Giocare come Dio comanda: Enzo Bearzot, ritratto intimo
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L’introduzione è di Federica Cappelletti, giornalista e moglie di Paolo Rossi, che ringraziamo infinitamente per la grande disponibilità.
L’indice è composto da una serie di sezioni che ben rappresentano le diverse sfaccettature e personalità di Bearzot: da quella sognatrice di giovane atleta e compagno di squadra, a una più severa da padre di famiglia, fino a quella emozionale da allenatore e CT azzurro. L’autore compie un vero e proprio viaggio alla ricerca di coloro che Bearzot l’hanno conosciuto da vicino e “vissuto”. Le testimonianze sono a firma dei campioni del mondo dell’ ’82 quali Dino Zoff, Beppe Bergomi, Franco Selvaggi, ex compagni di squadra e figure iconiche della serie A e della Nazionale, come il portiere Lido Vieri e l’idolo del toro Fabrizio Poletti, giornalisti come Gigi Garanzini, fino alle figure famigliari più strette, figlia e nipoti. Il risultato è un ritratto non scontato, mai banale, appunto: intimo. E, perché no, un amarcord (e a tratti un’analisi) dell’Italia dal Dopoguerra fino ai mitici anni ’80.
“Personaggi come Bearzot dettano la via. Non ti puoi permettere di non avere fiducia in uomini così. Sapevamo che quello che faceva era il meglio. Ognuno di noi era lì perché l’allenatore lo aveva voluto, e pertanto ci sentivamo come dei figli. Così nacque il gruppo. Il celebre gruppo dell’ ’82”.
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Giocare come Dio comanda - Giacomo Moccetti
Aquilone cosmico
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ISBN 9788894640274
GIOCARE COME DIO COMANDA
ENZO BEARZOT, RITRATTO INTIMO
© 2023 Battaglia Edizioni s.r.l.s., Imola
Prima edizione gennaio 2023
Progetto grafico: Giulia Tudori
Disegno di copertina: Giulia Tudori
Redazione: Francesca Aliperta
Giacomo Moccetti
Giocare come Dio comanda
Enzo Bearzot, ritratto intimo
Ai miei figli
Prefazione
a cura di Federica Cappelletti
«Enzo Bearzot è stato un padre, il mio secondo padre. La persona che mi ha capito di più nei momenti in cui avevo bisogno di essere compreso. Bastava uno sguardo. Abbiamo condiviso gioie e dolori ma anche passioni come il calcio e l’arte, trascorrendo serate nei ritiri della Nazionale a confrontarci. Aveva una grande cultura, si informava costantemente. Possedeva un’intelligenza straordinaria, rara. Con lui era piacevole parlare di tutto. Mi divertivo. Mi stimolava. Siamo andati e tornati più volte a Roma da Guttuso, ma anche a Città di Castello da Burri. Mi ha fatto appassionare alla pittura moderna e contemporanea».
«Sono diventato Pablito grazie alla sua determinazione e non ho lasciato il calcio nella fase più buia della mia carriera perché il Mister mi ha confermato la sua fiducia incondizionata e ha sempre creduto in me. Mi aveva conosciuto in Argentina e sapeva di quale pasta ero fatto, le mie qualità, le mie doti, i miei difetti. Sono stata la sua scommessa vinta».
«Mi faceva portare latte e biscotti in camera la sera dopo cena, perché dovevo ritrovare la forma fisica quando i medici lamentavano la mia eccessiva magrezza. Si è preso cura di me, mi ha protetto ma pretendeva risultati. Non era una persona che faceva sconti, dovevi guadagnarti la sua stima».
Paolo mi raccontava spesso il suo Enzo Bearzot, una persona che ha sempre avuto nel cuore. Nella parte più intima e riservata del suo immenso cuore. Parlava di lui sorridendo quando il Mister era in vita, con le lacrime agli occhi quando se ne è andato.
Diceva che Bearzot era di una categoria superiore, un friulano acclarato, un uomo onesto, integro, verace, autentico. Schietto e schivo. Un vero intenditore di calcio che usava bastone e carota con lui e con i suoi compagni di squadra in Nazionale, facendosi rispettare e adorare.
Tra i tanti aneddoti custoditi con gelosia, mio marito amava narrare il dietro le quinte di Italia-Brasile, quando, dopo aver giocato e determinato con tre gol la partita della Storia, quella che avrebbe segnato felicemente il suo destino e quello di un’Italia intera, facendo balzare Pablito (con i suoi compagni) agli onori della cronaca rendendolo Leggenda, Enzo salì sull’autobus che avrebbe portato gli azzurri in albergo e guardando Paolo con fermezza gli disse «Preparati, non è finita!». Paolo si sarebbe aspettato una mano sulla spalla in segno di fierezza, un bravo, un sorriso, un abbraccio compiaciuto. Non accadde nulla di tutto quello che si aspettava…
«Questo era il Mister», mi ha ripetuto più volte, convincendomi che fosse stata la scelta giusta per spingerlo a dare il massimo fino all’ultima partita contro la Germania, diventare capocannoniere del Mondiale di Spagna ‘82, Pallone d’Oro, Scarpa d’Oro, miglior giocatore del Mondiale. Pablito o Paolorossi tutto attaccato. L’italiano più famoso al mondo.
Non so quanto a Paolo sia pesato non ricevere dei complimenti quel giorno memorabile, credo abbastanza conoscendolo. Ma quello che è successo dopo ha solo confermato che la scelta di Bearzot è stata giusta.
Enzo Bearzot ha sempre capito quello che serviva a Paolo Rossi: un’iniezione di coraggio e fiducia, ma anche e soprattutto quello che mancava al suo Paolo: una figura di riferimento. Enzo Bearzot lo è stato.
«Non dimenticherò mai quello che Bearzot ha fatto per me», diceva, quando io non conoscevo ancora il loro prezioso e profondo legame. Ne sono stata orgogliosa testimone nel loro ultimo incontro ad Auronzo di Cadore, sulle Dolomiti, dove il Mister era solito ritirarsi con la sua bella famiglia. Io ero incinta della nostra prima figlia Maria Vittoria, Paolo aveva troppa voglia di rivedere il suo Vecio
e presentarci. Si erano sentiti pochi giorni prima, Enzo gli aveva confessato di non stare bene. Paolo era preoccupato, sentiva che qualcosa non stava andando per il verso giusto. «Voglio andare a trovarlo Fede, ho bisogno di incontrarlo. Ho uno strano presentimento, spero di sbagliarmi».
Il cuore non sbaglia mai.
Arrivati alla porta della casa di montagna della famiglia Bearzot, gli occhi del Mister e di Paolo si sono contemporaneamente bagnati, mentre i loro corpi si sono fusi in un abbraccio liberatorio e consolatorio. Si erano ritrovati dopo tanto tempo ma era come si fossero lasciati il giorno prima.
«Paolino mio…».
«Mister…».
«Sto male Paolo, questa volta la vedo dura!».
«Cosa mi dice, vedrà che si risolverà tutto».
«Sono preoccupato e stanco, ma non dirlo a mia moglie. Facciamo finta di niente».
Un sorriso, una stretta di mano, l’invito ad accomodarsi dentro. Dove i ricordi sono inevitabilmente volati al Mondiale, al 1978 e al 1982. L’anno in cui Enzo Bearzot ha creduto e puntato su Paolo Rossi e Paolo Rossi ha ripagato Enzo Bearzot della fiducia illimitata, dimostrata.
«Per me è stato più bello vincere per lei che per me stesso, Mister. Le devo molto di quello che sono».
«Sono io che devo tanto a te, Paolo. Sei stato una delle persone più belle che ho incontrato in questa vita, dentro e fuori dal campo. Te lo confesso: senza di te non avremmo vinto quel Mondiale e io non avrei provato tante emozioni che mi porto dentro. Lo sapevo, lo sapevo, per questo ti ho convocato e aspettato. Sapevo benissimo che non mi avresti deluso».
Vedere Paolo Rossi ed Enzo Bearzot uno davanti all’altro è stata la conferma di quello che immaginavo: i legami speciali non hanno bisogno dello stesso sangue ma dello stesso cuore.
Mi porto dentro il sorriso e la complicità di entrambi. La loro intelligenza, l’ironia sottile.
Lo avrei voluto fare di persona ma non c’è stato il tempo, approfitto di questo libro per dire grazie a Enzo Bearzot per aver dato a Paolo, l’uomo della mia vita e padre delle mie figlie, la possibilità di dimostrare chi era e di diventare quello che meritava.
Con tutta la stima e l’affetto, per sempre, Federica.
Introduzione dell’autore
«Papà, chi è quel signore lì?». Quando mio figlio Andrea, all’epoca neppure quattro d’anni d’età, mi ha posto questa domanda, sono andato un po’ in difficoltà. Quel signore lì, nella foto che teniamo su uno scaffale della libreria in salotto, è Enzo Bearzot. Per me, giornalista sportivo e appassionato di pallone, è l’allenatore che ha guidato l’Italia alla conquista della Coppa del mondo del 1982. Per mia moglie Giulia, che verso il calcio non ha mai mostrato il minimo interesse, è semplicemente il nonno materno.
In quel momento mi è stato chiaro che a mio figlio non avrei potuto dare una risposta univoca o sbrigativa: aveva un bisnonno campione del mondo, ed era necessario scoprisse di lui sia l’aspetto umano sia quello calcistico. Ma da quando ho conosciuto Giulia e ho sentito i suoi racconti sul nonno, mi sono accorto di come Enzo Bearzot – di cui negli anni mi ero studiato vita, morte e miracoli – lo conoscessi in realtà poco. Ho realizzato che sul Vecio si dicono spesso le stesse cose, non rendendo giustizia alla persona. La pipa, la fede cieca in Paolo Rossi, la convinzione nelle proprie idee contro tutto e contro tutti, la partita a scopone: in quarant’anni di rado ci si è allontanati da questi pochi concetti per descrivere quello che di fatto è stato uno dei grandi padri calcistici d’Italia. Non che siano mancati racconti, anche approfonditi e dettagliati, su quello che Bearzot ha realizzato da Commissario Tecnico della Nazionale azzurra, ma è come se ci si fosse sempre limitati a poche nozioni, ripetute all’infinito, senza essere mai entrati nell’intimità dell’uomo.
Guardando quella foto esposta in casa, con un Vecio sorridente, per una volta senza pipa in mano, è nato il desiderio di cercare di capire chi sia stato davvero, umanamente oltre che tecnicamente, Enzo Bearzot. Era giusto che mio figlio potesse conoscere il bisnonno per quello che è stato in tutto l’arco della sua vita, non solamente per ciò che ha compiuto sedendosi sulla panchina azzurra.
E allora, chi è stato davvero Enzo Bearzot? Non poteva essere una ricerca storiografica a esaudire questa curiosità, era necessario farselo raccontare da chi ha condiviso con lui almeno un pezzo di cammino. Certamente da coloro che insieme a lui sono saliti sul tetto del mondo quella sera di luglio del 1982, ma non solo, proprio per non ridurre la figura di Bearzot alla vittoria di un Mondiale di calcio. Ecco allora che diventano preziosi i ricordi di chi lo ha conosciuto da giocatore – perché sì, Bearzot ha giocato a lungo in Serie A – come quelli dei giornalisti che negli anni hanno potuto costruire con lui un rapporto diretto. Ma altrettanto di valore, nell’ottica della costruzione di un ritratto intimo, sono le testimonianze di coloro che lo hanno frequentato lontano dal mondo del calcio. Coloro che gli hanno voluto bene e ai quali il Vecio voleva bene.
Non è ovviamente possibile raccontare un uomo con esaustività, ma si può provare a entrare nelle pieghe della sua esistenza per farsi un’idea di chi fosse, di cosa lo muovesse e dove cercasse di andare in quel lungo campionato che è la vita. Tutto questo, si badi bene, senza voler mettere in secondo piano l’aspetto calcistico, che di Bearzot ha caratterizzato la vita fin dall’infanzia. L’uomo e il calciatore-allenatore nel caso del Vecio sono inscindibili, come si capirà ascoltando i racconti di chi lo ha conosciuto da vicino. Per questo è stato naturale scegliere come titolo una frase con cui Dino Zoff spiegava il calcio del suo ct (e amico) Bearzot: Giocare come Dio comanda esprime infatti ciò che era la visione del calcio – e del mondo – dell’allenatore friulano. A pallone si gioca bene,e e si gioca secondo determinati principi tecnici ma pure secondo principi morali, senza i quali non si va da nessuna parte.
L’auspicio è che questo ritratto riesca a svelare l’intimità di un personaggio popolare ma in realtà poco conosciuto. Cosicché mio figlio Andrea, quando fra qualche anno leggerà queste pagine, possa comprendere il grande insegnamento del suo bisnonno: un Mondiale di calcio non si vince per caso e soprattutto non si vince solamente per motivi tecnici.
Mister Bearzot
Incontro con Dino Zoff
Mentre mi scarrozza per Roma su una vecchia Renault Twingo, Dino Zoff conclude il discorso con un perentorio «Noi friulani siamo dei coglioni».
Siamo all’altezza di Piazzale Brasile, mi sta riportando in stazione dopo il nostro incontro. Avevo intenzione di chiamare un taxi, non avevo neppure ipotizzato di chiedergli un passaggio – figurarsi, chiedere un passaggio a Dino Zoff! – anche perché francamente non credevo che a ottant’anni guidasse ancora, ma ha insistito per riportarmi lui alla Stazione Termini: «è il minimo che possa fare». Come se gli avessi fatto un favore io a incontrarlo e non il contrario.
Sul cruscotto c’è un peluche di Pluto che ci guarda. Siamo nell’auto della moglie, un’utilitaria in là con gli anni e con i chilometri, «le ho detto di cambiarla ché ormai ha cent’anni, ma non vuole» mi ha spiegato mentre ci incamminavamo verso il parcheggio di fronte all’entrata del Circolo Canottieri Aniene in zona Acqua Acetosa. È lì che mi ha dato appuntamento Zoff quando l’ho sentito al telefono un paio di giorni prima. Un Circolo esclusivo, a numero chiuso, dove si narra si giochino parte dei destini politici e sportivi della Capitale e del Paese. È il regno del Presidente del Coni Giovanni Malagò, che dell’Aniene è stato presidente per una vita, un circolo sportivo dove scorrendo i nomi degli iscritti c’è l’imbarazzo nel scegliere chi sia più famoso, ricco o influente. Mi aveva incuriosito che mi avesse dato appuntamento lì. Ho capito, una volta arrivato, che è casa sua.
L’appuntamento è alle undici, io arrivo un paio di minuti in ritardo. All’entrata c’è un portiere al quale mi presento e che mi fa strada all’interno del circolo – elegante, con le pareti ricoperte di bacheche in legno, dove sono esposti trofei e foto di sportivi. Mi risalta subito all’occhio quella di Federica Pellegrini, che dell’Aniene è socio onorario. Zoff mi aspetta in un ampio salone dove ha appena terminato di leggere La Repubblica che sta ripiegando sul tavolo. Il portiere mi annuncia, lui si avvicina, mi stringe la mano, mi chiede dove vogliamo metterci. «Meglio in un posto dove possa registrare la nostra conversazione» gli dico, e allora decide di andare in veranda. Il circolo mi pare abbastanza vuoto, d’altronde è un mercoledì mattina feriale, vedo giusto altre quattro o cinque persone tutte impegnate nella lettura dei quotidiani.
Ci accomodiamo su delle poltroncine blu intorno a un tavolino, quando sta per sedersi si ferma e mi chiede «Prendi un caffè?». «Volentieri grazie». Ed esce dalla veranda dicendomi «Tu intanto preparati».
Torna, dopo un minuto abbondante, si siede e mi domanda: «Cosa vuoi sapere da me?». Vado dritto al sodo, chiedendogli quale sia la prima cosa che gli viene in mente se pensa a Bearzot. La sua faccia si fa seria, si concentra, ci pensa, lo sguardo diventa più intenso. Prende il respiro che