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Nostra vita mortale
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E-book432 pagine6 ore

Nostra vita mortale

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Info su questo ebook

"Nostra vita mortale" è un romanzo familiare, una narrazione corale e linguisticamente sperimentale dell'Italia del dopoguerra attraverso tre generazioni, tra dialetti e commistioni di italiano.

Protagonista è la famiglia Pellegrino, partita da Gaeta dopo l'armistizio del '43 per raggiungere una Terni in piena ricostruzione, passando per la Roma caotica del periodo della Liberazione, dove iniziano ad allontanarsi le storie di alcuni suoi membri.

A Terni, i giovani della famiglia attraversano la storia di cinquant'anni di Repubblica, dalle paure della guerra fredda all'assassinio di Moro fino al principio di Mani Pulite, e partecipano inizialmente di quell'ascesa sociale data dal boom economico, attraverso matrimoni e carriere all'interno delle industrie che crescono nella città operaia, ma ne subiscono i rovesci e la lenta scomparsa di quel mondo patriarcale da cui sono venuti, fino ad avviarsi verso la crisi definitiva del sistema all'inizio degli anni Novanta.
LinguaItaliano
Data di uscita10 lug 2019
ISBN9788831630238
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    Anteprima del libro

    Nostra vita mortale - Michele Di Schino

    vittime

    l’Odissea

    1.

    Dicevano che a un certo punto non ce l’aveva più fatta, che la paura di venire ammazzato lassù in mezzo alle montagne come a un cane era divenuta terrore. Dicevano che aveva preso un masso e s’era fracassato la gamba destra in tre o quattro punti per farsi mandare all’ospedale militare di Alessandria. Poi era arrivato l’otto di settembre, e nessuno ci aveva capito più un cazzo. Gli infermieri erano stati i primi a scapparsene portandosi dietro tutto quello che potevano, le bende e le siringhe, i camici, i sondini, i bisturi e gli aspiratori, le protesi e perfino le barelle, s’erano trascinate giù lungo le scale, e morfina, tanta morfina, tutta la morfina su cui avevano potuto mettere le mani.

    Ognuno s’era arrangiato come poteva per sopravvivere, e per lui era iniziata la grande corsa verso il sud, nascosto ai tedeschi e ai partigiani, ai rossi come ai bianchi, repubblichini, realisti, tutte le colonne di sbandati che facevano avanti e indietro in un fazzoletto di terra di nessuno che s’andava allargando e si restringeva ogni notte che riportava all’alba, e solo con quell’idea fissa di tornare verso a Gaeta sua che era tempo di vendemmia e loro sulle colline ci avevano le viti gonfie come meloni che il succo lo sanguinavano, gli aveva scritto una cugina, e dopo uno due e tre anni passati lassù al fronte con i compagni che gli crepavano accanto senza un motivo, dicevano che aveva detto basta, e s’era fracassato la gamba destra in tre o quattro punti differenti per andarsene all’ospedale prima, e poi vedere quello che ne sarebbe venuto fuori.

    E fuori n’era venuto il caos dell’otto di settembre, i giorni in corsia senza nessuno a cui chiedere che cosa cazzo stesse a succedere, la morfina raccattata a caro prezzo (un paio di scarpe sfondate, tutte le sigarette e tutte le pezze di lana ch’era riescito accattare) per avere la forza di alzarsi dal letto e trascinarsi fuori al sole di una città impazzita nel non sapere più di chi fosse, vestito degli abiti dei morti, strappati a forza dalle membra irrigidite e mutilate nell’obitorio d’ospedale dove n’erano crepati a carrettate di febbre e ferite, due coperte avvolte intorno le gambe e il corpo, strette alla vita con le corde delle finestre, un’apparizzione meno grottesca ancora delle centinaia che n’aveva viste in giro in quei primi giorni di libbertà folle.

    Aveva viaggiato le notti sui carri bestiame, fermi le giornate intere sui binari morti fuori dalle città dove non si poteva entrare per il terrore che ne vedessero dal cielo le file infinite delle carrozze e bombardassero senza pietà, dormito nelle stazioni sotto l’oscuramento d’ogni luce imposto da’ militari bambini rastrellati negli orfanotrofi e vestiti delle tute da lavoro con le stelle e i gagliardetti al petto che si nascondevano nei cessi a piangerne dalla paura, coi barboni sdentati e le puttane vestite di stracci di plastica che aspettavano il passaggio dei camion che tracimavano e’ monnezza per buttarsi lì sopra a raspare prima che venisse buttata nella montagna fumante a fondo dei binari, e passata nottata completa con un maresciallo carabbignere che n’era affogato in piedi nello stesso sangue e della saliva propria per una ferita ai polmoni che s’era presa grazie ai gas asfissianti, gli occhi spalancati che ne vedevano le vene rosse spaccarsi l’una dopo l’altra ancora, e aveva chiesta l’elemosina e, dicevano, rubato in un paio di case, ma questo lo raccontavano solo quelli che più lo conoscevano bene, prendendoti per il braccio un po’ più su del gomito, e piegavano la testa in avanti come a confessare segreto, che loro a Erasmo lo sapevano bene assai, e se l’erano visto una mattinata di novembre, di quel novembre porco del quarantatrè, al bar Trestina in fondo al corso Indipendenza, entrare e chiedere una gazzosa come aveva fatto fino al giorno prima di partire alla guerra, e a chi gli aveva chiesto cosa fosse successo e com’era che lui fosse lì così, all’improvvisa, e senza che nessuno ne sapesse cosa, aveva risposto faciteve e’ cazz’ vuoie!, e la cosa era finita lì.

    Dicevano che loro li conoscevano bene, ai Pellegrino, e che non era cosa di stare a discutere del perché e del percome, che erano agricoltori in un paese di mare, e questo diceva tutto, che se la facevano con gli itrani, quelli di Itri che in collina ci avevano i campi a coltura e che venivano giù a ogni mercato con le panche e le casse piene di verdure che i gaetani li schifavano, e i banconi col pescato li mettevano il più lontano possibile dall’erba, buona per le capre, dicevano, gli itrani e i Pellegrino a questo punto, che la frutta del campo loro riva a mare la vendevano accosto agli stranieri.

    Che Mammuccio era tornato, e era questo il nome che gli avevano accattato da piccirillo che già era enorme, e che gli andava stretto che era di quasi due metri, lui, e una tonnellata e quasi mezza di carne addosso, che Erasmo Pellegrino, detto Mammuccio, era tornato al paese s’era diffuso per tutto il corso Indipendenza, se l’erano raccontato le donne da balcone a balcone nei vichi che i panni stesi ad asciugare quasi si toccavano da un capo all’altro tanto erano strette le vie, e l’aveva confermato lui in persona quando passava le tre volte al giorno, alla mattina presto, al pranzo e al tramonto, vestito con la camicia sbottonata sul petto largo che sudava, la testa incassata tra le spalle, che camminava dritto senza salutare a nessuno, dal capo dell’Indipendenza dove stavano i parenti suoi all’altro capo dove ci stava la Linda, con madre e cinque fratelli, quattro maggiori e Mimino il più piccirillo che la teneva sempre la mano, la Linda che lui aveva promesso sarebbe tornato dalla guerra a prendersela e la passava a vedere al balcone le tre volte al giorno, alla stenditura dei panni lavati, al fresco del doppopranzo e alla sera, quando lei riusciva sempre con una scusa a mettere la testa fuori casa poco prima al tramonto.

    Quando torno dalla guerra, ti prendo e ti porto con me via dal paese.

    Glie lo aveva detto quasi tre anni prima, il giorno che l’aveva incontrata in mezzo al corso Indipendenza che lei era scesa a raccattare un panno caduto dal balcone e lui ci s’era trovato senza pensare coi piedi sussopra, perché lui camminava sempre in quel modo lì, ci fosse il sole o la pioggia, come un mulo, a testa bassa e spalle infossate, avanti e indietro per farsi venire quella sete che solo la gazzosa del Trestina gli faceva quietare.

    Torno dalla guerra, ti prendo e andiamo a vivere in un altro paese, che qui a Gaeta io non ci voglio stare.

    E lei era così piccola e minuta e rotondetta che aveva avuto l’idea di pigliarsela su alle due mani e portarla subito via, quasi la potesse ficcare dentro alla borsa del militare e tirarla fuori lassù al fronte dove li mandava domani quel Mussolino lì, che diceva c’era il bisogno e la necessità di raddrizzare il pelo a quei porci di francesi.

    Pensate a tornare intero dalla guerra, piuttosto, e poi vedremo se ce la riuscirete a pigliarmi, gli aveva risposto lei guardandolo in faccia piena, che era cosa che le ragazze timorate non avrebbero avuto a fare, ma a lui quello sguardo di sfida e simpatia gli aveva ribbollito il sangue ancora più.

    O torno intero, o non torno, aveva chiuso Mammuccio, e era andato via. Per venirsela a prendere dopo tre anni.

    E quando se l’era andata a prendere, il corso Indipendenza s’era fermato intontito e teso nel caldo anormale di quel dicembre fino al momento di sapere, zitti i picciriddi per i vichi, zitti i verdurari che vendevano a bottega, zitti i pescatori, che si raccontavano la notte in fondo al bar Trestina, zitto lo strillone, che non sapeva più quali giornali a vendere, se il Popolo d’Italia che non si sapeva come arrivava ancora con regolarità allo spaccio vicino al porto, o quei fogli già ingialliti dei realisti che portavano i camioncini dell’esercito italiano che seguivano gli alleati retro a retro.

    La discussione era durata poco; troppa la fame del tempo di guerra e le bocche da sfamare, troppa la paura che a sedici anni la Linda fosse già buona per campare zitella, troppa la foga di quell’uomo che se s’era spaccata di volontà sua la gamba in guerra non lo si poteva capire da come aveva saltato a due a due i gradini ripidi che portavano in casa loro.

    Durata poco e finita presto, che se la sarebbe presa subito subito così com’era, senza dote e senza pretese, e se la sarebbe portata via dove gli pareva a lui.

    Qui al paese non ci restiamo, in casa mia non ci voglio da stare. Sposati che siamo, ce ne torniamo verso nord, a fare case.

    Perché Erasmo ci aveva su il suo progetto, un progetto che gli era maturato e cresciuto in testa in tutti quei mesi d’abbandono all’ospedale e sui carri bestiame in mezzo alla paglia e alla pioggia, fino a fargli male dentro e a diventare un bisogno di realizzarlo il più presto possibile, che campare così sennò non si poteva. Perché all’ospedale di Alessandria aveva avuto vicino nel letto uno di quelli che avevano studiato, con un polmone fottuto da una scheggia di granata e che giorno e notte rantolava sangue e schiumma alla bocca, ma quando gli infermieri lo imbottivano di morfina, quando il rantolo diventava un lamento che tutta la camerata prendeva a bestemmiare, il professore, che lo chiamavano tutti così, aveva quei cinque minuti di calma serenità, nascosto lì dietro una tenda ruvida fatta di sacco e chiazzata e’ sangue, e parlava, in quella lingua arricercata ch’era piacere e dannazzione al sentirne a tutti loro, infarcita di quei termini complicati assai che andavano a dare il senso proprio e solamente nell’intonazione e nel suono, come a rivendicare un significato ultimo e ulteriore che ne veniva fuori dall’ascoltare quasi religgioso che prendeva la camerata tutta all’alzarsi della mano scarna al professore, e al concionare suo. Parlava perché non aveva saputo mai fare altro nella vita.

    Abbiamo abbattuto a miezzo paese, e doppo a una guerra come questa, dopo tutti a quei bombardamenti sulle città, quanti ne saranno stati?, nessuno ne potrebbe contare, e certamente, ma solo a sentire le notizie che arrivano quaggiù dove l’ovatta e la morfina rendono lontane e attutite anche le tragedie, già dalla nostra prospettiva misera e parziale siamo sicuri a dire che il cataclisma sarà immane, che non troveremo case e palazzi in piedi, strade e piazze cambiate e aperte al mezzo dalle bombe de i mortai, tali da metterne in dubbio il ricordo che ne avevamo quando siamo partiti alla guerra, già noi, da quest’angolo e’ reclusione qui, sappiamo bene che ne sarà paesaggio d’apocalissi, i quartieri sventrati, i caseggiati demoliti a mezzo, le strade spezzate in due che non portano più da nessuna parte, le traversine delle ferrate che saranno saccheggiate, e per il ferro e per il rame, e ci sarà da ricostruire, ce ne sarà da rimboccarne le maniche per tutti, dai lavori più alti e di concetto a quelli ummili, ci sarà una necessità incredibile di materiali da costruzione, di manodopera e necessità di tutto per ricostruire ai quartieri, le strade e le ferrovie, le case.

    Anche se lui n’avrebbe avuto manco a vederne ricostruzzione, ch’era morto pochi giorni appressa a la visione, insieme al suo progetto di tornarsene a Roma per entrare nel bisinissi del mattone, come lo chiamavano i due manovali siciliani che anche loro erano lì, pronti a tornarci, al cantiere, e che n’avevano fatta d’ognuno per poterne sfuggire ancora a lu fronti, e s’erano avvelenati perfino, co’ la benzina e che un compare n’era morto puro. E a Mammuccio quelle parole gli erano rimaste a ronzare nella testa, e una notte, alla stazione, durante alla fuga, aveva attaccato discorso con uno delle Puglie, una sigaretta rimediata e fumata in due fino a bruciarsi la punta delle dita a non sprecarla, e quello gli aveva detto di conoscere uno delle parti sue che aveva l’impresa edile con le conoscenze giuste per i lavori al nord, in una città nomata Terni, che già si vedeva a farne le case e’ quella città che, dicevano, era stata già mezzo distrutta dai bombardamenti degli americani.

    E la foja gli era presa tanta al punto che, appena tornato a Gaeta era andato a vedere sulla cartina spiegazzata dell’Europa che sua zia Anna teneva in cucina per indicarci agli ospiti dove stavano i figli suoi (uno qui, ’ngoppa al Don, l’attri dui in Libbia, ’nmiezz ’o diserto, e stavano tutti e tre belli accovacciati sottoterra, e suo padre, che mamma era morta senza che la potesse piangere, di parto dell’ultimo, e Salvatore, per non lasciarla da sola, che era sorella alla madre loro, alla fine ci era andato a vivere, con l’Annina, e per non sprecare il poco spazio della casa dopo pochi mesi ci si era messo pure al dormire assieme), e su quella carta mezza sdrucita dalle dita passate sopra le cento e mille volte al giorno, chissà perché l’unica città delle Puglie insegnata era Lecce, e quello che ci aveva l’impresa che avrebbe ricostruito la Terni bombardata da Roosevelt era diventato il Leccese, ch’era a dire come ne fosse avvenuto dalle Puglie.

    Quando era venuto Erasmo a prendersela, sua madre s’era messa il vestito bianco della festa che metteva solamente per la Madonna di Porto Salvo, con quella gonna lunga che strascicava il pavimento larga a campana e la giacchina corta grigia di perla. S’era raccolti i capelli che le cadevano a ciocche da una parte e dall’altra adesso, s’era seduta e rialzata le mille volte dalla sediola appetto la finestra che dava sul vico, a vedere quando fosse arrivato, e era arrivato prima il brusio di silenzio di tutto il corso Indipendenza, e l’aria d’esseri sospesi, e il caldo che s’era fatto d’improvviso così opprimente che non sembrava quasi inverno, ma estate, e estate piena. Poi avevano sentito le scarpe pesanti, da lavoratore, le scarpe da muratore, quelle grosse che dicevano aveva raccattate nel viaggio al ritorno e che per non sciuparle se l’era portate per tutti i carri bestiame con le stringhe appese in collo come alla somma d’un mulo.

    Avevano parlato poco assai, la Linda quasi per niente, che il suo l’aveva già detto a madre e fratelli i giorni prima, le tre volte quando Mammuccio veniva a passare il tempo sotto l’abbaino a stenditura e lei rientrava rossa sulle guance paffute e loro tutti a chiedere quando si sarebbe deciso, che era tempo e che la cosa sarebbe divenuta di poco piacere a continuarla in questo modo, e se lei avesse fatte le difficoltà, e la Linda aveva risposto che no, che di difficoltà non ne avrebbe fatte, che non aveva l’animo di farne.

    Sua madre aveva offerto il rosolio, e Salvatore, il maggiore che era stato come padre a tutti loro, aveva parlato del tempo e del caldo di dicembre inusitato. Poi s’erano stretta la mano, e lui se la sarebbe portata via.

    Ma subito no, che ci volle quasi un anno a partire, perché quegli Alleati che erano passati come un fulmine lontano a Gaeta che loro avevano visto solo le portaerei incastonate nella baia azzurra tra il promontorio e Formia, i Fritz li avevano bloccati nel fango di Anzio, avevano tirato su fortificazioni che avevano chiamato con quei nomi loro pieni e’ consonanti, e il tempo ci aveva messo la sua, che il caldo che c’era a mare aveva significato pioggia e diluvio appena sulle colline, e gli Americani erano rimasti impantanati con tutte le loro jeep pesanti, i camion e il reggio esercito che nessuno ci era voluto andare alla chiamata nuova alle armi per quel Re che se n’era fuggito subbito subbito, e tutti si imboscavano sulle colline e nelle forre, e quelli che ci si erano trovati a capitare gli intruppavano il passaggio buttati lungo i ciglioni delle mulattiere. E la guerra era diventata lunga e immobbile come una partita a scacchi che Erasmo e la Linda seguivano con la stessa ansia che gli pigliava quando era d’andare a dormire, che avevano una brandina e c’entravano in uno e mezza e ci dormiva accanto a Mimino che dovevano fare silenziosamente quando lui ci aveva tutta quella foga e le gambe di ferro del lettuccio cigolavano come avessero la sofferenza.

    Avevano preso qualche paesotto dietro la linea Gustav, e s’erano rifermati sotto l’abbazia di Montecassino, e incaponiti che la volevano prendere insieme ai polacchi, e finalmente avevano afferrato quel mucchio di macerie e erano arrivati a Roma, ma la grande impressione che tutti si aspettavano alla notizia non c’era stata, e ancora c’era niente da fare perché Terni era dura a prendere e scrivevano le gazzette che la stavano bombardando senza pietà e bene, ci sarebbe stato di che ricostruire, ma che si muovessero e ci facessero restare su qualcosa, che una città completamente morta poi non la si ritira su, la si dimentica.

    Quando s’era saputo che tutta l’Italia fino alle Romagne era ormai libera erano passate l’estate e l’autunno del ’44, e la branda aveva cigolato le cento volte e s’era rotta in mille punti, e stava a incominciare un inverno che non sarebbe stato caldo come a quello precedente.

    Mentre Erasmo e la Linda avevano pronte le sporte e il cartone per arrivare a piedi fino a Formia, e prendere il treno verso la Capitale, che da lì partivano, avevano detto, i pullmàn per le città dell’interno.

    2.

    A Gaeta, la guerra non l’avevano vista. C’erano state le navi al largo e in porto, prima quelle dei tedeschi con la prora irta di cannoni sempre puntati in alto e il castello centrale con i piani che si rincorrevano a torre fino in cima, poi gli americani, più larghe e basse con le antenne a poppa e a prua e gli aerei che ci atterravano sopra, che le portaerei a Gaeta le avevano viste solo verso la fine che quelle dell’Asse nel Mediterraneo avevano avuto da subito la vita maledetta, e in porto a Formia non c’erano arrivate mai.

    Ma la guerra, quella vera, non c’era stata.

    C’era stato il carcere militare su al castello in città vecchia, dove Mussolino prima ci era andato a rinchiudere i socialisti che lo scornavano in Parlamento e poi c’era finito qualche inglese dalla Libia e dall’Egitto, quando ancora si era provato a vincerla, la guerra, prima che Ciurcìllo e Montgomery si ripigliassero l’Africa e quel Rommel lì, a far dimenticare quante ne aveva prese, aveva provato pure ad ammazzare l’Hitler, senza riuscirci e pagandola con la testa.

    C’era stato l’andare e il venire. Dei nostri a conquistare la Libbia come voleva Mussolino, e dei Fritzi, che si chiamavano tutti così, quei porci di tedeschi, a dare una mano a Italo Balbo, che poi se n’era venuto giù con l’aereo già al giugno del quaranta e da allora le cose erano andate a fottersi, e c’era stato un ritornare che non si poteva né doveva chiamare ritirata ma che ritirata vera e propria era, e anzi rotta, e il venire avanti degli americani e degli inglesi che s’erano ripigliati tutto e anche di più, perché al quarantatrè già stavano in Sicilia e salivano così veloci che il Popolo d’Italia manco ce la faceva, a stargli al passo, e il Corriere nemmeno, che ti scrivevano che l’Aisenauer stava ancora a rompersi il muso sul Simeto e loro già festeggiavano a Catania e bombardavano il ponte di barche dei tedeschi per passare le truppe a Reggio come fosse sport nazionale, d’affogarli dal cielo, e a Settembre stavano ormai a un tiro di schioppo che le truppe da Gaeta erano partite la notte prima e la baia era rimasta azzurra e deserta di barche come non era stata mai. Ma il Popolo d’Italia aveva chiuso i battenti e adesso non c’era più nessuno che ti potesse dire come veramente stavano le cose.

    C’erano state le cartoline che descrivevano i luoghi e le date, e dove e quando, e per qualcuno neanche quello, come il padre della Linda, che il Cadorna dov’era militare se n’era andato al fondo del mare con tutto l’equipaggio, e alla mancanza e’ terra sopramenti avrebbe fatta corona quell’orrore al pensarne vagante tra le onde, eternamente.

    La guerra, Tonio l’aveva appena sfiorato. Le volte che era andato al porto con sua madre, la pancia ormai gonfia da scoppiare che ’Tore stava quasi a venirne fuori, al mercato del pesce la mattinata presta o a vedere gli incrociatori al largo quando era temporale e la pioggia spazzava la coperta delle navi illuminate a sprazzi dai fulmini che cadevano dal cielo e la montagna dietro al promontorio, quella flotta dietro l’isolotto in mezzo alla baia, tra lo scoglio di città vecchia e la curva ampia dove s’era adagiata Formia. La guerra l’aveva capita perché aveva visto in giro i Fritzi venuti di Napoli con le divise grigie e marroni che nel caldo ci schiattavano, il colletto abbottonato alla gola e la chiazza unta di sudore lungo tutta la schiena e sotta a le ascelle, l’aveva capita dal parlare strangio e straniero che si intendevano solo tra di loro, e dal bar Trestina in fondo al corso Indipendenza, che quando ci entravano loro a bere, dopo poco ne uscivano tutti gli altri, e tornavano a casa sputando in terra.

    L’aveva capita e conosciuta quando girava le giornate intere per città vecchia sempre deserta e ci passavano nel mezzo solamente i militari italiani su delle biciclette coi raggi anneriti dalla ruggine e le gomme sgonfie che fischiavano fuori l’aria, mentre i tedeschi stavano per lo più su a castello, e lui aveva preso a vagare in quell’interregno e’ nenti per i palazzi abbandonati gialli e marroni con le chiazze di bagnato grandi così, prima con gli altri ragazzi che ronzavano attorno a padre Cosma e poi solo, che erano stati tutti più grandi di lui e uno via l’altro se n’erano andati all’esercito e adesso chissà dov’erano, e se erano ancora. E c’era stata a quella volta, negli stanzoni di quei palazzi diroccati che anche il respiro ci faceva il rimbombo, quando al rumore delle gocce di melma che cadevano nelle pozze fangose dei saloni alla scuola vecchia ci si erano aggiunte quelle urla che sembrava stavano a scannare un cane, e lui non aveva potuto vedere bene, ché la stanza dove stavano a fare quella tonnara era dietro un muro spaccato e rotto che lo nascondeva, e le urla da cani però non erano di chi stava a soffrire, ma di non sapeva quanti dei Fritzi che ci avevano in mezzo la Maria, così almeno gli era sembrata la voce sua che ogni tanto chiamava alla madre, e loro dovevano stare tutti aggruppati che la luce che faticava traverso la finestra coi vetri ammuffiti gli spalmava le ombre allungate su tutte le pareti che sembravano i cento e i mille.

    E aveva pensato ci doveva essere un pezzo di ferro incastonato al soffitto, all’incontro tra i due muri, perché l’acqua ci si arrampicava sopra e, quando era gonfia, faceva la goccia. E a quell’idea si era aggrappato con gli occhi chiusi forte da fare male che non sentiva più le strilla della Maria che adesso andavano pure sopra la voce ai tedeschi e non chiamava neanche cchiù alla madre; poi aveva scoperto, nei rumori dalla strada, un’altra voce, familiare quando ci aveva ritrovato dentro al nome suo. Gli si era avvicinato tra i cunicoli delle stanze a secondo e terzo piano, sceso giù per la scala mezzo scassata che mancavano gradini e corrimano, fino a ritornarsene ne la piazza ingombra di macerie, a quel tono imperioso e di comando che gli conosceva.

    Ma per la prima volta s’era reso anche conto di quanto fosse debole, così gonfia e con le scarpe strascicate ai piedi, ch’erano tenute insieme con lo spago e si vedevano i piedi e i calli venirne fuori quasi aperti in due dal caldo e la fatica, e di quanto quel calore aggrumato la facesse soffrire, e s’era quasi sentito in dovere a proteggerla, a sua madre, che comandava a tutti, ma non a quelli, che anzi stava zitta quando la fermavano per la strada a controllare la sporta della spesa se faceva la borsa nera, e anche se non trovavano mai niente l’allontanavano con quella voce di cani ch’era insultante anche a non capirla, tanto bastava l’odio che ci comprimevano dentro.

    E quando passavano davanti alla scuola vecchia, sua madre si segnava.

    La scuola vecchia la conosceva assai, Tonio, la conosceva bene perché era stata a sanatorio per qualche mese, giusto per farci venire a morire i primi reduci di Libbia, come Salvatore suo fratello, il maggiore ch’era tanto grosso che neanche ’Tore l’avevi a chiamare, ma ’Tatore, che la jeep che guidava gli avevano dovuto togliere il sedile davanti e farlo stare su quello da retra, le gambe talmente lunghe che ci arrivavano anche così, alla frizione, e le mani che quasi lo squassavano, al volante, che i Fritzi l’avevano preso a ben volere, a ’Tatore, ch’era per loro fenomeno da circo e gigante che nessuno l’avrebbe ammazzato e invece era bastata la Libia e la malaria, che in tre mesi se l’era mangiato vivo ’ngoppa a un lettuccio che lui neanche c’entrava.

    Dalla scuola vecchia prima che ci venisse a morire ’Tatore, laddove padre Cosma aveva provato a insegnargli a tutti loro qualcosa del leggere e scrivere, andavano poi al porto dove il prete beveva coi pescatori di quel vino forte e dolce dell’uva ancora non fermentata, e bevevano fino all’ora di salpare ch’era notte avanti e lui li salutava con la frase usuale, che erano pescatori entrambi, loro di pesci e lui d’anime, che alla fine quando i tedeschi avevano chiuso anche la piccola chiesa, a pescare pesci c’era finito anche Cosma, e fino in fondo al mare.

    Da che era morto a ’Tatore, Tonio parlava poco e pensava troppo, dicevano a casa fratelli e madre, che il padre loro c’era stato sempre poco e stava al campo riva a mare che preferiva a vedersi l’uva che si gonfiavano fino a spaccarsi che la mamma gonfia d’un’atro figlio. Parlava niente, e se ne passava le giornate al balcone o a cima del vico a guardare la marea che entrava per le vie che finivano a mare e se ne ritornava portandosi via ’a munnezza che le comari ci venivano a lasciare alla mattina presta. Che avevano provato le cento volte a farci un argine, al mare in fondo ai vichi, ma il mare se n’era fottuto e s’era portato via anche quello, le cento volte, e fossero pure state le mille, le mille se ne sarebbe ingoiato. Che aveva ragione Mammuccio che lì a Gaeta c’era niente da fare come muratore, e lui pure se ne sarebbe partito con Erasmo, che aveva detto bbuono, e cosissìa, ché era fratello suo e quasi padre ormai, che la mamma era morta dell’ultimo Salvatore che l’era escito dal ventre e papà già dormiva da lungo tempo con l’altra, senza sentirne schifìo.

    3.

    Era così che era iniziata quella loro Odissea piccola, che andare da Gaeta verso la Capitale e di lì trovare modo di arrivare alla città senza mare da ricostruire sarebbe stata impresa, da combattere con guerra e dopoguerra che salivano l’Italia parimenti a Mammuccio, la Linda e Tonio, il minore. E sarebbe stata impresa ardua, che i tedeschi a Gaeta non l’avevano manco toccata, ma a Formia avevano fatto lo spauracchio d’Iddio, e il pontone che il Baccarini aveva fatto tirare su che non c’era nemmeno ancora l’Italia quella vera, l’avevano fatto saltare per l’intero, e tra Formia e Gaeta non c’era treno a passare, e dovevi arrivare a Minturno e forse su su fino a Teano a trovarne, laddove Garibbaldo s’era ammucciato col Re Terzo, e era nata lì quell’idea porca di andare tutti sotto ai piemontesi.

    Per andare a Formia, s’erano dovuti appattare co’ Ianni l’Itrano che ogni giorno ci annava a vennere le verdure dell’orto suo col carretto trainato dal somaro, Ianni l’Itrano perché era di Itri e parlava un parlare straniero come quelli della montagna, che non ci avevano il mare nella lingua, e erano più napuletani dei gaetani, che Gaeta era porto secolario, e le lingue s’erano ammischiate e messe in groppo e insieme sempre, e s’erano più evolute che sulla terraferma. Ma Ianni adesso a Gaeta manco ci veniva più a vennere, che la città passata la guerra era vota, vuota d’ommini e di animali, di cose e ppersone, e ogni juorno se n’annava a Formia a vendere del suo, e l’aveva caricati tutti ’ngoppa o’ carretto per cortesia pura, ché Ianni era uomo cortese con tutti, e gli piaceva averci compagnia nel viaggio.

    Qui a baia non fu come a promontorio. Qua i todeschi ci sono venuti a fare un sacramento de la Maronna, ci vennero una notte con le cariche di dinamite e fecero saltare per aria tutto il pontone della ferrovia che sembrava la notte dell’Annunziata coi fuochi d’artifizzio ma se la sono presa, con licenza parlando a la signora, in culo, che gli americani se ne sono sbarcati a Anzio e quelli che venivano su da Napuli, al pontone, ci passarono alla destra e alla sinistra, e i Fritzi si sono mangiati il cazzo.

    E la strata adesso suona libbera?, aveva chiesto Mammuccio, parlanno il più vicino possibbile all’Itrano, che Ianni manco lui sapeva fosse rabbercio di Gianni o Giuvanni.

    Fin’a Minturno c’è aria e spazio, che non ci sta più nessuno in miezzo, né l’ammericani né i todeschi, ma la strada ferrata è altra cosa, che hanno bombardato tutto come non gliene fottesse un cazzo che ci stavano alle persone anche quaggiù, e la ferrovia è spezzata fino a Cassino minimamente, che poi nun saccio…

    E ci aveva messi i puntini di sospensiva al fondo, proprio a significare che veramente lui non lo sapeva che ci fosse in tutta Italia oltre al confine del mercato di Formia.

    Io v’accunsiglio a chiedere a mercato a coloro che iammeno dal Minturno, che ne sanno se la strada ferrata pe’ Sparanise è funzionante o manca.

    E così era stato, che dal Minturno ne venivano a frotte, al mercato di Formia, con quella loro parlata napoletana che Erasmo c’aveva capito niente e s’era dovuto far interpetrare dall’Itrano ancora, e le cose stavano così: che di strada ferrata, a quanto ne sapevano tra i banchi di verdura accatastati nella piazza davanti a mare, neanche parlarne che se ne faceva un pezzo minimale e poi terminava in un cadavero di bomba o in un dirupo senza ponti e pontili, e da lì fino a Cassino era tutta una litania e’ distruzzione che sarebbe convenuto passare in qualche modo gli Ausoni e prima gli Aurunci e provare se a Fondi o a Terracina si viaggiava presto con la direttissima, che la piana del Pontino il Mussolino in fondo l’aveva servita bene e se qualcosa di ferrovia ci avanzava, lì si sarebbe trovata, di tutta Lazio e Campania.

    Avevano ringraziato l’Itrano, allora, e cercato chi fosse di quelle zone montane che avevano a varcare, di Maranola, d’Esperia o sant’Apollinare almeno, da arrivare al Liri e trovare poi modo di risalire, o dal fiume o dalla montagna, ma in mezzo alla tonnara del mercato che manco si sentivano la voce era stata impresa dalle mille e una notte. Che il mercato di Formia era un girone d’inferno, e ci vendevano tutte cose in banconi di legna buoni per accendere il fuoco, che si spaccavano in mezzo appena appena il peso a sopportarne era troppo, e era tutto un rumore come di scoppi e risuonare di bestemmie e maleparole, unto e bagnato in terra da farci guazza e piscina, che i pesci puzzavano e ne stavano lì da giorni accatastati in fondo alla piazza, e i cani che giravano a mostrarsi le zanne intorno il mucchio e n’ingozzavano fango e sangue insieme ai resti decomposti, per la fame e la rabbia che l’aggranfiava, e puzza, fetore e mosche su ogni cosa, addosso un palazzotto di quelli costruiti sotto al fascismo che adesso sembrava non c’era più e mezzo venuto in terra dalle cannonate, che era vero che la guerra a Formia c’era stata, e la città ne portava ferite.

    Che sopra al tutto, appena n’escivano da la piazza e mercato ancora abbitata e vissuta, centro e’ ritrovo e raccolta della popolazzione che ne sentiva ancora appartenere alla comunità ch’era stata ridotta d’un terzo bbuono dalle morti e le sparizzioni al fonno de la mareggiata, sopra era territorio vagante, un diserto e’ nulla violentato dalla devastazzione de’ bombardamenti da sembrarne quasi una montagna che afferrava alla gola per quel sapore e’ calce e calcina rasposo e quel fuoco e romore delle macerie ch’erano ridotte le viuzze più interne e che ne facevano torno, e che era stato anche per loro al subbito un respirare affannato e’ polvere di mattone, ché le donne soprattutte s’erano date allo sgombero delle macerie, e agli angoli delle strate c’erano montagne e cumuli, e i mattoni ancora boni venivano impilati e altre donne li ripulivano della terra e de la calce quasi pulverizzata che gli s’era attaccata ’torno, mentre i calcinacci, quelli che non si sarebbe potuto arrecuperare li avevano rovesciati nei crateri delle bombe, e quand’erano stati troppi, li caricavano coi camiòn che li portavano a rappezzare le voraggini che gli americani avevano fatte a Napoli. E alle volte qualche donna ne prendeva a’ capegli co’ l’altra, ché s’era missa in tasca qualche minuteria mezza rotta rinvenuta tra le macerie, e che teneva in conto come fosse a tesoro.

    E loro, nel vagare per via, avevano trovato allora uno del Monticello che doveva arrivare fino a sant’Oliva passati gli Aurunci, uno bravo e presto che trattava cogli americani lì al mercato a viso aperto, quando giravano co’ la benda bianca al braccio con su scritto EmmePpì e guardavano a tutti nelle sporte e nei sacconi a vedere se ci fosse qualcosa di troppo, di mercato nero, o di buono e d’arraffare, uno bravo e presto che la robba nascosta gliela faceva passare davanti al naso cucita dentro ai cadaveri degli animali che veniva a vennere.

    S’era offerto d’accompagnarli, ché tanto quella strada doveva fare, e due paia di braccia in più se avessero trovato il malotempo e il carretto si fosse impantanato avrebbero pagato il viaggio meglio di quelle am-lire porche che adesso gli Alleati facevano iniziare a girare, e lavorare di braccia ce ne sarebbe stato, e di gambe, che la strada s’inerpicava costa costa al ciglione che quando in piana c’erano i todeschi ci avevi da sotto chi ti sparava, e da sopra le frane pel malotiempo, che adesso i tedeschi non

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