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L’amica Dimenticata
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E-book257 pagine3 ore

L’amica Dimenticata

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Info su questo ebook

Italia, San Vigilio di Marebbe 1999-2022.

Un fatto inquietante sconvolge la pigra amenità di un paesino tra le Dolomiti al confine con l'Austria.

Due ragazzine del posto vengono date per disperse: solo una di loro — Margherita Mariani— viene ritrovata dopo tre giorni, in stato confusionale e con un'amnesia che durerà ventitré anni, fino a che i fantasmi del passato, torneranno a chiedere giustizia, svelando segreti inconfessabili e una verità sconcertante.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2022
ISBN9791221437454
L’amica Dimenticata

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    Anteprima del libro

    L’amica Dimenticata - Francesco Roberti

    1. Febbraio, 2022. San Vigilio di Marebbe al confine con l’Austria.

    Erano ormai giorni che quel mal di testa, un dolore acuto che la stringeva come in una morsa, non la lasciava nemmeno per un attimo. Sembrava che qualcosa la rodesse dall’interno, che le mordesse il cervello con denti acuminati senza un attimo di sosta. Riusciva a malapena a riposare la notte e, quando si alzava, si sentiva così a pezzi che faticava a reggersi sulle gambe, camminando per casa come gli zombie di Dario Argento: sguardo vacuo, pallore e movimenti in moviola. Insomma, uno straccio per pulire i pavimenti, a suo confronto sarebbe apparso come un foulard di seta.

    Ben coperta sotto il piumone — uno di quelli da montagna dove il freddo era vero freddo — Margherita sbuffò mentre si voltava a guardare fuori dalla finestra, gli occhi stretti in due fessure. Nevicava di nuovo; i fiocchi, corposi e fitti, turbinavano in un cielo basso e lattescente che non lasciava presagire alcuna apertura. Quell’immagine peculiare catturò il suo sguardo; per un po’ rimase a osservare la manifestazione della natura che congelava i vetri e ammantava tutto in una parvenza di candida quiete, ma che a lei metteva addosso la sensazione di essere completamente indifesa. La neve piace a tutti, perlomeno quasi a tutti, pensò per un attimo. Forse ciò che stava elaborando era l’essenziale verità, il materialismo che contraddistingueva il suo carattere: l’uomo è nulla di fronte al manifestarsi degli eventi naturali. O forse era perché il colore della neve, tutto quel bianco abbacinante, le aveva sempre ricordato pallidi volti esangui, slavati e incanutiti come spettri. Decise di non pensarci; in fondo si trattava solo di neve. Distolse lo sguardo dall’infisso che si affacciava sul cortile esterno, anche se gli spifferi che entravano si facevano sentire come artigli adunchi e ghiacciati che si protendevano a ghermire la stanza e il resto della casa. Si portò una mano al capo, era sempre dolorante.

    Va a finire che mi faccio vedere dal dottore, stamattina, pensò socchiudendo gli occhi e aggrottando le sopracciglia, come a voler scacciare un pensiero malevolo. Allungò la mano verso l’altro lato del letto, dove dormiva il marito. Sorrise, a dispetto di tutto, avvertendo la sua pelle calda sotto il palmo della mano e il respiro regolare e profondo. Paolo era ancora addormentato. Aveva terminato il turno la sera prima ed era rientrato dall’ospedale circa un’ora più tardi. Dodici ore di lavoro al Pronto Soccorso erano lunghe e faticose. Margherita decise che lo avrebbe lasciato riposare. Gli carezzò dolcemente i capelli arruffati, color castagna, e lui le rispose — senza svegliarsi — con un sommesso brontolio.

    Scostò le coperte e il freddo la agguantò. Poggiò i piedi a terra. Sentì sotto le piante dei piedi il parquet di abete grezzo che — grazie al cielo — riusciva a isolare almeno un poco da quella coltre gelida. Si sollevò e afferrò il pesante scialle di lana posato sulla sedia, avvolgendoselo subito attorno le spalle a mo’ di coperta, poi si diresse quasi di corsa in bagno, aprì il soffione della doccia e aspettò che l’ambiente si scaldasse. I tubi cigolarono come ferri vecchi — e lo erano davvero, vecchi — intanto che il vapore invadeva lentamente il cubicolo dalle ante scorrevoli di plexiglas satinato. Quasi tutto, là dentro, era consumato. Persino le tubature di rame incastrate nei muri, gli intonaci, il legno che li ricopriva, tarlato e corroso dall’aggressione degli anni. Eppure, Margherita sentiva ancora il legame con quella casa, malgrado avesse lasciato quel posto tanto tempo prima; era come se il cielo plumbeo e la nebbia che avvolgevano quelle contrade di montagna non le avessero mai intaccato la mente, dove tutto appariva ancora nitido e galleggiava tranquillamente nel mare dei ricordi.

    Era il posto dove era nata e cresciuta; appena fuori città e lungo la strada che conduceva verso il confine con l’Austria. Celebre per i prodotti lattiero- caseari, in particolare il burro e lo yogurt, nel settore dell’artigianato era rinomato anche per la lavorazione e l’arte del marmo.

    Quella casa l’aveva ereditata dai genitori; i suoi vecchi avevano preferito spostarsi in Versilia, in un appartamentino a Forte dei Marmi dove le temperature erano più miti e gli inverni non facevano scricchiolare le ossa come in montagna. Nonostante fossero entrambi nati a ridosso di quei picchi aguzzi e scoscesi e non avessero mai lasciato prima d’allora quel posto — se non per viaggi brevi — all’improvviso avevano preso quella grande decisione. Così, quella costruzione a due piani, ormai fatiscente, era diventata di sua proprietà. Margherita ci era nata e cresciuta. Figlia unica, aveva discusso col marito di cosa farne. Certo, avrebbero potuto venderla o meglio ancora affittarla agli sciatori che invadevano il paese ai primi accenni di neve, come sciami di cavallette, ma alla fine l’idea di veder crescere la loro figlia lontano dal caos del la grand e città, dall’inquinamento persistente come una coltre nera e malsana, soprattutto in un posto con meno pericoli, aveva avuto la meglio su entrambi. Paolo aveva chiesto il trasferimento all’Ospedale Centrale di Bolzano — dove cercavano un chirurgo specializzato in urgenza — e in poco più di un mese avevano liberato la casa da ogni cosa in eccesso, e traslocato.

    C’erano ancora scatoloni ammucchiati dappertutto, da mettere a posto: Margherita lo avrebbe anche fatto volentieri, se quella subdola emicrania, subentrata appena arrivati, non l’avesse messa a terra. Osservò le pareti, i segni del tempo, i graffi, poi il camino, la sua mensola di legno con ornamenti tirolesi, la grata di ferro battuto che proteggeva l’apertura, la cenere della sera precedente. Lei ci era cresciuta in quella casa di montagna, sicuramente aveva giocato seduta davanti al fuoco acceso, ma se cercava di evocare i ricordi, era come se ci fosse qualcosa che glielo impedisse, come se fosse una storia partorita dalla mente in modo distorto, piena di buchi. Se chiudeva gli occhi era come se una lenta moviola si mettesse in moto: una donna giovane con la coda di cavallo scura e lunga ai fornelli, un paio di jeans e un maglione di lana grezza che si voltava verso di lei e le sorrideva, poi spariva in una nebbia impalpabile. Sua madre. Non ricordava il padre, non perlomeno in quegli anni in cui era stata ragazzina. Non ne capiva il motivo, ma in quel momento l’aria fredda della casa la destò da quei pensieri facendoli scomparire così come erano giunti. Erano le sette e doveva ancora svegliare la piccola Adelina; il pulmino passava alle otto e dieci e non si fermava ad aspettare nessuno. Non si poteva dire che non fosse un bel salto da Milano, dal traffico frenetico, dalle strade sempre gremite di gente, dai turisti in cerca di cultura e buon cibo, tutto pervaso da quell’impronta che caratterizza le grandi città, specialmente quelle che nel corso dei secoli hanno contato qualcosa di più di un semplice nome e che hanno costruito la storia del Paese.

    Aprì la porta della stanza dove dormiva Adelina; un tempo era stata la sua.

    Sorrise. La piccola dormiva ancora profondamente e per un attimo pensò di non mandarla all’asilo, quella mattina. Il cielo era plumbeo, basso e la neve non smetteva di scendere. Forse sarebbe stato meglio se l’avesse tenuta a casa, oggi. Se il bus non si fosse più mosso, sarebbe stato un bel problema andarla a prendere. Certo, con il fuoristrada non ci sarebbero dovuti essere problemi, ma...

    Un rumore la distrasse dal pensiero. Si voltò di colpo verso il letto. Adelina era addormentata, eppure le era sembrato che. Spifferi!, pensò uscendo dalla stanza e richiudendo la porta.

    Scese dabbasso. La temperatura sembrava ancor più fredda al piano di sotto e Margherita si lasciò sfuggire una colorita imprecazione. Dovevano fare assolutamente qualcosa per il riscaldamento, non si poteva più stare così, ne andava della salute di tutti. Mise sul fuoco la moka e iniziò ad armeggiare con burro, marmellate, biscotti e cereali, ponendoli sul tavolo in modo ordinato, quasi metodico. Aveva sempre considerato la colazione un rito importante di inizio giornata, un momento di relax in cui sedersi, mangiare qualcosa di buono e fare il punto della situazione. Imburrò una fetta di pane e se la portò alla bocca, gustando il sapore così diverso da quello del supermercato. Lo acquistava direttamente al caseificio pochi chilometri più avanti, una piccola azienda a conduzione familiare, praticamente i vicini di casa. Conosceva il figlio — Daniel — che aveva rilevato l’attività. Erano stati in classe insieme sia alle elementari che alle medie ed era sicura dell’ottima qualità dei prodotti che le vendeva, dal latte sino alla panna e al burro. «Buongiorno!»

    Margherita balzò letteralmente dalla sedia, tanto che il boccone quasi le andò di traverso. Si portò una mano al petto, intanto che il marito le dava un bacio sul capo.

    «Dio, mi hai fatto quasi venire un colpo!»

    «Sono così brutto?» scherzò lui.

    «Credevo rimanessi a letto a riposare un po’ di più, stamattina.»

    «In effetti avrei voluto, ma mi sono svegliato e non sono più riuscito ad addormentarmi.»

    «Adelina stamattina rimane a casa.»

    «Sta male?» le domandò, con l’aria preoccupata. «No, per niente. Dorme come un sasso, ma fuori sta nevicando troppo e non vorrei che la scuola avesse dei problemi.»

    «Abbiamo più spazzaneve che auto qui.» scherzò Paolo.

    «Be’, io ci sono cresciuta qui e ti garantisco che la neve può diventare un problema serio, non è solo una distesa bianca dove sciare.»

    «Lo immagino. Hai fatto bene, lasciala riposare.» «Dobbiamo fare qualcosa per il riscaldamento, Paolo. Fa un freddo boia, la caldaia non sta funzionando come dovrebbe, è vecchia, va in blocco di continuo.»

    «Questo è poco, ma sicuro. È un ferrovecchio arrugginito. Il problema non è solo la caldaia, ma anche tutte le tubature. Un lavoro enorme.»

    «Be’, potremmo iniziare col comprare una caldaia nuova, poi in primavera penseremo anche alle tubature.»

    «Stamattina chiamo il tecnico e gli dico che siamo al freddo. funziona solo lo scaldabagno. Magari poi faccio un salto al negozio e vediamo cosa si può fare. Di certo non possiamo rimanere così.»

    «Sì, è meglio» concluse Margherita intanto che l’aroma del caffè si diffondeva, fragrante, nella grande cucina.

    2.

    «A che ora riesce a passare? Se potesse, il prima possibile, qui siamo al gelo e non riesco a farla ripartire.» Paolo stava al cellulare col tecnico, mentre Margherita aveva appena messo sul fuoco uno spezzatino con le patate e la polenta, che ora stava girando e rigirando in un pentola di rame con un grosso mestolo di legno. Coi fuochi accesi, la cucina si era riscaldata di un tepore avvolgente e Adelina, seduta su uno spesso tappeto di lana di pecora, giocava con le bambole.

    «Ho capito, ma proprio alle quattro? Non riesce a passare un po’ prima? Ho una bambina di cinque anni in casa. Va bene, ho capito, ci vediamo alle quattro e speriamo non diventino le sei!»

    Margherita aveva smesso di lavorare per trasferirsi lassù e in fondo la cosa non le dispiaceva. Aveva sempre sognato di fare la casalinga: un fatto insolito in quel periodo dove tutte le donne si affannavano per la carriera. Lei aveva frequentato l’Istituto Magistrale e aveva trovato lavoro in una scuola elementare di Cinisello Balsamo, vicino a Milano. Ora, era a casa e il lavoro non le mancava. La sua amica Sonia, milanese le aveva dato della pazza. Ti annoierai, prima o poi, e il cervello ti si avvizzirà come la pelle di una vecchia. Lo sai che se non lo tieni allenato, ti rincoglionisci?

    Quelle parole non avevano sortito alcun effetto su di lei. Sapeva bene che presto avrebbe avuto tanto, ma così tanto da fare con la casa, che non avrebbe avuto nemmeno un momento libero, e la cosa la metteva di buon umore: risistemarla, darle il suo tocco personale, renderla accogliente, come voleva lei, le faceva piacere.

    «Il mal di testa ti è passato?» La voce del marito la distrasse dai progetti che le vorticavano nella mente come foglie d’autunno sospinte dal vento. «Mhmm, no. Sta sempre lì e non accenna a smettere. Ho preso un antinfiammatorio, l’ennesimo, stamattina dopo colazione.» «Mammina, sei malata?» cinguettò Adelina, sollevando la testa verso di lei.

    Margherita si accucciò e le diede un bacio sulla fronte. Tenendo la testa rivolta verso il basso il dolore si acuì. «No, la mamma non è malata, sta benissimo, amore mio.»

    «Credo che a questo punto sarebbe meglio farsi vedere.»

    «Ci stavo giusto pensando questa mattina, poi il tempo è peggiorato e ho rinunciato a uscire. Vedremo domani. Il medico non c’è al pomeriggio in studio.»

    «Be’, ne hai uno a casa. E poi, puoi sempre chiamarlo per farti fare una visita. Le tasse le paghiamo anche noi.»

    «Ma dai, non chiamerò il medico per un mal di testa. Non è nemmeno così forte. Sicuramente dipende da un po’ di stress accumulato durante il trasloco. Passerà.»

    «Margherita, è un mese che prendi antidolorifici e non fanno bene. Magari è solo una sinusite non curata, ma dobbiamo vederci chiaro, a questo punto.»

    Gli sorrise. Si preoccupava sempre troppo per lei, sin da quando si erano conosciuti a quella festa, a Milano. Era stato amore a prima vista. Lui era ancora uno studente di medicina, lei insegnava già, in pieno precariato, ma aveva un posto di lavoro. Era stato il suo primo e unico amore, l’unico uomo della sua vita, e lei ne era felice. Nonostante la rivoluzione sessuale, si sentiva una donna dai forti valori morali, giovane e aperta al mondo. Si erano sposati dopo la laurea, ma avevano aspettato ad avere figli perché lui voleva terminare la specializzazione. Adelina era nata dopo quattro anni di matrimonio ed era stata voluta, desiderata. Era amata e la loro famiglia felice.

    «E va bene, lo chiamerò. Sempre che questa nevicata decida di fermarsi. Venerdì saremo invasi dai turisti, arriveranno su a frotte.»

    «Già. Si staranno strofinando le mani a pensare alle piste imbiancate di fresco!» gli rispose lui. «Ma ora mettiamoci a tavola. Il pranzo è servito.»

    «Io non ho fame!» protestò Adelina, che di mangiare non aveva mai voglia. «Non mi piace lo spezzatino, voglio i sofficini!»

    «I sofficini li mangerai sabato, Adelina! Lo sai che la mamma è contraria e lo sono anch’io» le rispose Paolo, in tono perentorio. «Una volta alla settimana è concesso, ma tutti gli altri giorni in questa casa si mangiano cose sane, che ti aiutano a crescere forte.»

    «Uffa!» protestò la piccola, alzandosi. «Io volevo i sofficini!»

    Come già preventivato, Adelina mangiò poco e quel poco fu anche un supplizio farglielo ingoiare. Appena terminato, Margherita rassettò la cucina e ripose gli avanzi nel frigo per la sera. Era stata abituata sin da piccola a non gettare via niente, in particolar modo il cibo che sulla tavola non era mai mancato. Niente andava sprecato e ogni cosa poteva essere riciclata.

    Mise a letto Adelina per il pisolino pomeridiano e si sdraiò al suo fianco. Amava stringerla a sè e annusare i suoi capelli che sapevano di sapone per bambini, di tenerezza e dolcezza.

    «Mamma?»

    «Sì, tesoro mio?»

    «Lo sai che ho una nuova amichetta?»

    «Davvero? Viene all’asilo anche lei?»

    Adelina si mise a ridere. «No, mammina. È qui, a casa.»

    Margherita si tirò su a sedere, guardando con attenzione la bambina. «Davvero? E come si chiama?»Sapeva che i bambini avevano spesso amici immaginari.

    «Alice! Dice che ti conosce bene.»

    Alice. No, non è possibile che sia lei. È solo un nome inventato, una coincidenza.

    «Ma davvero?» cercò di scherzare Margherita. «È molto strano, io non la conosco. Vuoi presentarmela?»

    «È andata via, ha detto che ti sei dimenticata di lei.» «Be’, allora dovremo proprio chiederle scusa.»

    Un rumore sordo la fece trasalire. Proveniva dalla sua camera da letto. Il cuore le rimbalzò in gola mentre si alzava per dirigersi verso la stanza.! «Cosa avete distrutto?» domandò rivolta al corridoio vuoto, ma non ottenne alcuna risposta. «Paolo?» chiamò di nuovo. Nulla.

    Con una punta di ansia — senza poi capirne il perché — posò la mano sulla maniglia della porta e l’abbassò, spalancandola. Lo vide subito: lo specchio che aveva appeso alla parete era a terra, in mille pezzi. Le schegge riflettevano la luce sul muro, come tanti minuscoli bagliori iridescenti. Si avvicinò per osservare meglio: un vero disastro. Quello era uno specchio appartenuto a sua nonna, ci teneva molto e per un attimo — mentalmente — se la prese col marito. Gli aveva detto di mettere un tassello che reggesse il peso. Poi guardò la parete e non credette a ciò che vide. Il gancio era lì, fissato al muro, intonso. Non è possibile, pensò. Si deve essere rotto il fissaggio dello specchio, allora. Si chinò e controllò la cornice sul retro sinché non lo trovò. Era ben assicurato anche quello.

    «È stata Alice.»

    Margherita si voltò. Adelina era ferma sulla soglia della stanza, in mano una delle sue bambole preferite.

    «Che cosa? La tua amichetta immaginaria?» le chiese.

    «Non è un’amichetta immaginaria. Lei vive qui e tu sei una stupida!»

    «Adesso basta, Adelina!» alzò la voce Margherita, decisa a mettere fine a quella situazione. «Non ti permetto di mancarmi di rispetto. Fila in camera tua, mettiti a letto e vedi di riposare!»

    Adelina corse via, in lacrime.

    «Cristo!» imprecò Margherita .

    Deve imparare il rispetto; all’asilo di certo non glielo insegnano, se non ci pensiamo noi. Eppure sembrava così convinta di ciò che diceva.

    3.

    Il tecnico giunse puntuale alle sedici e riuscì anche a far ripartire la caldaia che, con un sommesso brontolio — sembrava un vecchio bollitore — si mise in moto. Lo scantinato sotto la casa era ampio e pieno di cianfrusaglie. Quell’autoclave preistorica pareva un cimelio bellico e forse lo era davvero; un vecchio generatore messo al comando di un esercito di ciarpami ammuffiti ed erosi dalle intemperie e dall’usura.

    «Reggerà?» domandò Paolo.

    «Ho cambiato un paio di valvole, dovrebbe farlo almeno per un po’ di giorni,

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