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L' Intelligenza in campo
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E-book209 pagine2 ore

L' Intelligenza in campo

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Info su questo ebook

Un libro in cui le partite di D'Antoni si intrecciano a storie di imprenditori e manager, e rivolto quindi a chiunque voglia veramente capire le dinamiche di gruppo o abbia l'ambizione di guidare un team.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2011
ISBN9788863453157
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    L' Intelligenza in campo - Federico Mioni

    MONDO ECONOMICO 179

    L'INTELLIGENZA IN CAMPO

    Federico Mioni

    L’INTELLIGENZA IN CAMPO

    Leadership e coaching: storie di basket e di management con Mike D’Antoni

    Prefazione di

    Dan Peterson

    ISBN 978-88-6345-228-0

    © 2011 Il Sole 24 ORE S.p.A.

    Sede legale e amministrazione: via Monte Rosa, 91 - 20149 Milano

    Redazione: via G. Patecchio, 2 - 20141 Milano

    Per informazioni: Servizio Clienti 02.3022.5680, 06.3022.5680

    Fax 02.3022.5400 oppure 06.3022.5400

    e-mail servizioclienti.libri@ilsole24ore.com

    Fotocomposizione: Jotype di Nisticò Francesco & C. snc, via Figino, 1/A - 20016 Pero (Milano)

    Stampa: Rotolito Lombarda, Via Grandi 2 - Seggiano di Pioltello (Milano)

    Prima edizione: aprile 2011

    Tutti i diritti sono riservati.

    Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del15 per cento di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAEdel compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633.Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico ocommerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di PortaRomana, 108 - 20122 Milano, e-mail segreteria@aidro.org e sito web www.aidro.org

    Sommario

    Prefazione

    di Dan Peterson

    Prefazione

    di Dan Peterson

    Parlare di Mike D’Antoni significa parlare di un uomo eccezionale, in campo e non solo. Un libro che illustra le caratteristiche di una persona di questo tipo è uno strumento utile non solo per i manager, ma per chiunque voglia o si trovi a gestire dinamiche fra persone.

    E non è un caso che fin dal primo incontro con Federico Mioni si sia condiviso un concetto di fondo legato a D’Antoni, quello della intelligenza in campo, cioè sul terreno di gioco e non solo nei ragionamenti del pre-partita: io gliene parlai e lui mi fece vedere che era uno dei due titoli su cui mi chiedeva un parere.

    Non voglio anticipare i temi trattati nel libro, perché sono tanti e perché possono essere letti in modo differente da chi ha professioni o passioni diverse: formatori e coach di manager, allenatori, insegnanti e chiunque lavori per motivare e far crescere le persone. Voglio piuttosto portare una testimonianza per dire chi è l’uomo D’Antoni, attraverso una serie di episodi indicativi.

    La storia che riguarda il mio rapporto con lui non inizia nel 1978, con il mio arrivo a Milano, quando lui gioca già da un anno con il Cinzano-Olimpia. Inizia nel 1968-69, quando Mike è all’ultimo anno della Mullens High School, fra quelle montagne del West Virginia da cui prende avvio questo libro.

    A quei tempi, ero coach alla University of Delaware, una realtà molto esigente anche in tema di rendimento scolastico dei giocatori ingaggiati, ma che non poteva competere con le università della Ivy League, come Princeton o Harvard, o con altri grandi atenei statunitensi. Così mi trovavo a contattare atleti che erano anche bravi studenti e inviare loro brochure, depliant, lettere, riviste, folder, foto e ogni tipo di gadget per il reclutamento. Scrissi anche a Mike D’Antoni, e lui mi rispose dicendo che sarebbe andato alla Marshall University per seguire il fratello Danny. Può sembrare una banalità, ma è stato l’unico campione contattato che abbia avuto la cortesia di rispondermi personalmente per ringraziarmi dell’interesse, spiegare la sua decisione e augurarmi ogni successo.

    Dimenticai Mike come obiettivo di mercato, ma non come persona. Non immaginavo che ci saremmo incontrati in Italia. Avvenne nel 1977-78, quando allenavo ancora Bologna, e mi costò due partite perse contro il Cinzano. Approdando nel 1978 all’Olimpia, posi una condizione: tenere Mike D’Antoni.

    Da quel giorno, ho avuto tantissime soddisfazioni. Nella prima partita si procurò una frattura al piede destro, ma zoppicando ci portò alla vittoria contro Varese, allora campione d’Italia. Poi lo ingessarono e rimase fuori per cinque partite. Vincemmo le prime due per miracolo, poi tre sconfitte di fila. Tornò per la partita contro il Pesaro al Palalido. Gli dissi: «Mike, anche se riesci solo a camminare, non importa. Faremo la difesa 1-3-1 per nasconderti. Ti chiedo solo di far funzionare l’attacco». Detto e fatto. In più, marcò un grande atleta come Jimmy Thomas, con sforzi commoventi. Sapevo di avere un campione fra le mani. Per questo quando Mioni scrive che un leader deve saper soffrire più di tutti gli altri, posso confermare che ha scelto il campione giusto come esempio. E giusto è il paragone fra D’Antoni e il suo giocatore preferito dei Phoenix Suns, Steve Nash. Così come è giusto il riferimento al generoso ma sfortunato campione di maratona del 1908 di cui si parla nella parte finale del libro: non solo sofferenza, ma testimonianza di un impegno durissimo, altro requisito per la leadership.

    Vi sono però altri aspetti che vanno ricordati. Come ogni supercampione, a Mike non importava niente di statistiche, numeri, soldi, titoli sui giornali, premi, minutaggio, numero di tiri, e via dicendo. Anzi, ho dovuto chiedergli io di tirare di più. In quel periodo tirava solo tra 6 e 8 volte a partita, pur avendo un ottimo tiro. Un giorno gli ho detto: «Mike, voglio che tiri non meno di 12 volte in ogni gara». E lui: «Come? 12?» Io: «Sì, 12. Se fai 1 su 19, non dirò nulla. Se fai 10 su 11, ti dovrò chiedere perché non hai tirato 12 volte». L’ha fatto, ma era talmente altruista e giocatore di squadra da dimenticare che contribuiva al 20 per cento dell’attacco quando era in campo. In altri termini, un campione è quello che non si ferma a guardare le proprie imprese, e che a volte addirittura se ne dimentica, perché ha in mente un obiettivo diverso: ottenere la vittoria per la squadra. Solo questo conta, e anche questo è un tratto tipico della leadership, vale a dire non fermarsi alle proprie doti individuali per concentrarsi sul gruppo.

    Ciò non significa che il leader non debba essere capace di grandi performance individuali. Anzi, le deve assolutamente fare. Infatti, non so neanche contare le partite che D’Antoni ha vinto per noi. Ne ricordo una del 1978-79, Gara 1 dei quarti di finale dei play off a Roma, contro l’IBP di Valerio Bianchini. Eravamo stati sotto di 10 per tutta la gara e avevamo fatto una difesa 1-3-1 per quasi 40 minuti senza rovesciare il risultato. Quando mancano 1 minuto e 42 secondi alla fine e siamo sotto di 7, con palla in mano loro, Mike ruba sei palloni di fila e facciamo un parziale di 12-3 vincendo la partita 94-92, senza dover ricorrere a un tempo supplementare. In assoluto, la più grande prova di difesa di squadra che io abbia mai visto. E Mike aveva rubato l’ultima palla in ginocchio, dalla stanchezza, facendo pure l’assist vincente a Francesco Anchisi.

    Un altro episodio da ricordare è la finale scudetto 1982 contro la Scavolini Pesaro, ma in proposito Mioni riporta già una mia testimonianza nel libro. Vi racconto invece del mio ultimo anno, il 1986-87, in cui facemmo il Grande Slam. Ultima partita, Gara 3 della finale dei play off contro Caserta. Siamo 2-0 ma non possiamo perdere questa gara. Se perdiamo e loro vincono Gara 4 a Caserta noi, squadra stanca per i molti impegni, rischieremmo moltissimo. Loro ci saltano addosso: 47-28 per Caserta dopo soli 15 minuti e 45 secondi. Un incubo. Butto dentro Riccardo Pittis, che dà energia, e metto la 1-3-1. Mike guida una lunga, faticosa rimonta, e non esce dal campo, nella nostra 58a partita dell’anno. Ha 36 anni compiuti, ma va avanti con l’adrenalina pura. Segna, ruba palle, prende rimbalzi, fa assist, difende su Gentile, fa l’allenatore in campo.

    A un minuto dalla fine siamo sotto di 1, una bomba da 3 punti per noi che ci illude, ma subito dopo veniamo gelati da una bomba da 3 di Caserta, che quindi torna in vantaggio a una manciata di secondi dalla fine. Il mio cuore in quel momento si ferma. Mike, freddo e caldo allo stesso tempo, piglia la palla, tira e subisce il fallo oltre la linea dei tre punti. Tre tiri liberi per Mike: 3 ciuff, +2 per noi e finisce così. Ancora una volta, Mike D’Antoni fa i punti decisivi per vincere uno scudetto per l’Olimpia Milano.

    Solamente un uomo e una mente straordinari possono fare queste cose, perché un leader, come dice Mioni nel libro, deve essere caldo ma anche freddissimo. E Mike D’Antoni è tutto questo e anche di più.

    Ancora ai miei figli Francesco e Laura,

    e ai miei nipoti Edoardo, Federico e Matteo,

    che hanno una vita davanti

    e tante partite importanti da giocare.

    F.M.

    1. Un leader anche fra le montagne del West Virginia

    Crescere a Mullens, un posto un po’ fuori dal mondo

    Un ragazzino con la passione per il basket, una palla a spicchi e una cittadina di 2.000 abitanti fra le montagne di uno degli Stati meno importanti degli USA, il West Virginia. Può bastare a far nascere un leader? Aggiungete che il padre è un allenatore di basket e il fratello maggiore è un buon giocatore della squadra locale, ma considerate anche che in quella piccolissima città non c’è niente da fare, non un cinema o un luogo di divertimento, e che nell’unico ristorante si può pranzare ma non cenare perché la vita serale è inesistente. Infine, aggiungete che siamo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, che la tv trasmette qualche partita di basket e nulla più e che non c’è quel grande apparato mediatico che oggi dà tutti gli strumenti per innamorarsi di quello splendido sport che è il basket: dirette, pre e post partita, commenti tecnici, interviste ai campioni, e le immagini da scaricare perfino sul telefonino.

    Tutto questo arsenale mediatico per scatenare la passione di un ragazzo allora non c’era. Eppure il basket ha fatto nascere in migliaia di ragazzi, non solo americani, una passione capace di far passare molte ore al giorno su un playground, a giocare interminabili partite con gli amici prima e dopo gli allenamenti, proprio perché da ragazzi c’è una voglia infinita di praticare lo sport che si ama, e per questo si trascorrono pomeriggi interi su un campo a fare partite, confronti uno contro uno, gare di tiri, e altre cose che fanno volare la fantasia.

    Mike D’Antoni è stato uno di questi, ma ha fatto molto di più fin da bambino. C’è un qualcosa di metodico, che in lui sembra innato, che gli fa passare ore e ore al giorno con la palla a spicchi in mano, a volte anche sette o otto fra allenamenti e gioco personale. C’è qualcosa che lo spinge ad andare in palestra anche da solo e anche nei giorni di pioggia o di neve (a piedi…) e a chiedere le chiavi per aprire la palestra. Gioca da solo per ore perché, come ricorda nel suo libro Playmaker¹:

    Se avessi saltato un solo giorno mi sarei sentito colpevole… Forse era davvero perché non c’era nient’altro di meglio da fare, non so; forse, invece, era perché mi piaceva e mi divertivo sul serio; sapevo di essere bravo e volevo diventarlo ancor di più. Era facile per me perché dovevo fare l’unica cosa possibile, dovevo solo cogliere un’occasione a mia disposizione.

    Queste parole, senza voler creare miti, ci fanno dire che Mike nasce con la serietà e la metodicità di chi deve guidare un gruppo, e forse non solo nel basket. È stato un organizzatore minuzioso del proprio tempo e anche per questo è diventato un grande organizzatore dei tempi di gioco dei compagni di squadra, con quello scarto di un secondo o di qualche decimo di secondo che consente di fare un passaggio smarcante un attimo prima che arrivi il difensore, di regalare un tiro facile in uscita dal blocco² di un compagno, di recuperare una palla preziosa dalla spazzatura, come si dice in America, cioè una di quelle palle vaganti che spesso alla fine fanno la differenza.

    Più in generale: Mike sembra il ragazzo perfetto, attento all’uso del tempo ma anche spensierato, ambizioso ma in modo equilibrato, perfettamente inserito nel gruppo dei coetanei di Mullens ma capace di valutare i propri talenti, di capire la grande dimensione del basket ma anche di apprezzare il valore della comunità in cui è nato e l’importanza dello studio. Insomma, il ragazzino che ogni mamma vorrebbe avere, che non dà mai un problema se non quelli di cui discute col padre quando perde una partita.

    Una vecchia questione: leader si nasce o si diventa?

    Vedremo più avanti come non tutto sia stato facile per Mike lungo la strada verso la leadership, ma possiamo dire fin d’ora come alcuni risultati dei suoi anni giovanili siano anche il frutto di sacrifici e di metodo: ad esempio, capisce da solo che con una vita fatta di scuola, studio e 6-8 ore di basket non deve mai andare a letto dopo le 22, ed è lui a decidere di andare in palestra da solo a fare serie infinite di tiri o palleggi dietro la schiena; accetta gli appunti scritti che il padre gli propone dopo ogni partita e non pensa mai di essere un campioncino che non ha bisogno di consigli. Non di rado, infatti, per diventare dei campioni è più importante la capacità di ascoltare che non il coraggio di prendere iniziative. Accettare le critiche è utile quasi come fare prodezze sul campo.

    Per i leader in senso più ampio vale molto spesso la stessa dinamica, nel senso che trattenere la propria irruenza vincente può dare risultati maggiori che un colpo da tutto e subito, e che il proprio talento va esplicitato ma anche arginato, disciplinato, fatto oggetto di autocritica. Il difficile è saper ascoltare la voce di un maestro o quella che viene dalla componente minoritaria di se stessi,

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