Nell'armadio
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Questa surreale, deprimente e a tratti buffa situazione diventa la metafora della ricerca del proprio spazio nel mondo, ovvero del senso dell’esistenza e dell’incessante affannarsi per qualcosa. Seguiamo allora Hana nelle prove della sua vita, o meglio della sua sopravvivenza, attraverso le fantasiose bugie con cui fodera il suo esistenzialismo minuto e quotidiano per parare i colpi più duri (ma senza risolvere niente).
La sua vita, anche prima dell’evento che scatena il ritorno in patria, è un misto di insoddisfazioni. Una relazione in esaurimento, che sfocia in un esito tragico ma salvifico. Il lavoro, la precarietà, la difficoltà di crescere, di integrarsi nel “ sistema ”. La famiglia, di cui cerca l’approvazione in un rapporto irrisolto, come tutti. L’amore, che come un elettrodomestico non funziona mai bene. Il ruolo della donna, la critica sociale. La mancanza della “ sensazione di casa ”, il sentirsi sempre fuori posto (particolarmente quando si trova nelle case altrui, “eterna ospite”). Vive una vita esplosa, in cui sembra camminare scalza tra i cocci, seguita passo passo e con crescente empatia dal lettore.
Tereza Semotamová trova la chiave per raccontare questo mondo in frantumi mescolando i tempi dell’azione e del ricordo come in un cocktail, tintinnio del ghiaccio compreso, e giocando con la lingua. Sovrappone i registri linguistici, nell’originale il ceco e lo slovacco, inserisce nella sua prosa riferimenti letterari e filosofici elevati e rimandi a programmi televisivi, canzoni pop o folk, classici della poesia, filastrocche, brani tratti da Wikipedia o pubblicità, il tutto apparentemente a sproposito, con effetti stranianti e spesso brillanti.
Alessandro De Vito
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Anteprima del libro
Nell'armadio - Tereza Semotamová
Tavola dei Contenuti (TOC)
uno
due
tre
quattro
cinque
sei
sette
otto
nove
dieci
undici
dodici
tredici
quattordici
quindici
sedici
diciassette
diciotto
diciannove
venti
ventuno
ventidue
ventitré
ventiquattro
venticinque
ventisei
ventisette
ventotto
ventinove
trenta
trentuno
NováVlna
( 15 )
NELL'ARMADIO
tereza semotamová
Traduzione dal ceco di Alessandro De Vito
DALLA COPERTINA
Hana, la giovane protagonista del romanzo, rientra improvvisamente a Praga dall’estero, dove vive, nascondendo a tutti il vero motivo. Una volta tornata non ha un posto dove stare e non ha la minima idea di che fare della sua vita. Sua sorella deve buttare via un armadio, e le si accende una lampadina. Sistema l’armadio in un angolo nascosto del cortile dello stesso caseggiato e… ci va a vivere.
Questa surreale, deprimente e a tratti buffa situazione diventa la metafora della ricerca del proprio spazio nel mondo, ovvero del senso dell’esistenza e dell’incessante affannarsi per qualcosa. Seguiamo allora Hana nelle prove della sua vita, o meglio della sua sopravvivenza, attraverso le fantasiose bugie con cui fodera il suo esistenzialismo minuto e quotidiano per parare i colpi più duri (ma senza risolvere niente).
La sua vita, anche prima dell’evento che scatena il ritorno in patria, è un misto di insoddisfazioni. Una relazione in esaurimento, che sfocia in un esito tragico ma salvifico. Il lavoro, la precarietà, la difficoltà di crescere, di integrarsi nel sistema
. La famiglia, di cui cerca l’approvazione in un rapporto irrisolto, come tutti. L’amore, che come un elettrodomestico non funziona mai bene. Il ruolo della donna, la critica sociale. La mancanza della sensazione di casa
, il sentirsi sempre fuori posto (particolarmente quando si trova nelle case altrui, eterna ospite
). Vive una vita esplosa, in cui sembra camminare scalza tra i cocci, seguita passo passo e con crescente empatia dal lettore.
Tereza Semotamová trova la chiave per raccontare questo mondo in frantumi mescolando i tempi dell’azione e del ricordo come in un cocktail, tintinnio del ghiaccio compreso, e giocando con la lingua. Sovrappone i registri linguistici, nell’originale il ceco e lo slovacco, inserisce nella sua prosa riferimenti letterari e filosofici elevati e rimandi a programmi televisivi, canzoni pop o folk, classici della poesia, filastrocche, brani tratti da Wikipedia o pubblicità, il tutto apparentemente a sproposito, con effetti stranianti e spesso brillanti.
Alessandro De Vito
© Tereza Semotamová e Verlag Voland & Quist
2018
©
2019
Miraggi edizioni, Torino
www.miraggiedizioni.it
Logo-Ministero-cecoTitolo originale dell’edizione ceca:
Ve skříni (Argo, Praha
2018
)
Translation of this book was realized with
the support of the Ministry of Culture
of the Czech Republic
Ringraziamo il Ministero della Cultura
della Repubblica Ceca per il sostegno
alla traduzione e alla pubblicazione
Progetto grafico Miraggi
Finito di stampare a Chivasso nel mese di aprile 2022
da A
4
Servizi Grafici per conto di Miraggi edizioni
su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream
80
gr
e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Chalk
180
gr
Prima edizione digitale: aprile
2022
isbn
978
-
88
-
3386
-
190
-
6
Prima edizione cartacea: aprile
2022
isbn
978
-
88
-
3386
-
199
-
9
uno
Sono sdraiata su un tappeto, che è un’autopista. Quindi sto sdraiata su un’autopista. Arriva mia sorella, si stende sul lettino, sgranocchia del cavolo rapa e legge un noir scandinavo. I nordici hanno dimostrato al mondo di saper ammazzare in modo così brillante da meritare un genere letterario tutto loro.
Bambino I mi passa sopra con una macchinina, strillando: « Dammi quell’ambulanza, testa di cavolo! », quindi salta addosso da dietro al fratello minore, che comincia a frignare.
Subito mia sorella non batte ciglio. Solo quando il baccano arriva al culmine si mette a urlare: « Piantatela, o stasera a letto senza cena… ».
Segue un momento di silenzio. Bambino I continua a farmi passare sopra le macchinine e bambino II costruisce una stazione di polizia.
« Allora, io vado » dico.
« Ma dai, dove vuoi andare » dice mia sorella.
Poi fissa un istante nel vuoto, raduna le bambole e le sparpaglia di nuovo con un gesto teatrale.
« Senti, questa cameretta la dobbiamo risistemare perché vada bene per bimbi un po’ più grandi. Dobbiamo comprare un armadio nuovo, alto fino al soffitto, per cui se qualcuno volesse quello vecchio… Ti viene in mente qualcuno? »
« Qualcuno lo troviamo » rispondo. « Se no c’è pure il sito internet nonbuttarlo.com. »
« E com’è che funziona? »
« Be’, ci metti la foto dell’armadio, e chi lo vuole si fa vivo e se lo viene a prendere. Un armadio così lo vorranno di sicuro. »
Do un’occhiata nell’angolo. Un armadio a due ante di legno massello. Le porte accostate. (In effetti non si chiudono bene.) Dall’armadio fa capolino lo zainetto di bambino I, in cui tiene stipati tutti i dolciumi che ha ricevuto negli ultimi tempi. Quando gli viene voglia, tira fuori i dolcetti dall’armadio, se ne prende uno e richiude lo zainetto rimettendolo dentro. È un comportamento che ricorda quello di un impiegato della banca nazionale, che ha calcolato che chi risparmia da sé lo fa per tre, con il bonus della bella sensazione di avere lo zainetto pieno al sicuro. Butto l’occhio anche accanto all’armadio, dov’è appeso il mio pneumatico di cemento, il mio progetto di diploma dell’Accademia, che avevo dato a mia sorella.
Raccolgo le mie membra, oggi investite diverse volte dalla macchinina. È ora di andare. Non so dove, ma sento di dovermene andare.
« Allora vado » dico.
« Ma scusa, dove vai? » dice mia sorella senza neppure alzare la testa dal libro.
« Dormo da Jana, te l’ho detto. »
« Ma è presto, resta ancora un po’ qui con noi, no? »
« Mi sa che ne avete da divertirvi, anche senza di me. »
« Ok, ma vogliamo goderci al massimo quando ci sei » dice mia sorella, e mi stupisce abbastanza, ma considerando che sono solo parole, non fatti, solo parole, non fatti, comunque mi lascia un po’ freddina.
« Be’ ora mi potrete avere sempre. Mi sono trasferita. Là non ci torno più. Per cui chiamami tranquillamente per qualsiasi cosa. Se hai bisogno di tenere i bambini o che so io… »
Mia sorella finalmente alza la testa dal libro e mi guarda: « E che farai qui, scusa? Quando fai il trasloco? E Ondřej? ».
« Devo davvero andare, ciao… »
L’eterno ospite se ne va, passo dalla cucina. In televisione c’è il telegiornale: guerra nel granaio d’Europa… E che tempo farà oggi? Questa è l’epoca in cui vivo. Questa sono io.
Per rinfrescarmi le idee, e anche per risparmiare, decido di andare a piedi invece di usufruire dei servigi della moderna talpa, i mezzi, o come li chiamano qui adesso. Resisto alla tentazione di suonare al pescatore che abita poco lontano. Nelle acque accessibili pesca i pesci più belli, snelli pesci predatori, non teme nessuno stagno effimero. Vive lì, vive, pesca pesci, pesca. È. È disponibile. Ma è sufficiente?
Cammino per la città gonfia del fine settimana, tutto è in un certo senso appiccicoso, e lo sono anch’io. Ci vorrebbe uno scroscio di pioggia. E in effetti forse pioverà sul serio, dato che gli uccelli volano basso, i pesci saltano sulla superficie dell’acqua, i galli cantano forte, le cornacchie gracchiano, le galline stanno sedute a gruppetti e non razzolano, i colombi stanno negli angolini e non volano, il merlo canta a mezzogiorno in punto, i fiori del tarassaco e le calendule si chiudono e io ho le dita appiccicose e mi libro volando pericolosamente bassa.
La città è una prugna tagliata a metà immersa in uno sciroppo dolce, la cui polpa è ben irrorata di sangue, cresciuta con abbondanza di sostanze nutritive. È un frutto dolce che invita a morderlo. Io mi sento un frutto acerbo, che invita a gettarlo via. Ma è molto difficile che io possa gettarmi via da sola. Frutta cadente.
Suona il telefono. Prendo fiato. Le devo dire la verità? Che è morto e che all’estero non ci torno più…?
« Ciao mamma, sto benissimo, sì, sono di ottimo umore e ho trovato lavoro in banca, allo sportello. Sì, è una buona banca e ora vado a comprarmi degli abiti adatti, abiti seri da donna seria, che propone seri prodotti bancari, su cui si può fare affidamento, sul petto mi penderà il cartellino Mimi, al vostro servizio e all’inizio ne avrò anche un altro con scritto attenzione, sono nuova! Ma imparo presto. »
« Sono proprio contenta. »
« Per ora sto da Jana, ma troverò qualcosa, magari mi aiuteranno anche loro, è un’ottima banca. E anche le persone sono eccezionali. »
« E quando cominci? »
« Be’, il primo. Nel frattempo devo sistemare diverse cose, mi devo anche comprare un abito di rappresentanza e delle scarpe autunnali e magari leggermi qualcosa sull’attività bancaria, for dummies, e riposarmi. Prepararmi al servizio al pubblico. »
« Quando vieni? »
« Sì, vengo, certo. »
« E Ondřej? E come lo fai il trasloco? »
« Mamma, non c’è più campo, ci sentiamo! »
Finalmente parte del sistema. Finalmente presa all’amo. Mamma è contenta, crede che il frutto del suo seno, figlia di una famiglia miscellaneous, che finora ha respinto tutto ciò che è comune, tutto ciò che è stato creato in modo artificiale, abbia finalmente ceduto, si sia piegato, abbia deciso di aiutare le persone a risolvere i loro problemi finanziari. Con grande senso di responsabilità e secondo le regole stabilite da chi sta sopra di lei. E da quello sopra. E da quello sopra ancora. E sopra tutti questi ce n’è ancora un mucchio.
Quando mi avvicino a dove abita Jana è già quasi buio, e sono contenta. Sopportiamo solo per un tempo limitato di assorbire la luce che di giorno cade sulle cose e poi siamo felici se gli oggetti in esposizione, noi compresi, per un po’ non sono così in bella vista. È semplice. Non c’è niente da vedere e la notte inghiotte il mondo. Le tenebre, tempo dedicato al riposo, al recupero delle forze propulsive consumate durante il giorno: ricercando, rincorrendo, risospingendo.
L’ultimo tratto che porta da Jana è in salita, un po’ sono in affanno, e un po’ mi fa anche piacere. Sono costretta a respirare affannosamente e a sforzare il passo, e per un istante la finalità di questo obbiettivo a breve termine mi riempie. Apro il cancelletto con la chiave e lo richiudo.
Davanti alla casa c’è lo slovacco con la sua ragazza russa. Ha addosso la sua tuta e i calzini bianchi, le ciabatte di gomma col grande segno di spunta bianco e una catena d’oro al collo. Da quanto ho potuto vedere, non ha un lavoro. Passa la maggior parte della giornata davanti a casa con la sigaretta in bocca e il telefono all’orecchio.
La sua geisha russa, pantaloncini di Hello Kitty, la gattina col fumetto Ehi tu! che le esce dalla bocca, gli si avviluppa addosso come l’edera su una betulla nel parco forestale di Lednice, è chiaro che non sa suonare la balalajka, il tradizionale strumento a corda, né con tutta probabilità preparare il tradizionale tè russo, ma a quella specie di marocchino non importa. Al futuro non pensa, il passato non esiste e il presente lo draga fino in fondo.
Quando passo accanto a quei due gattini sento solo: « La notte ti amo, Larisa, ma che nervi mi fai venire di giorno ». Allora lei con un debole gridolino gli sussurra qualcosa all’orecchio, ma purtroppo non riesco a coglierlo. L’odore di cocco che sembra provenire dalla geisha mi urta le narici.
In casa c’è silenzio, almeno così credo all’inizio. Tutte le stanze sono silenziose e chiuse, allora quatta quatta come un topo mi rintano nel settore b4, che mi è stato assegnato. Mi siedo sulla sedia a dondolo. Dondolo e ridondolo. Mi metto in ascolto dell’oscuro silenzio. Mi inonda come una pesante glassa una rivelazione: la casa è attraversata dalla vibrazione di un’inarrestabile energia collegata alle radici dell’universo. Il cigolio ritmato del letto, provocato dalle viti non ben serrate dell’instabile struttura scandinava, lo sbadiglio ripetuto, che rapportato all’azione in atto andrebbe piuttosto chiamato raglio. E io dondolo e dondolo a tempo, quasi in sincronia con quei cigolii e ragli.
Coi piedi freno di colpo il dondolio della sedia. Punto esclamativo. Mi butto sul pavimento e mi copro la testa con un cuscino. Stendo le gambe e le rilasso, e giro i palmi delle mani verso il soffitto, per invocare una differente energia. Quando andavo a praticare yoga, la nostra insegnante, un Ho Chi Minh in gonnella, diceva proprio così, riguardo i palmi rivolti al cielo. Ah, che sabato sera estenuante, c’è quasi da temere che non finisca più. La maggior parte delle disgrazie capita un attimo prima di raggiungere l’obbiettivo. Cerco di rilassarmi e non pensare a dove mi trovo, a cosa sono, a quel che sarà o non sarà e a quello che sarebbe dovuto essere. Osservo i punti scrostati sul soffitto e li conto.
Si apre la porta: « Sei già tornata? Sto ovulando, capisci? Dovevamo approfittarne. Oggi almeno quattro volte ancora ».
« Certo, sì » annuisco con la testa, o meglio col cuscino.
« Tutto bene? Come è andata da tua sorella? »
Mi tolgo il cuscino dalla testa.
« Normale. » E poi, non so perché, aggiungo: « Mi sono già trovata un posto dove stare, così non vi darò più disturbo… ». Lo dico desiderando con tutta me stessa il sollievo che proverei se non fosse una bugia.
« Non ci disturbi affatto, puoi tranquillamente restare per un po’, ma se hai già trovato qualcosa… e dove? »
« Be’, non ci crederesti » dico.
Jana si sfrega il seno: « È una sensazione tremenda, mi formicola tutto. Eh, la procreazione, bisogna… All’opera…! ». Uscendo dalla stanza ha un sussulto: « In frigo c’è del gulaš di patate. Mangia pure quello che vuoi ».
Lo dice guardando il ficus ed è una scena assurda, ma chissà come sarò io, quando ovulerò con consapevolezza, quando sarò la manager delle mie uova. Preparerò anch’io un gulaš di patate per il ficus? Va verso la porta. « Ok, e domani che fai? Vuoi che organizziamo qualcosa? »
« Be’, dovrò sistemare la casa, ma… A cosa pensavi? »
« Non so, di andare a fare un giro. »
« Allora vediamo, ok? »
« Va bene, noi andiamo di nuovo a conigliare, notte. »
Jana si chiude la porta dietro senza far rumore e io mi caccio di nuovo il cuscino sulla testa. Non voglio passare il tempo tra cigolii e non cigolii. Voglio un silenzio che sia solo mio. Immergiti dentro di te. Attingi da te stessa. Il conigliamento si sente anche attraverso il cuscino. L’ovulazione è una questione potente. È potente il modo in cui gli uteri governano il mondo, artefici di grandi progetti.
Qui non posso restare. Dove vado? Non c’è un posto dove mi potrei ibernare, da mia sorella c’è solo uno sgabuzzino col boiler, dove se va bene potrei dormire in piedi reggendo l’aspirapolvere. Mi balena in testa la richiesta di mia sorella. Cerco tastoni il cellulare. Scrivo subito un sms: So cosa fare con l’armadio: non lo buttare!
Uno spazio. Il mondo è tutto diviso a piccoli lotti. Ogni cosa appartiene a una persona diversa. Ognuno ha i suoi quattro metri quadrati, ma alcuni non fanno che vagare tra le proprietà altrui. Quanti spazi al mondo sono lasciati lì non sfruttati, senza che nessuno li usi? Molti, di sicuro. Come faccio a trovarne uno piccolino così per me? Un posticino nascosto, al riparo dal vento, dove poter stendere le gambe, farmi un tè e riposare in silenzio, come l’arrosto della domenica nella teglia.
Quindi, per ora almeno c’è quell’armadio. E col tempo ci sarà anche la teglia. Ecco. Mi rianimo. All’improvviso comincia a scorrermi in corpo una calda energia vitale. Trovo nel mio bagaglio i tappi per le orecchie, mi tolgo i vestiti, faccio una doccia, mi sdraio. Tutto rallenta. Ma la testa continua a macinare.
Sono in piedi sulla porta aperta che dà sul giardino. D’un tratto un nugolo di bambini si allontana di corsa da me, sono tre, quattro, sono cinque. Sono allegri e felici e hanno un aspetto meraviglioso, si somigliano e da buoni fratelli si amano e si odiano allo stesso tempo. Sono sordi. Li chiamo, solo che non mi sentono, corrono per il giardino. Attenzione! Alla fine del prato ci sono i binari su cui viaggiano i maestosi treni Praga-Brno, ma anche quelli Amburgo-Vienna. Li rincorro, li devo salvare. E lì mi sveglio.
Che ne è di loro, dei miei cinque bambini sordi, che non sentono i miei richiami quando si sente arrivare il treno in lontananza? Apro gli occhi, fisso nel buio, deglutisco senza saliva e riprendo coscienza di dove e di cosa sono. Il vibrante conigliamento di là, il battito che pulsa, l’acqua che ribolle nei tubi. Per fortuna grazie a Dio misericordioso la noia mi fa addormentare di nuovo.
due
Sento squillare qualcosa. Il telefono mi sveglia da un sonno che somiglia a una retina per legare il salame – leggera, elastica, aderente e affidabile. E come una fetta di salame salto fuori da quella retina, fingendo di essere già attiva.
« Ciao, dormivi? »
« No, figurati. »
« Sembri così assonnata… »
« Eh, io la mattina faccio fatica. »
« Senti, se c’è qualcuno che vuole l’armadio, digli che se lo deve portare via oggi. Noi quello nuovo lo prendiamo già domani e voglio fargli posto, per avere tutto pronto. Se no non ho problemi a buttarlo, ne ho le scatole piene di badare continuamente a organizzare cose. »
« Sì, certo che lo voglio. Standa potrebbe aiutarmi in qualche modo? »
« Ma scusa, e come? Magari ti può aiutare a portarlo giù, ma nella nostra macchina non ci entra di sicuro. »
« No, eh? »
« No, certo che no, come ti viene in mente? »
« Ok, lo portiamo almeno giù, e poi chiedo a qualcuno. »
« Sì, ma che non resti giù nell’ingresso per una settimana, i vicini ce ne direbbero di tutti i colori… »
« No, tranquilla. »
Mi incanto a guardare dalla finestra i giubbotti arancioni degli spazzini. La testa rimugina. Madonnina santa, chi mi aiuterà a portare via l’armadio? E dove me lo metto? Dove vado a rifugiarmi? Esistono depositi per persone che vivono in un armadio? Un campeggio per armadi sul lago di Mácha¹? Passo la giornata in ibernazione sulla sedia a dondolo, dove dipingo orologi in diverse posizioni, pinguini, il sole, e penso a cosa dovrei pensare, a cosa penserebbe una persona normale, in particolare una persona normale nella mia situazione. Ancora con questa normalità! Poi sono le due del pomeriggio, dal frigo di Jana pesco una carota, la pulisco, la metto in bocca, mi allaccio le scarpe e vado a prendere il tram.
Sul tram osservo le persone. Un’anziana signora racconta a un’altra qualche fatto di fondamentale importanza, ripetendo in continuazione il ritornello: « Mah, chi se