerino…. Che so io! Uccelletti delle più diverse specie, che durante qualche tempo rallegravano la soleggiata sala da pranzo coi loro colori, la loro vivacità e i loro canti, e le cui gabbie andavano poi a poco a poco vuotandosi via via che la morte se ne portava gli abitatori. Tutti morivano, meno il pappagallo, stridente di voce e di penne, che dal suo posatoio presso la finestra, rintronava la casa con aspre strida, senza che mai vi fosse modo di fargli imparare a dire nemmeno una parola.

    Ma per me la gioia principale era la presenza stessa di mio padre: passavo ore ed ore seduta sulle sue ginocchia, giocherellando con la catena e i ciondoli del suo orologio, contemplando con religiosa adorazione il suo volto severo e abbronzato, respirando con delizia l’aroma di tabacco che avvolgeva la sua persona, ascoltando a bocca aperta i racconti di quel che gli era accaduto in tanti mesi di viaggio. Ormai si sapeva: quando papà era in casa, non v’era modo che neppur un momento io mi allontanassi dal suo fianco; perfino allorché egli aveva da sbrigare lavori di stu dio, corrispondenza o conti, io sedevo di fronte a lui, con tutta gravità, dall’altro lato del tavolo ed egli mi d lasciava, tutta seria e silenziosa, finché, impietosito dalla mia sonnolenza e da’ miei sbadigli, sospendeva il lavoro per mettersi a giocare con me.

    Per ore intere ci abbandonavamo alle ineffabili delizie del «Minin minell, barba castell, barba Milan, tocca sulla man», «Mano, mano morta, picchia sulla porta, picchia sul porton, pimp-pam-pom», «Chi è morto? Beccotorto. Chi ha sonato la campanella? Quel birbon di Pulcinella», ed erano tali le nostre sghignazzate, che di quando in quando la mamma, sempre affaccendata nelle sue occupazioni di massaia, si affacciava all’uscio della sala da pranzo e ci contemplava un momento,; asserendo di non sapere chi fosse più bambino, se la figlia o il padre.

    Altre volte, con non minore incanto mio, papà raccontava storie dell’Avana parodiando il linguaggio di negri e cinesi, o intonava canti creoli, o imitava le monotone grida dei venditori, ambulanti.

    E quando meno me l’aspettavo, mio padre partiva di nuovo; e nuovamente venivano a trovarsi con la faccia volta alla parete i quadri del naufragio di Virginia. Mia madre ed io restavamo allora come anime in pena nella nostra solitaria casetta, sembrandoci che il sole più non desse calore né gioia, che più non avessero aroma le rose e i gelsomini delle nostre finestre e che fossero rimasti senza voce i captivi uccelletti delle nostre gabbie.

    IV

    Vivevamo in perfetta solitudine. La mamma, che sposandosi s’era trapiantata in un ambiente assai diverso da quello suo d’origine, non aveva mai simpatizzato con la gente del paese, di cui non condivideva le preoccupazioni e alla cui vita rimaneva estranea, sebbene abitasse a poche centinaia di passi dalle loro case: essa era sempre la forestiera che non senza sforzo riusciva a reprimere gli sbadigli ogni qualvolta le riferivano accaloratamente, nelle visite, i pettegolezzi e gli intrighi che appassionavano i belli spiriti locali. Nemmeno con la famiglia di mio padre era giunta a stringere intimi rapporti, sebbene fra loro non vi fosse mai stato dissapore alcuno; perfino la buona zia Visitación, sorella di papà, perpetuamente affaccendata tra confraternite e novene, stentava a metter i piedi in casa nostra quando il fratello era assente. Salvo che nelle feste di precetto, in cui s’andava a messa, non scendevamo quasi mai in città, e raramente succedeva che qualcuno de’ suoi abitanti si facesse vedere nel nostro eremo.

    In tal guisa, io non avevo nessuna piccola amica coetanea e passavo la vita sola con mia madre, la quale, volente o nolente, doveva essere la mia perenne compagna di giochi. E non si rifiutava di certo; ma essa si prestava sempre volonterosa alle mie capricciose fantasie; anzi, quando la mia vena si esauriva, sapeva ancora ritrovare qualche divertimento più attraente di quelli da me immaginati. Per tal motivo, non correggendosi né temprandosi il mio carattere per mancanza di contatto con quello di altri bambini, che mai si sarebbero sottomessi alla mia volontà come faceva invece mia madre,

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