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Storia d'Italia del Calcio e della Nazionale 1950 - 1994
Storia d'Italia del Calcio e della Nazionale 1950 - 1994
Storia d'Italia del Calcio e della Nazionale 1950 - 1994
E-book479 pagine6 ore

Storia d'Italia del Calcio e della Nazionale 1950 - 1994

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Info su questo ebook

Il ventennio fascista è alle spalle, è nata la Repubblica, ma non tutte le questioni sono risolte e il Paese è tutto da ricostruire. Anche il calcio torna a essere protagonista: a differenza degli altri Paesi dell’Asse, l’Italia viene riaccreditata nel consesso della FIFA e partecipa senza grande fortuna ai Mondiali del 1950, i primi senza Vittorio Pozzo. Gli anni Sessanta iniziano male, con la disfatta in Cile e la vergognosa sconfitta nei Mondiali del ’66 contro la Corea del Nord. A eccezione della Nazionale, si assiste a una crescita importante del calcio italiano: a dominare l’Europa e il mondo sono il Milan di Nereo Rocco e l’Inter di Helenio Herrera, che conquistano Coppe dei Campioni e Coppe intercontinentali. Con l’arrivo di Ferruccio Valcareggi alla guida della Nazionale gli Azzurri conquistano nel 1968 il Titolo Europeo. Gli anni Ottanta si aprono con la conquista del terzo Titolo mondiale di Spagna nel 1982. È il Mondiale di Enzo Bearzot, Paolo Rossi, Marco Tardelli, e altri grandi campioni.
LinguaItaliano
EditoreLab DFG
Data di uscita17 ott 2022
ISBN9791280642196
Storia d'Italia del Calcio e della Nazionale 1950 - 1994

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    Anteprima del libro

    Storia d'Italia del Calcio e della Nazionale 1950 - 1994 - Mauro Grimaldi

    A Paolo, Enzo, Azeglio, Ferruccio, Giacinto, Davide, Pietro, Pierino e a tutti quelli che se ne sono andati lasciando in noi il ricordo di questa grande storia.

    Collana

    Ad maiora semper!

    Mauro Grimaldi

    Storia d’Italia, del calcio e della Nazionale

    Uomini, fatti, aneddoti - Parte seconda (1945-1998)

    Prima edizione: giugno 2021

    © 2021 Lab DFG / Grimaldi

    ISBN 979-12-80642-19-6

    Copertina

    Paolo Castaldi

    Direzione editoriale

    Giovanni di Giorgi

    Lab DFG

    Via G.B. Vico n. 45-04100 Latina - Italia

    segreteria@labdfg.it / www.labdfg.it

    Amministratore

    Adriano Maria Zaccheo

    Marketing

    Francesco Borgognoni

    Editing e impaginazione

    Giulia Gabrielli

    Stampato in Italia

    Versione digitale realizzata da Streetlib srl

    Prefazione

    di Marco Tardelli

    Emozionante, appassionante, pieno di notizie ma soprattutto di momenti indimenticabili. Dalla lettura di questo libro si capisce quanto sia importante lo Sport per un Paese. Sono orgoglioso e onorato di avere partecipato, insieme ai miei compagni e al grande, indimenticabile Enzo Bearzot, per noi come un padre, a una delle varie rinascite del nostro Paese con la vittoria del Mondiale del 1982.

    Sì, perché è questa la verità, quella vittoria è rimasta negli occhi e nel cuore di tutti gli italiani perché ha rappresentato per una serie di coincidenze una vera e propria ripartenza per l’Italia, piegata da un decennio cupo e difficile. E noi abbiamo sentito sulla pelle tutta la responsabilità e la gioia di questa impresa. Ma la cosa che qui mi preme dirvi è che tutte queste Imprese hanno sempre un Padre, colui che riesce a infondere nelle menti di noi attori sul campo, i valori che poi aiuteranno a raggiungere traguardi inimmaginabili. E io la sensazione di aver trovato un padre che credeva in me l’ho proprio vissuta. L’onestà, la saggezza e la qualità umana di Enzo Bearzot riuscirono letteralmente a trasformarci, donandoci la forza e il coraggio di affrontare qualsiasi avversario e di superare ogni ostacolo.

    In Italia questo miracolo è avvenuto più volte, già con Alcide De Gasperi, che in un momento buio per il nostro Paese chiamò al telefono Gino Bartali e gli chiese l’Impresa, che al nostro toscano focoso riuscì meravigliosamente, vincendo il Tour. Anche il nostro Presidente Sandro Pertini nel 1982 chiamò Bearzot, avendo individuato il leader di un gruppo compatto, forgiato a sua immagine e somiglianza, e gli chiese la stessa impresa, raggiunta poi quell’11 luglio di quasi quaranta anni fa e ancora scolpita nei nostri cuori.

    È importante per tutti e soprattutto per i giovani avere degli esempi da seguire e lo sport italiano fortunatamente ne è ricco. Nelson Mandela scrisse parole definitive sull’argomento «lo sport ha il potere di cambiare il mondo», ma aggiunse anche «lo sport ride in faccia a ogni tipo di discriminazione». E io, che mi emoziono alle lacrime ogni volta che rivedo le immagini delle gesta leggendarie di Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino del 1936, ne sono fermamente convinto.

    Per carità, non credo che siano solo le vittorie sportive a far ripartire un Paese, ma certamente possono riaccendere la fiammella della speranza nel momento in cui diventa sempre più flebile. E oggi ne abbiamo tanto bisogno.

    Campi, piscine, piste di atletica e ogni luogo dove si pratica lo Sport, diventano zone franche di purezza e armonia, dove solo la meritocrazia, la professionalità, la passione e il sacrificio possono vincere. Questo è lo Sport. Non sporchiamolo, non facciamolo diventare ciò che non deve essere.

    Capitolo I

    La nuova Italia

    1.1 Le elezioni del 1948 e l’attentato a Palmiro Togliatti

    Lo scenario che si apre sull’Italia alla fine del 1945 è alquanto desolante. Le macerie non sono che l’ultima tragica immagine di anni di sofferenze che hanno spaccato in due un intero Paese, dividendo le coscienze degli italiani. La ricostruzione, oltre che materiale, è soprattutto morale. Vecchi rancori, atroci vendette segnano quei primi mesi del dopoguerra ma la voglia di ricominciare a vivere s’impone su tutto.

    La pace, quella vera, finalmente era arrivata. La gioia degli italiani si confondeva con lo slang degli americani, che ancora numerosi, si godevano la vittoria. Le strade delle città erano invase dalle jeep grigioverdi che distribuivano di tutto: caramelle, cioccolata, marmellata, sigarette. La gente sembrava impazzita. Ogni piazza, ogni via è un’occasione per festeggiare. Nell’aria si respirano i ritmi del boogie-woogie. Sono i primi segnali di un’euforia popolare che si scatena alla luce della rinata speranza. Probabilmente fu proprio questo clima di ritrovata fiducia che segnò questi primissimi anni del dopoguerra a dare maggiore impulso alla ricostruzione e ad attenuare gli incubi della guerra, nonostante la difficile realtà che ancora interessava il Paese.

    Il Paese è in ginocchio: i disoccupati sono, secondo i dati ufficiali, oltre due milioni. Non c’è molto da mangiare: la spesa alimentare è scesa dai 60 miliardi del 1938 ai 37 del 1945. Bisogna ricostruire tutto. Mancano le case, scarseggiano i servizi assistenziali, su tutti scuole e ospedali, l’energia elettrica è razionata.

    Quest’Italia disperata trova però la forza di rialzarsi e voltare pagina. Il 2 giugno del 1946, con un Referendum istituzionale, 12,7 milioni di italiani scelsero la Repubblica come nuova forma di governo, lasciandosi alle spalle anni di dittatura e di una monarchia incapace e vigliacca. Il 13 giugno del 1946 l’ultimo Re d’Italia, Umberto ii di Savoia – che aveva regnato dal 9 maggio al 10 giugno – lasciò l’Italia per raggiungere il padre, Vittorio Emanuele iii, nell’esilio portoghese, chiudendo definitivamente la storia della monarchia italiana.

    Capo provvisorio dello Stato fu eletto, nell’Assemblea Costituente del 28 giugno 1946, Enrico De Nicola, che ricoprì tale carica fino al 31 dicembre 1947. Dal primo gennaio 1948, in accordo con la norma della prima disposizione transitoria e finale della Costituzione della Repubblica Italiana, esercitò le attribuzioni e assunse il titolo di Presidente della Repubblica Italiana, mantenendoli fino al successivo 12 maggio, con la nomina di Alcide De Gasperi a Presidente del Consiglio. Pochi giorni prima, il 28 dicembre del 1947, moriva ad Alessandria d’Egitto, Vittorio Emanuele iii. Il giorno dopo venne firmata la Costituzione italiana che con la xii disposizione finale mise al bando dall’Italia i Savoia.

    L’Italia, quindi, si affacciava in quell’Europa del secondo dopoguerra con un nuovo assetto costituzionale, ma doveva confrontarsi con grandi difficoltà, segnate da gravissime tensioni sociali e dall’attentato a Palmiro Togliatti, in pieno clima elettorale. Un evento che rischiò di scaraventare il Paese nel baratro della guerra civile.

    Alle 11.30 del 14 luglio 1948 Togliatti viene colpito da tre colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata da uno studente in Giurisprudenza, Antonio Pallante, mentre stava uscendo da Montecitorio in compagnia di Nilde Iotti. Sopravvive, grazie alle abili mani del chirurgo Pietro Valdoni, che lo opera d’urgenza.

    La notizia dell’attentato, però, scatenò disordini e morti in numerose città, alimentando una violenta guerriglia tra comunisti, anticomunisti e forze dell’ordine. Nella sola giornata del 14 luglio si contarono 14 morti, tra cui quattro agenti di pubblica sicurezza, e centinaia di feriti. La situazione rischiò di andare fuori controllo quando il segretario della CGIL, Giuseppe Di Vittorio, proclamò lo sciopero generale. A Torino, gli operai della FIAT sequestrarono l’amministratore delegato, Vittorio Valletta. È il caos. Buona parte dei telefoni pubblici smettono di funzionare e si blocca la circolazione ferroviaria: l’Italia sembra essere ritornata sull’orlo della guerra civile.

    Fu proprio Togliatti, dopo l’intervento chirurgico, a richiamare il Paese alla calma e a imporre ai membri più importanti della direzione del PCI, Secchia e Longo, di sedare gli animi e fermare la rivolta.

    Alcuni storici, ma qui sconfiniamo anche nella leggenda e nel mito, attribuiscono gran parte del merito di questo ritorno alla normalità a una grande impresa sportiva, quella di Gino Bartali, al Tour de France, che vale la pena ricordare. L’ultima vittoria italiana al Tour risaliva esattamente a dieci anni prima proprio con Bartali, ma nel 1948 il campione, ormai trentaquattrenne, faticava a tenere il passo dei più giovani, tanto che dopo le prime tappe il distacco dall’astro nascente francese, Louison Bobet, era di venti minuti. Il giorno successivo all’attentato, il 15 luglio, il Tour si era mosso da Cannes per affrontare una complessa tappa di montagna, con la scalata del mastodontico Col de l’Izoard. Proprio qui, Gino Bartali sferrò l’attacco decisivo che costò a Bobet svariati minuti di vantaggio, che però mantenne, seppur di poco, la maglia gialla.

    Qui si inserisce la parte politica. La sera del 15 luglio, Bar-tali ebbe una conversazione telefonica con Alcide de Gasperi, leader della Democrazia Cristiana, che lo chiamò in albergo. I contenuti non sono mai stati resi noti ma è intuibile che la richiesta sia stata quella di fare l’impresa, di vincere il Tour, di dare un segnale forte di unità al Paese. I fatti dicono che il giorno dopo Bartali, dopo 263 chilometri, arrivò per primo sul traguardo di Aix-les-Bains conquistando tappa e leadership.

    La grande rimonta del campione toscano ebbe una vasta eco in Italia. Milioni di italiani restarono incollati alla radio per seguire un’impresa ritenuta impossibile e Bartali non li deluse tagliando il traguardo finale sugli Champs-Élysées a Parigi in maglia gialla. Ora è difficile dire se questa vittoria fu determinate per ristabilire la pace sociale nel Paese ma sicuramente contribuì ad affievolire le tensioni.

    Alla fine degli anni Settanta, il cantautore Paolo Conte dedicò una celebre canzone al campione toscano richiamando proprio questa impresa, sintetizzando in pochi versi quei giorni: «E vai che io sto qui e aspetto Bartali / Scalpitando sui miei sandali / Da quella curva spunterà quel naso triste da italiano allegro / Tra i francesi che s’incazzano / E i giornali che svolazzano / C’è un po’ di vento abbaia la campagna / C’è una luna in fondo al blu».

    In quello stesso anno c’erano state le elezioni del 18-19 aprile, in cui Alcide De Gasperi aveva ottenuto con la Democrazia Cristiana un’importante vittoria elettorale, con il 48,51% dei voti, proprio nei confronti del PCI di Palmiro Togliatti. Questa vittoria collocò definitivamente l’Italia nella sfera d’influenza occidentale, ipotecando il futuro della storia politica del Paese. Il successo democristiano, tra l’altro, rassicurò anche gli Stati Uniti, che erano già pronti a togliere gli aiuti economici all’Italia in caso di vittoria dei comunisti:

    «Se il popolo italiano voterà per affidare il governo a un potere nel quale l’influenza dominante spetti a un partito la cui ostilità al programma assistenziale americano è stata ripetutamente e clamorosamente espressa, dovremmo concludere che il popolo italiano desidera dissociarsi da tale programma».¹

    Gli americani, tra il 1947 e la metà del 1948, avevano rappresentato una voce significativa nel sostentamento del nuovo corso politico, contribuendo con 300 milioni di dollari alla prima fase di ricostruzione che, attraverso il Piano Marshall, già alla fine degli anni Quaranta, era ormai vicina alla sua conclusione. Tra l’altro l’Italia, proprio nel 1948, aveva già aderito agli organismi europei dell’OECE (Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea) e del Consiglio d’Europa. Dopo le elezioni completò l’integrazione nello schieramento occidentale con l’adesione alla NATO (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord) e alla CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio).

    Il nuovo modello sociale che si stava delineando impose un totale cambiamento di rotta nelle politiche economiche. Si assisté, così, a un primo progetto di riforma agraria e con l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno si cercò di dare una prima risposta alla questione meridionale. Ma è un percorso complesso che si deve confrontare con la realtà di un Paese ancora in grande difficoltà.

    Già nel 1950 – anno in cui si aprì ufficialmente il Giubileo, che avrebbe portato a Roma più di un milione e mezzo di pellegrini – l’Italia, almeno sotto l’aspetto della stabilità politica, è un Paese ormai normalizzato. Il reddito nazionale è passato dai sei miliardi del 1947 ai quasi dieci del 1951. L’inflazione è sotto controllo. Il costo dei principali beni alimentari, come pane, carne e latte, è sensibilmente diminuito. La fase più delicata sembra superata. Nel 1950 la ricostruzione è ormai in fase di ultimazione. Il Prodotto Interno Lordo, rispetto all’inizio del conflitto mondiale, è cresciuto.

    Anche l’industria e la finanza avevano ripreso vitalità e nel 1953, sotto la stella di Enrico Mattei, nasceva l’ENI, ente per la ricerca e l’approvvigionamento di idrocarburi, dove lo Stato diventava imprenditore di se stesso per impedire le manovre speculative sul mercato petrolifero attuate dalle compagnie americane. L’intuizione di Mattei – che nel 1945 era stato nominato liquidatore dell’Agip – di creare una multinazionale del petrolio tutta italiana lo colloca tra i principali artefici del miracolo economico italiano postbellico, ma con l’effetto di mettersi in contrasto con le grandi compagnie petrolifere. Morirà in un incidente aereo il 27 ottobre del 1962, vittima di un attentato.

    L’Italia inizia così ad avvicinarsi sempre di più alle importanti realtà europee recuperando gradualmente quelle distanze che la tragedia della guerra le aveva imposto. Lo sport in tutto questo mutuò sia gli aspetti positivi che negativi, restando nella pratica un’attività riservata ancora a una minima parte della popolazione. Ma nel consumo dello spettacolo riuscì a coinvolgere l’intera nazione, soprattutto nel calcio dove gli stadi iniziarono a riempirsi di nuovo. I dati di quegli anni evidenziano questo trend:

    «Nel 1947 la spesa complessiva degli italiani per assistere ai vari spettacoli si attestò sui 40 miliardi, il ventesimo del bilancio statale. La media di spesa di 851 lire pro capite l’anno era così ripartita: 622 per il cinema, 85,80 per balli, fiere e parchi divertimenti, 76,10 per il teatro e 67,05 per lo sport. Ogni cittadino andava quindi in media 11 volte all’anno al cinema e 1 volta ogni 3 anni allo stadio».²

    Il principale riferimento sportivo continuò a essere il CONI che attraverso un forte opera di mediazione con le parti sociali e politiche, riuscì a rafforzare la sua posizione, acquisendo un vero e proprio monopolio nella gestione delle attività sportive.

    1.2 La rinascita dello sport e le fonti di finanziamento

    Il ventennio fascista era stato caratterizzato da una forte propensione alle politiche sportive con l’intervento diretto dello Stato che aveva ridisegnato l’organizzazione dello sport e dotato il Paese di un importante patrimonio immobiliare fatto di stadi polivalenti e palestre. All’indomani dell’8 settembre 1943, con la nascita della Repubblica Sociale Italiana, tutti gli organismi sportivi erano stati spostati al Nord, creando una duplicità degli enti. Con l’arrivo delle truppe alleate a Roma nel giugno del 1944, i partiti posti all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale iniziarono una spartizione sistematica dei vari enti.

    In questo passaggio, al Partito Socialista fu assegnato il Comitato Olimpico Nazionale e il 21 ottobre del 1944 un giovane avvocato in quota socialista, Giulio Onesti, fu nominato commissario liquidatore del CONI. Il primo impatto con la nuova realtà non fu dei più semplici. Onesti si trovò di fronte a una situazione complessa, con un’organizzazione territoriale inesistente, gli impianti distrutti e, venuto meno il sostegno dello Stato, senza risorse economiche. A questo andava aggiunto il disinteresse della nuova classe politica, che riteneva lo sport non funzionale al nuovo corso storico ed espressione del vecchio regime fascista.

    Onesti si rese subito conto che la nuova Italia non si poteva permettere di rinunciare a uno dei maggiori strumenti di aggregazione e socializzazione, soprattutto in un momento così delicato nel quale la gente aveva bisogno di modelli in cui identificarsi. Per questo motivo scelse di mantenere in vita l’unica struttura che avrebbe potuto salvare lo sport italiano, cioè lo stesso CONI. Nel frattempo, a settembre, aveva già nominato i primi reggenti delle Federazioni sportive nelle more di una sistemazione in senso democratico dell’organizzazione sportiva vincolata alla fine della guerra.

    Il primo problema che si pose fu quello della riunificazione delle due realtà che erano nate con la Repubblica Sociale cioè il CONI, quello con sede a Roma da lui diretto e il CONI-Alta Italia con sede a Milano, guidato dal commissario democristiano Alessandro Frigerio, il quale, con una visione del tutto restrittiva sui futuri scenari che si stavano delineando, intendeva ridisegnare il nuovo organismo attuando radicali modifiche strutturali e regolamentari. Frigerio interpretò il suo ruolo in maniera rigida ponendosi come una sorta di antagonista nei confronti del CONI di Onesti. Ulteriore confusione si determinò a seguito della nomina, per ogni Federazione facente riferimento al commissario dell’Alta Italia, di un reggente. Per quanto riguarda la Federazione Calcio, Frigerio individuò come reggente l’avvocato Giovanni Mauro, dirigente di lungo corso e di vasta esperienza che era stato legato a doppio filo con il regime; mentre Giulio Onesti, come reggente della FIGC del Centro-sud, scelse un ex calciatore, Fulvio Bernardini, anche lui con un grande passato, laureato e primo calciatore dell’allora Lega Sud a essere convocato in Nazionale. La sua fu una scelta in contrasto con i canoni rappresentativi che fino ad allora avevano distinto la dirigenza delle Federazioni sportive.

    Con Bernardini il segnale dato da Onesti era quello di un taglio netto con il passato – del quale Giovanni Mauro aveva rappresentato un riferimento importante – interpretando così, in modo perfetto, il passaggio fra il ventennio fascista e l’età liberale. Sul ruolo e la figura di reggente di Bernardini deve essere spesa qualche parola in più. Innanzitutto, deve essere sottolineato che il suo fu un impegno di grande rilievo, tanto che per rilanciare la Federazione e per far riprendere l’attività calcistica nel Centro-sud, non esitò a utilizzare anche il suo patrimonio personale, affrontando anche un viaggio di due settimane che toccò tutti i principali centri calcistici meridionali. Ma il suo merito, in questo delicato passaggio storico, fu quello di avviare, a differenza di molti, una vera epurazione in seno alla Federazione dei vecchi legami con il fascismo, cosa evidentemente non gradita alle vecchie nomenclature che portarono a frenare questa azione di rinnovamento costringendo Bernardini, il 2 novembre del 1944, dopo appena quattro mesi dalla sua nomina, alle dimissioni.

    Interessanti le parole rivolte a Giulio Onesti con cui accompagnò le dimissioni:

    «Ho chiaramente capito dallo scambio di idee dell’ultima riunione dei Reggenti e dalle tue dichiarazioni alla Stampa romana che si lavora per mantenere intatto e inalterato il complesso CONI anteriore al trapasso dall’occupazione tedesca alla liberazione alleata, con nocumento evidente di quell’autonomia morale e finanziaria che porterebbe alle federazioni autorità e libera iniziativa».³

    In effetti Bernardini aveva interpretato correttamente la situazione che si stava sviluppando attorno al nuovo corso, dove Onesti aveva scelto una via meno cruenta per mantenere alcuni equilibri politici che inevitabilmente non erano stati toccati neppure con la caduta del fascismo. Vero è che questa impostazione prevalse sui successivi percorsi storici fino a che molte figure legate al fascismo furono gradualmente riabilitate grazie all’amnistia del 22 giugno 1946, voluta dal ministro di Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti. A dimostrazione di questo è la nomina, al posto di Bernardini, di Ottorino Barassi già segretario generale della FIGC durante il regime fascista con le presidenze di Vaccaro e Ridolfi, il quale non solo riuscì a evitare processi mediatici e politici ma riuscì a identificarsi con il nuovo corso liberale del calcio italiano, facendosi eleggere, nel maggio del 1946, presidente della FIGC, carica che mantenne fino al 1958, quando fu costretto a dimettersi per la mancata qualificazione ai Mondiali.

    Solo un mese dopo, il 25 giugno, si sarebbe insediata l’Assemblea Costituente della Repubblica italiana. Di conseguenza i vecchi organismi autoritari furono abrogati e istituito un Consiglio federale. La sede della FIGC restò a Roma, quella della Lega Nazionale a Milano, mentre a Genova fu stabilita la sede della Commissione d’Appello Federale. Anche il settore arbitrale fu oggetto d’interventi radicali, con l’abolizione della vecchia Cita di derivazione fascista, che cessò di esistere per lasciare il posto all’Associazione Italiana Arbitri (AIA), la quale si riappropriò della direzione tecnica di tutte le gare nonché della funzione di formazione dei nuovi arbitri.

    Tornando all’abile lavoro di Giulio Onesti, va detto che grazie alle sue ottime doti diplomatiche e strategiche fu possibile, nel febbraio 1946, riunificare il CONI. Nel 1947, approfittando della scissione dei socialisti a Palazzo Barberini, Onesti prese le distanze dalla politica per avviarsi verso un progetto di uno sport autonomo lasciando comunque aperto il rapporto con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il democristiano Giulio Andreotti attraverso cui il CONI, con il decreto-legge n. 362 dell’11 maggio 1947, passò alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio, conservando la propria struttura gerarchica all’interno dello sport. Una volta approvata la legge istitutiva del CONI bisognava trovare i fondi per dare una reale autonomia allo sport, dopo che per un ventennio era stato a totale carico dello Stato fascista.

    Il radicale cambiamento storico e le difficili condizioni economiche avevano imposto un’inversione di rotta che si concretizzò con il Decreto Legislativo luogotenenziale n. 76 del marzo 1945, con cui tutti i contributi dello Stato in favore del CONI furono soppressi. Onesti intuì la necessità di creare una fonte di reddito:

    «Per far fronte alle impellenti necessità finanziarie dagli esperti mi fu consigliato il cespite del totalizzatore sul calcio che, tentato in passato ripetutamente dal CONI, non era mai stato approvato dalle autorità governative. Sperai di aver miglior fortuna dei predecessori prospettando al governo che la concessione avrebbe forse potuto diminuire, sia pure in piccola parte, le immancabili richieste che lo sport avrebbe dovuto avanzare allo Stato per i compiti della preparazione olimpica, che sono un vero dovere nazionale, visto che la richiesta di ritornare a favore dello sport una parte – se non del tutto – dell’ammontare delle tasse erariali sulle manifestazioni sportive, non era stata accolta dal Ministero delle Finanze».

    In realtà nel 1936, durante il ventennio, si era già aperta una discussione sull’istituzione di un gioco di scommesse sul calcio che non ebbe seguito «anzitutto perché il CONI godeva di mezzi finanziari forniti dallo Stato in misura sufficiente, anche se non notevoli, e quindi non sentiva il bisogno di procurarsi quest’altra fonte d’entrata».

    Solo nel secondo dopoguerra, quindi, si ritornò a ragionare sull’istituzione di un concorso pronostici basato sul calcio. Con un’istanza al Ministero dell’Interno, il 19 novembre 1945, Giulio Onesti chiese l’autorizzazione per il CONI all’esercizio di totalizzatori, scommesse e concorsi sportivi sulle manifestazioni sportive disciplinate dall’ente. L’obiettivo era quello di finanziare in maniera autonoma lo sport e affrancarlo dal controllo del potere politico e di «stimolare l’interesse del pubblico verso le competizioni sportive, nonché l’opportunità di dare vita a imprese legali e controllate di gioco al posto delle insopprimibili iniziative clandestine ovunque pullulanti».

    Il Ministero dell’Interno accolse la richiesta e autorizzò il CONI a «esercitare totalizzatori e scommesse a libro nonché a organizzare concorsi anche in accordo con altri enti o società promotrici. In particolare fu previsto che il Questore di Roma rilasciasse al CONI l’autorizzazione a gestire il totalizzatore e a organizzare il concorso a pronostici per il campionato di calcio».

    Onesti, consapevole che il CONI non era in grado, almeno in quella fase di avvio, di gestire direttamente il progetto, nominò una Commissione con lo scopo di esaminare le varie domande ricevute. La scelta ricadde sulla società gestita dal giornalista sportivo Massimo Della Pergola, giornalista di famiglia ebraica che, con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938 era stato internato a Pont de la Merge, in Svizzera. Durante la prigionia incontrò alcuni colleghi che lo introdussero nel mondo delle scommesse sportive. Tornato in Italia fondò la S.p.A. Sisal Sport Italia, per realizzare un concorso pronostici.

    Con propria delibera il CONI, il 19 gennaio 1946, decise di affidare l’incarico di organizzare e gestire per proprio conto i concorsi pronostici abbinati alle partite di calcio per i campionati delle stagioni 1946-1947 e 1947-1948 alla Sisal. Il contratto di gestione prevedeva, tra le altre cose, quale corrispettivo alla società, a titolo di compenso e di rimborso delle spese, il 27% sugli incassi lordi, con una scala decrescente fino al 18% in relazione alla media degli incassi lordi relativi a ogni concorso.

    La prima schedina, giocata il 5 maggio del 1946, fu stampata in 5 milioni di copie al prezzo unitario di 30 lire. L’equivalente di un bicchiere di liquore consumato in un bar. Le schedine giocate, però, furono circa 30.000. La poca adesione fu dovuta al fatto che in quei mesi l’attenzione degli italiani era rivolta al referendum istituzionale e all’elezione dell’Assemblea Costituente. Alla base della scarsa adesione anche una mancanza di organizzazione che delegava ai venditori la distribuzione delle schede, il borderò, l’impacchettamento e la spedizione nel centro di raccolta per lo spoglio.

    Se a regime questa divenne una prassi normale, all’inizio si andò a scontrare con una mentalità molto chiusa e lontana anni luce dalla dinamicità del nuovo gioco. Ci volle tutta la caparbietà di Massimo Della Pergola e una serie di trovate pubblicitarie, per far decollare il gioco che già dalla stagione 1946-47, registrò un introito lordo di oltre 7 miliardi di lire, per passare, in quella successiva, a quasi 9 miliardi, che assegnò il primo 12 multimilionario da 63 milioni.

    L’inaspettata crescita delle entrate, anche su pressione del Ministero delle Finanze, il quale non poteva accettare l’esclusione dello Stato da questi introiti, portò all’approvazione del decreto-legge n. 426 del 14 aprile 1948 Disciplina delle attività di giuoco, convertito, poi, nella Legge n. 342 del 22 aprile 1953, con cui venivano riservati allo Stato tutti i diritti sui giochi di abilità e i concorsi pronostici, riservando però al CONI e all’UNIRE i concorsi a pronostico sulle manifestazioni sportive e ippiche.

    Il CONI, quindi, interrotto il rapporto con la Sisal, assunse a sé l’organizzazione del concorso. Tra le altre disposizioni, la nuova codifica legislativa, prevedeva una diversa ripartizione degli utili nella misura del 48% per il montepremi (anche quando la schedina, nel concorso del 21 gennaio 1951, aumentò da 12 a 13 il numero dei risultati da indovinare); del 23% quale imposte allo Stato; del 25% al CONI e del 4% alle ricevitorie. Quote, queste, modificate, successivamente nel 1965, anno in cui il montepremi toccò quota 21 miliardi, nella misura del 38% agli scommettitori; del 26,5 % ciascuno allo Stato e al CONI e del 9% alle ricevitorie. Il Totocalcio contribuì anche a migliorare la cultura del tifo calcistico stimolando gli appassionati ad approfondire le loro conoscenze tecniche e a seguire con maggiore presenza e attenzione il Campionato, dando così un forte impulso a tutta l’editoria sportiva di settore.

    Con la normalizzazione dello scenario politico ed economico lo sport riprese, pur tra mille difficoltà, la propria attività agonistica. Ad aprire la nuova stagione, il 15 giugno del 1946, all’indomani del referendum istituzionale tra Monarchia e Repubblica, fu il Giro d’Italia. In un Paese ancora devastato da Nord a Sud dagli effetti dei ripetuti bombardamenti, con poche vie di comunicazione e ponti distrutti, il Giro, seppure limitato a sole quattordici tappe, fu il primo vero segnale di ripresa che unì tutto il Paese. A vincerlo fu Gino Bartali, seguito a una manciata di secondi da Fausto Coppi. La rivalità tra i due campioni divise l’Italia anche politicamente, con Bartali emblema del centro legato alla Democrazia Cristiana e Coppi della sinistra.

    Un altro evento sportivo che diede un forte segnale di ritorno verso la normalità furono le Olimpiadi di Londra del 1948, che riaccesero una nuova speranza nei popoli. L’eroe italiano di quei Giochi fu Adolfo Consolini, che vinse l’oro olimpico nel lancio del disco. Sempre ai Giochi di Londra nasce la leggenda della Nazionale italiana di pallanuoto, il Settebello, che conquistò la medaglia d’oro.

    Ben presto lo sport rientrò di prepotenza nella vita degli italiani, registrando un aumento della spesa per lo spettacolo sportivo e la crescita del numero dei quotidiani che si occupavano esclusivamente di esso. Giornali, radio e televisione rappresentarono il maggior veicolo di diffusione e i campioni dello sport divennero, di lì a poco «i nuovi miti della società del benessere e del consumismo, che, accanto ai tradizionali valori – nazionalismo, eroismo, disciplina, sacrificio, ecc. – esaltano l’intraprendenza, la competitività, il successo economico e sociale».

    Ormai il mondo dello sport era ripartito. Anche il mondo del calcio, come evidenziato, aveva avviato quel necessario processo di normalizzazione, oltre che con la ricostituzione dei suoi vertici, anche con la costituzione di una Lega Nazionale Alta Italia, al Nord, per la gestione del campionato dell’Alta Italia. Quest’ultimo, di fatto, riprendeva il Campionato di Serie A nella sua composizione prebellica che si era fermata alla stagione 1943-1944. Invece nel Centro-sud, a causa delle poche società aventi diritto a disputare la massima serie – in sostanza quattro, compreso il Bari che era retrocesso – la situazione era più complicata. Per cui la Lega Nazionale Centro-sud si ritrovò a gestire un campionato misto di Serie A e B. Al termine della stagione regolare le prime quattro classificate di ogni Lega si sarebbero qualificate per un girone finale che avrebbe determinato la vincitrice dello scudetto.

    Da notare che molte squadre si scrollarono di dosso i residui del fascismo ritornando alle loro denominazioni originarie, come l’Ambrosiana-Inter, il Milano e il Genova 1893 che tornarono a chiamarsi Inter, Milan e Genoa. Così come la Sampierdarenese e l’Andrea Doria tornavano a disputare separatamente la massima serie dopo la forzata fusione voluta nel 1927 da Augusto Turati, Segretario del PNF, per inserire la neonata Associazione Sportiva Roma nel nuovo organigramma della Prima Divisione. L’opera di bonifica dei vecchi statuti fascisti, avviata all’indomani dell’elezione di Barassi, permise di avviare un processo di normalizzazione già dalla stagione 1946-47, con il ritorno al girone unico nazionale sulla base di 20 squadre, oltre la Triestina, con la previsione di tre retrocessioni, mentre la Serie B fu inquadrata su tre gironi e la C su base interregionale. Questo, in sintesi, lo scenario alla viglia degli anni Cinquanta che era stato segnato drammaticamente dalla scomparsa del Grande Torino a Superga nel 1949.

    1.3 La nuova legittimazione del calcio italiano a livello internazionale

    Altro tema era la questione internazionale e i rapporti con la FIFA dove l’Italia, insieme agli altri Paesi dell’Asse, era stata relegata in una sorta di quarantena a seguito dei processi sanzionatori previsti dai vincitori del conflitto. Va anche detto, però, che la posizione italiana, per una serie di vicende politiche che si legavano all’Armistizio del settembre del 1943 e alla Resistenza contro i tedeschi, si differenziava dalle altre nazioni.

    Alla chiusura del resto del mondo calcistico, ci fu un solo Paese che cercò di riallacciare i rapporti bilaterali con l’Italia, cioè la Svizzera. Come noto il Paese elvetico era rimasto neutrale nel conflitto e quindi immune dalle distruzioni che avevano subito gli altri Paesi europei, per cui aveva mantenuto tutte le relazioni diplomatiche. Tra l’altro, dopo la liberazione, la Svizzera fu il primo Paese con cui l’Italia stipulò degli accordi commerciali che, di fatto, aprirono una serie di scambi anche di carattere sportivo. Nel settembre del 1945, il Torino giocò un’amichevole con il Football Club Lausanne e di conseguenza la Federazione, alla luce di questa apertura, aveva avviato una serie di trattative per organizzare un’amichevole tra le Nazionali maggiori. Le principali difficoltà derivarono non tanto dalla volontà della Federazione svizzera, quanto dai numerosi impegni che quella Nazionale aveva già assunto proprio in funzione di questa sua situazione privilegiata rispetto al resto d’Europa, per cui si era convenuto di avviare questo nuovo percorso attraverso un incontro tra Nazionali B della Svizzera e una rappresentativa dell’Alta Italia, da disputarsi a Locarno l’11 novembre. Tra l’altro fu concordato che le due Nazionali svizzere avrebbero disputato, il 31 ottobre, due partite amichevoli di allenamento con due squadre italiane, il Torino e il Genoa. I rapporti tra le due federazioni sportive erano ormai avviati e questo favorì il nostro Paese quando, di fronte alla rinuncia della Spagna che doveva incontrare la Svizzera l’11 novembre, l’Asfa invitò l’Italia che, chiaramente, non si lasciò sfuggire l’occasione che gli era stata offerta su un piatto d’argento. Ad annunciarlo, carica di enfasi per l’inaspettata amichevole, fu il 10 novembre del 1945 la Gazzetta dello Sport:

    «Sono passati sei mesi […] dalla fine della guerra, tutto scabroso e ambiguo sul piano dei nostri rapporti internazionali, c’è chi ci vuole e c’è chi non ci vuole, c’è chi ci ama e chi dice semplicemente di amarci. […] Un’inerme e festosa truppa di giovanotti valica il confine e va all’estero. […] Fanno gli ambasciatori, e non già per equivoca virtù della dilatazione parodistica di un termine proprio della diplomazia. Ambasciatori di gioventù e buon costume, sono, in definitiva ambasciatori senza feluca e dossier di un Paese onesto che, nonostante gli errori e le sventure, sa d’essere degno di universale rispetto, e di onore. […] Diciamo grazie in piedi, a voi amici svizzeri. Voi intendete questo ringraziamento da sportivi e la vigorosa vostra stretta di mano ha il valore delicatissimo d’una intuizione che ci commuove e vi onora. A voi diciamo anche questo amici svizzeri. L’ultima cosa che ci preoccupa per domani a Zurigo e a Locarno è il risultato delle due partite. […] Amici svizzeri: col vostro invito ci avete donato questo alto privilegio ch’è d’amore, di civiltà, di vita. Noi sportivi italiani non lo dimenticheremo».

    Inaspettata perché a pochi mesi dalla fine del conflitto, l’immagine dell’Italia era ancora carica di pregiudizi e legata al fascismo. Tanto più quella della Nazionale, che nel ventennio era stata l’icona più rappresentativa del regime, il cui rientro era osteggiato anche dalla FIFA, come ricorda l’allora commissario tecnico della Nazionale Vittorio Pozzo, evidenziando tutte le difficoltà legate a quell’incontro:

    «Mi recai subito a Milano e feci senz’altro le obiezioni che era il caso di fare: era impossibile dopo tre anni e mezzo di riposo, ricostruire di colpo la squadra, non sapevo nemmeno in quali condizioni si trovassero i giuocatori, e per parecchi esisteva anche la difficoltà di reperirli. Eppoi non si aveva il tempo per una preparazione nemmeno sommaria. I soli uomini su cui fossi in qualche modo informato e documentato, erano quelli del Torino e della Juventus, che io vedevo qualche volta all’opera. Ve n’è a sufficienza, fu la risposta che io ricevetti. D’altronde non si trattava di fare le cose in grande stile. L’offerta ci era arrivata fra capo e collo all’improvviso, perché la Svizzera si era vista disdire di punto in bianco un impegno che essa aveva con una rappresentante di un altro Paese. Aveva la data libera, ed aveva pensato a noi, convinta di renderci un grande servizio perché erano parecchi i delegati dei Paesi che in quel particolare momento tramavano per metterci all’indice,

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