Il nazista e la bambina
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Anteprima del libro
Il nazista e la bambina - Liliana Del Monte Manfredi
IL NAZISTA E LA BAMBINA Liliana Manfredi
Ho settant’anni e sono nata due volte. La prima volta in casa di mia nonna. (29 aprile 1933).
La seconda volta ero in mezzo a un prato, di fianco alla casa ridotta in cenere dai tedeschi.
24 giugno 1944.
Avevo tre buchi di pallottola nel corpo.
Il nazista mi puntò il fucile in mezzo agli occhi. Poi ci guardò dentro.
E fece salva la mia vita.
Giorno
Quei buchi sull’asfalto ieri non c’erano. Io lo sapevo bene. Ieri mi ero spinta sul ponte e avevo buttato qualche sasso nel torrente. I sassolini avevano fatto quello che dovevano: scuotere appena l’inarrestabile scorrere dell’acqua, tagliando la superficie per un istante, un piccolo tonfo e poi farsi inghiottire sul fondo.
23 giugno 1944.
Mentre dal ponte guardavo la valle di fronte a me, avevo pensato alla mia maestra, che non vedevo da quasi un mese. Nemmeno la guerra aveva ammorbidito il suo modo di insegnare. Dopo la preghiera, la maestra insisteva con le operazioni da fare a occhi chiusi, a tutte quelle poesie da mandare a memoria. Noi bambini eravamo tutti smarriti, catapultati in un’unica classe nonostante le età diverse e la provenienza da paesini distanti. Ma lei andava avanti a testa bassa, cercando di lasciare la guerra fuori dalla porta dell’aula.
Ero figlia unica. Nel mio cortile non c’erano altri bambini. Oltre il cortile c’era la guerra. Almeno così dicevano i grandi.
Da quel ponte la guerra era niente più che una parola. Solo i tre buchi nell’asfalto suggerivano la sua presenza. Un’insolita brezza muoveva le foglie dei platani di fronte a me. Migliaia di mani verdi si protendevano verso l’azzurro del cielo, come a chiedere sollievo dal calore di una mattina d’estate.
Avevo perso un po’del mio tempo, l’infinito tempo dei bambini, quando i giorni sono ugualmente lunghi, ugualmente belli. Ma con la coda dell’occhio continuava a guardare i buchi. Che ieri non c’erano. Chi li ha fatti? E perché? È un gioco nuovo? Uno, due, tre. Chiederò al nonno
mi dissi lui sa sempre tutto
.
Lo scalpiccio di un paio di zoccoli annunciò il rientro di nonno Ligorio. La sua figura magra e affaticata apparve qualche istante dopo in fondo al rettilineo. Era l’ora del pranzo. Un occhio attento avrebbe saputo cogliere un’ombra di panico sotto la tesa del suo cappello di feltro, il turbinare dell’angoscia nel petto, sotto la sua camicia sudata.
Tutta colpa di quei buchi sul ponte.
Nonno Ligorio aveva settantaquattro anni. Un’onesta vita di lavoro. Sempre al servizio dei Lolli, i signori di
Montalto, padroni di un borghetto di terra e case un chilometro più a valle. Era il loro tuttofare. Lavorava i campi, andava a sbrigare commissioni, aggiustava qualsiasi cosa. Un uomo semplice, affettuoso a modo suo. Sapeva fare tutto e quindi, secondo la mia testa di bimba, sapeva tutto. Avrebbe saputo spiegarmi anche la storia dei tre buchi.
Quei buchi erano un problema, un errore, un rischio grande così.
Erano ciò che restava di un attacco contro i tedeschi. Un attacco fallito. Erano l’esito sfortunato di tre bombe che tre partigiani avevano fatto esplodere la notte prima. Avrebbero dovuto essere una ferita profonda nel ventre anch’esso profondo della guerra e invece furono solamente un graffio innocuo sul volto del nemico.
Buongiorno, nonno!
gli dissi non appena la mia corsa svelta incrociò i suoi passi nel cortile di casa. Ero sempre felice quando rientrava alla Bettola. Spesso portava un po’di pane bianco, cibo raro in tempi di guerra. A volte addirittura carne, burro o formaggio. Il suo ritorno era una delle poche novità in ventiquattrore di piccoli riti sempre uguali a loro stessi.
Immersa nella gola fra Monteduro e Paullo, la mia Bettola era