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Giustizia Ad Ogni Costo
Giustizia Ad Ogni Costo
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E-book344 pagine5 ore

Giustizia Ad Ogni Costo

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Info su questo ebook

Il cadavere di una ragazza di venticinque anni viene trovato nel laghetto di Richmond Park. Sembra un omicidio come tanti, è solo il primo di una serie di delitti che sconvolgerà Londra.

Thomas Wilson è un assassino violento, amante della vita lussuosa, con una singolare ossessione per il buon vino, l'abbigliamento firmato e le belle donne.

Il tenente Alden Green, capo della squadra omicidi di New Scotland Yard, è incaricato di risolvere il caso; insieme ai suoi detective, Abby Taylor e George Brown, cercherà con tutte le sue forze di porre un freno a questa spirale di violenza accorgendosi fin da subito di essere di fronte ad un nemico più abile del previsto. Solo l'aiuto del geniale professor Roberts, criminologo esperto in omicidi seriali, riuscirà a venire a capo di una vicenda complicata e dai contorni poco chiari, portando alla luce una verità enigmatica.
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2021
ISBN9791220370141
Giustizia Ad Ogni Costo

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    Anteprima del libro

    Giustizia Ad Ogni Costo - Francesco Roberti

    1.

    Sono le cinque del pomeriggio.

    Le lancette d’oro del mio Rolex si muovono silenziosamente in un movimento fluido e regolare quasi ipnotico, come se fossero sospese in uno spazio senza gravità, mute testimoni dello scorrere inarrestabile del tempo. Distolgo lo sguardo dal mio nuovo, costosissimo orologio, prendendo delicatamente dal tavolino di noce americano una fumante tazza di porcellana bianca, stile impero, con finiture blu cobalto. Il profumo intenso e pungente del suo contenuto, un Kilburn Imperial – la qualità di tè più pregiata al mondo che faccio arrivare direttamente dallo Sri Lanka e che mi costa quasi sessanta sterline a barattolo - penetra dolcemente nelle mie narici, regalandomi una sensazione di pacato benessere. Chiudo gli occhi, immaginando di vagare in quelle sperdute terre del sud est asiatico, di sentire gli odori e le fragranze tipiche di quei paesi esotici, così lontani da sembrare quasi irraggiungibili; l’aroma delicato ed intenso dell’infuso genera in me un piacevole senso di relax, permettendomi di scaricare la mente da un’altra dura giornata di lavoro e proiettandomi in una dimensione onirica inaspettata, un volo che sembra dover durare l’eternità di un secondo. Riapro gli occhi lentamente, soffiando sulla superficie della bevanda bollente per renderla più adatta al contatto con le labbra e permettere al palato di assaporarne fino in fondo il gusto lievemente acre ed astringente. Non uso né latte, né limone; non sono abbastanza inglese per il primo, né troppo europeo per il secondo. Tantomeno lo zucchero; ammetto che una punta di granuloso di canna potrebbe alleggerire lo spunto acre dell’infuso, ma al contempo ritengo che una specialità del genere vada gustata naturalmente, senza inutili additivi che ne possano alterare l’equilibrio aromatico.

    Bevo un sorso abbondante del nobile infuso e sento un’appagante sensazione di calore che pervade la bocca estendendosi progressivamente alla gola e allo stomaco, ricordandomi l’importanza di questo tipico rito londinese. Non che sia fissato con le tradizioni inglesi, intendiamoci. Anzi a volte penso che il rito del tè sia una delle poche cose che meriti ancora di essere celebrata in questo paese; d’altra parte non possiamo certo consolarci con il tempo, sempre grigio, umido, piovoso…deprimente sarebbe il termine più adatto. Per non parlare del cibo… da queste parti la parola culinaria viene intesa più come una sporca appendice del turpiloquio, che come arte del saper cucinare; fish and chips, hamburger… è inquietante notare come la maggior parte dei piatti inglesi contenga la parola pasticcio. Credo sia emblematico della capacità dei cuochi della Regina di infilare qualsiasi cosa, dalla carne alla verdura, passando a volte anche per il pesce, in un agglomerato senza forma e senza colore, con gusti talmente diversi da farli sembrare tutti dello stesso sapore. L’unica cosa che si salva, quando ti presentano davanti un piatto del genere, è il grosso, ghiacciato, gocciolante boccale di birra doppio malto. Attenzione, non sto parlando della stomachevole e disgustosa Guinness irlandese, il cui sapore si avvicina più a quello dell’acqua sporca usata per lavare i pavimenti del cesso di un pub di periferia - non che abbia mai ciucciato uno straccio sporco ma credo che l’immagine renda bene l’idea - e neanche della sbiadita lager tanto cara ai tedeschi e agli altri cugini europei, amanti del gusto slavato. Qui si parla della vera ale, la tradizionale birra ad alta fermentazione, quella dal sapore dolciastro, dal corpo pieno, dal retrogusto appena fruttato; qui sì che puoi sentire il profumo del malto e lo spunto amarognolo del luppolo, entrambi sapientemente dosati per contrastare le note dolci della fermentazione.

    Alcune statistiche evidenziano come l’Inghilterra sia uno dei primi paesi europei per il consumo pro capite di birra, anche se, ad onor del vero, la birra inglese non sembra essere molto apprezzata nel resto d’Europa e del mondo; come d’altro canto la maggior parte dei prodotti made in England. In generale si tende a pensare che l’inglese medio sia un bacchettone moralista, eccessivamente legato alle tradizioni, incapace di creare qualcosa di fresco, innovativo, brillante; viene dipinto come il classico uomo in frac e bombetta che passeggia con un ombrello in mano ed un monocolo sull’occhio, che conversa del tempo quasi sempre pessimo ovviamente e che passa la propria vita in fila all’ufficio postale, dal macellaio, alla biglietteria, in banca… sembra quasi che Londra sia un’unica grande fila dove non si sa bene cosa o chi si attenda. In realtà lo stereotipo che dovrebbe ricalcare il tipico cittadino londinese non è esattamente quello del nobile dell’Ottocento; i frac e le bombette sono sparite da tempo ed hanno lasciato il posto ad una varietà stilistica e culturale unica al mondo; penso che la nostra capitale sia in assoluto la città più varia e cosmopolita del mondo, un grande, bollente calderone dove si mescolano razze, usanze, costumi ed abitudini provenienti da tutto il mondo. E tutto sembra essere assolutamente normale, come se quella variopinta mescolanza fosse congenita, come se da sempre facesse parte della sua natura; una città dove si incontrano ma non si scontrano diverse culture, dove la diversità è la norma, come in un immenso villaggio globale dove, pur mantenendo la propria identità culturale ed il proprio retaggio, ognuno si è adattato alle leggi e alle tradizioni, in un perfetto esempio di integrazione.

    Assaporo un altro sorso del mio tè preferito, perso tra le mie personali considerazioni sulla mia bene amata nazione, quando sento improvvisamente qualcosa o qualcuno che mi sta toccando le caviglie; è una sensazione strana, come se fossi stato arpionato da una morsa leggera, come se stessero cercando di attirare la mia attenzione. Sento un rantolo, un gemito, poi ancora un rantolo provenire da un punto indefinito sul tappeto davanti ai miei piedi; appoggio delicatamente la tazza sul suo piattino sopra il tavolino ed abbasso pigramente lo sguardo per vedere chi o cosa sta disturbando la mia meritata pausa pomeridiana.

    «Ti… prego…», farfuglia un ragazzo disteso prono davanti a me; è immerso in una pozza del suo stesso sangue, ha lo sguardo terrorizzato e riesce a malapena a proferire queste due parole di aiuto. «Ti… prego…».

    Lo guardo con disgusto, infastidito dalla sua maleducazione e dalla sua mancanza di delicatezza… mi ha macchiato un tappeto da duemila sterline, mi sta sporcando i pantaloni di Armani e sta interrompendo il mio sacrosanto rito del tè!

    «Che hai da lamentarti?», gli chiedo con aria annoiata, guardandolo gelidamente negli occhi, come se fosse un cane non ammaestrato che ha fatto la pipì sul divano.

    «Ti… pre…».

    «Vedi di farla finita! Sei monotono, lo sai?», gli abbaio in faccia scostando con un calcio la sua mano insanguinata, priva di due dita, che aveva teso verso di me in segno di aiuto. «Possibile che tu non conosca altre parole?».

    «Voglio… vivere…», borbotta lui, mentre una lacrima grossa come un unghia gli riga il volto tumefatto e coperto di sangue rappreso. E’ patetico, veramente patetico. E fastidioso.

    «Tutti vogliono vivere», gli rispondo scocciato, allontanando con un altro calcio la sua mano mutilata che cerca di protendere ancora verso la piega perfetta dei miei pantaloni da trecento sterline. «Ma pochi lo meritano»

    «Faccio tutto quello che vuoi…».

    «Ma l’hai già fatto», gli rispondo io con un ghigno soddisfatto, mentre il mio sguardo indugia, non senza soddisfazione, sulle parti mutilate del suo corpo fatiscente. «Non ti sei accorto di quello che hai combinato?».

    Il ragazzo mi guarda disorientato, non capisce quello che sto dicendo, non si rende conto di quello che sta passando, ma il suo subconscio capta l’orrore, la paura di scoprire la verità. Lo guardo compiaciuto, accavallando le gambe, appoggiando i gomiti sui braccioli della poltroncina di pelle trapuntata ed incrociando le mani davanti al mento, in una posa pensante, in attesa di un responso già noto.

    «Che cosa vuoi dire?», mi chiede terrorizzato, intuendo perfettamente a cosa mi sto riferendo, anche se non trova il coraggio di affrontare la dura realtà.

    «Perché non provi ad alzarti?». La mia domanda beffarda lo investe con la sua macabra ironia, costringendolo a girarsi su se stesso per vedere le condizioni delle sue gambe.

    Un urlo agghiacciante riempie la pace della stanza provocandomi una forte scarica di adrenalina; ora lo sa, è consapevole di quello che è accaduto, ha capito quello che ha fatto.

    «Che diavolo è successo?», mi domanda con voce stridula in preda ad un’autentica crisi di panico; continua a roteare gli occhi, parla sputando, sbava come un cane rabbioso, trema come una foglia.

    «Ti riferisci al fatto che i tuoi piedi non sono più al loro posto?».

    «Oh Dio, no! Non è possibile!».

    «Certo che è possibile. Se vuoi ti spiego anche come hai fatto». La soddisfazione dentro di me cresce a dismisura, di pari passo con il terrore che sta invadendo la mente misera della mia vittima. «Vedi quel seghetto da ferro alla tua destra?».

    Lui si volta smarrito verso la direzione che gli ho indicato, poi mi guarda con gli occhi sbarrati cercando di ricordare invano gli eventi che hanno prodotto quel macabro risultato.

    «Credimi, avrei tanto voluto che lo usassi per segarti da solo entrambi i piedi, in modo che venisse un lavoro pulito e meno doloroso», gli spiego pazientemente con una punta di finto rammarico nella voce, cadenzando le parole per accrescere una tensione che è già altissima. «Ma tu non ne hai voluto sapere, nossignore! Non c’è stato verso di farti cambiare idea. Non che la cosa mi sia dispiaciuta, anzi. Ma hai detto che sarebbe stato troppo comodo e indolore per quello che hai fatto».

    Il suo sguardo è attonito; non crede di potersi essere tagliato i piedi da solo. Pur nel terrore, un briciolo di razionalità cerca di farsi strada nella sua mente per capire come e perché possa aver agito in quel modo. «Stai mentendo».

    «Io non mento mai, Dylan».

    «Ma perché mi fai questo? Io merito di vivere». Singhiozza come un bambino, senza il minimo ritegno, in barba ad una dignità che sa di non aver mai avuto.

    «La verità è che tu sei convinto di meritare di vivere. Ti alzi ogni mattina e pensi di essere il padrone del mondo. Ti vesti, esci di casa con il tuo serramanico in tasca e vaghi per le strade alla ricerca di qualche povero sprovveduto da rapinare. Lo avvicini, gli punti il coltello alla gola, lo costringi a tirare fuori i soldi e poi lo picchi, forse lo sfregi o lo ammazzi, perché no, anche se hai ottenuto ciò che volevi». Il tono della mia voce sale leggermente mentre gli sbatto in faccia l’elenco delle sue colpe; voglio che provi rabbia, dolore, frustrazione. Che senta quello che provano le sue vittime. Che si senta una vittima. «Dimmi un po’, Dylan: cosa si prova a vedere un’altra persona terrorizzata, in preda alle lacrime, consapevole del fatto che potrebbe morire da un momento all’altro se solo tu decidi che sia giunta la sua ora?».

    Dylan mi guarda con rancore; ha raccolto la provocazione, sono riuscito a toccare le corde più profonde del suo orgoglio. E’ solo un balordo, un delinquente di strada, un disadattato; gli piace fare quello che fa, glielo si legge negli occhi. «Mi sento potente, okay? Sapere che posso avere tutto da loro, anche la vita se voglio, mi fa sentire come un dio. E se adesso potessi alzarmi ti sgozzerei come un cane e non sai quanto mi piacerebbe vederti agonizzare e chiedermi pietà». Ha il fiatone, continua a sputare mentre parla; la sua mente è ottenebrata dall’odio, frustrata dall’impotenza, incapace di comprendere le parole che ha appena pronunciato.

    «Appunto, Dylan», mi limito a dire io fissandolo negli occhi e tamburellando con le dita sul bracciolo della poltrona. «Appunto».

    Lui si blocca forse si aspettava una reazione violenta, un’offesa, una paternale, una serie di insulti. Ma la sua povera mente bacata realizza solo adesso il significato del mio appunto e capisce di aver fallito. Di essere un fallito. Un fallito senza piedi, senza due dita e senza più nulla da dire; un pupazzo vuoto che si appresta a partire per un lungo viaggio senza ritorno. Abbassa lo sguardo, umiliato e sconfitto; ha capito di aver sbagliato tutto nella sua vita ed è giusto che ora paghi. Non ha più tempo per recuperare i suoi sbagli, non più per rimediare ai suoi errori; la sentenza è stata pronunciata. Nel mio tribunale, applicando la mia giustizia. Dylan morirà tra qualche minuto e non c’è niente e nessuno che possa impedire che ciò accada; sta saldando per sempre il suo debito con la società.

    «Fallo e basta», sussurra con un filo di voce, rassegnato alla sua fine, implorando senza vergogna una morte rapida ed indolore.

    «Non ti ucciderò».

    Dylan alza la testa di scatto; mi guarda con occhi colmi di speranza. Forse c’è ancora una possibilità, un modo per continuare a credere in una salvezza ormai insperata; in fondo vivere senza piedi potrebbe essere ugualmente dignitoso, forse una volta uscito da quell’incubo…

    «Sarai tu a farlo». La mia condanna arriva lapidaria, senza la minima esitazione, troncando ogni sua residua illusione di poter uscire dalla follia nella quale è piombato; il mio sguardo è perfido, crudele, assolutamente privo di umanità.

    Lui capisce. Sa che se mi costringe ad ammazzarlo la sua agonia sarà lunghissima, una pena insopportabile, un dolore che non regge al paragone con la fine di tutti i mali. Ha visto la follia nei miei occhi, sa di cosa sono capace anche senza conoscermi; tra animali basta uno sguardo per capire chi comanda.

    Rassegnato allunga una mano, afferrando un coltello da cucina insanguinato che giace sul tappeto accanto ad un piccolo martello, anch’esso sporco di sangue; guarda quel comune oggetto della vita quotidiana come se fosse un pezzo di un’astronave aliena, fantasticando su qualcosa che io ho già prontamente intuito. Il suo sguardo si sposta nervosamente dal coltello al martello, in un movimento spasmodico; il suo cervello fatica a credere ciò che sta elaborando e un secondo più tardi si infila la lama in gola, recidendosi di netto la giugulare. E’ lì, a terra, scosso dagli spasmi, gli ultimi convulsi attimi della sua misera vita; nei suoi occhi la paura per quello che è stato e quello che sarà. Mi guarda terrorizzato chiedendosi come diavolo abbia fatto a convincerlo a tagliarsi entrambi i piedi usando il coltello da cucina come uno scalpello; come abbia potuto infierire sul suo stesso corpo in quel modo osceno. Ha capito che è stato meglio morire così piuttosto che subire ancora ciò di cui non avrà mai più memoria.

    Ancora qualche spasmo, poi si rilassa spargendo le ultime gocce del suo putrido sangue sul mio persiano tessuto a mano; mi costerà più di duecento sterline farlo pulire. Sposto lo sguardo sul tavolino alla mia destra; la tazza di tè è ancora lì, piena per metà, ormai fredda. La prendo con delicatezza e sorseggio ancora una volta il delicato infuso, provando nuovamente quella sensazione di benessere che era stata bruscamente interrotta da quel fastidioso contrattempo; mi rilasso, chiudo gli occhi e ricomincio a viaggiare con la mente in posti esotici che presto, forse, visiterò.

    Vedo gli splendidi paesaggi offerti dalla Perla d’Oriente in una giornata calda ed appena umida, lambita da una brezza leggera che spira dall’Oceano e che accarezza dolcemente le colline belle ed aspre dell’entroterra, coperte dalla fitta vegetazione pluviale. Mi sembra di essere lì, in mezzo agli alberi alti e verdi, così fitti da far filtrare a malapena la luce potente del sole alto nel cielo; sento l’odore della foresta, il suo tanfo umido, i suoi profumi violenti, l’olezzo pungente delle foglie marce che coprono il terriccio scuro del sottobosco. Vedo gli arbusti giovani che sperano di riuscire a crescere in fretta per guadagnarsi un posto nella giungla, gli alberi di ebano posare fieri con il loro tronco scuro e pregiato, gli imponenti fusti di teak dominare la vegetazione dall’alto dei loro quaranta metri; le magnifiche orchidee punteggiare il verde intenso e monotono del bosco con i loro colori vivaci, brillanti, come folli pennellate di colore su una tela uniforme, così viva da sembrare surreale.

    Vedo le spiagge immacolate lambite dalle onde cristalline dell’Oceano Indiano, sento sotto i piedi la sabbia bianca e sottile che scivola tra le dita, la mia pelle baciata dal sole piacevolmente caldo della primavera incipiente; la risacca si impadronisce dei miei sensi, cullando la mia mente con un ritmo cadenzato, ipnotico, talmente coinvolgente da farmi dimenticare per un solo attimo chi sono e perché mi trovo lì. Entro in contatto con quella natura, sono parte di lei; sono il mare che bacia la spiaggia, il vento che accarezza le foglie degli alberi, il sole che scalda le rocce scure e la sabbia d’argento… sono l’isola, sono la natura, forte e dirompente, sono l’universo immenso che racchiude tutta questa meraviglia. E’ pura magia, un viaggio fantastico che dura giusto il battito d’ali di una farfalla.

    Riapro lentamente gli occhi; il sapore intenso del tè sta lentamente abbandonando il mio palato, dissolvendosi progressivamente come una colonna di fumo d’incenso che si disperde nell’aria in ampie volute sfumate dal tempo che scorre. Sono nel mio appartamento, nella mia città, nella mia vita… sono di fronte a quello che sono e che sarò per sempre.

    Un dispensatore di giustizia. Un redentore dei peccati. Un killer.

    E fra me e me penso che il Kilburn Imperial sia in assoluto il migliore tè al mondo.

    2.

    Il Royal Standard, la suprema bandiera della Casa Reale inglese, sventolava pigra sul pennone della Victoria Tower, la maestosa torre in stile gotico che sovrasta lo stupendo edificio del Parlamento, adagiato placidamente sulla sponda ovest del Tamigi.

    Alden Green era seduto alla scrivania del suo piccolo ufficio al quindicesimo piano dell’imponente palazzo moderno di vetro ed acciaio, sede del Metropolitan Police Service, comunemente conosciuto come New Scotland Yard. Osservava inquieto il lento e regolare muoversi di quel variopinto lembo di stoffa che sembrava danzare al ritmo di una musica silenziosa suonata dal leggero vento autunnale che spirava dal mare. Il cielo era piuttosto scuro, con inquietanti nuvole color piombo che offuscavano quasi totalmente il pallido sole settembrino, ricordo sbiadito di un’estate afosa e fin troppo calda. Un piccolo battello turistico, vuoto per metà, solcava lentamente le livide acque del fiume, trasportando il suo esiguo carico di turisti, coperti da colorati impermeabili di ogni dimensione e foggia, verso la prossima attrazione cittadina; sarebbero state le ultime uscite prima dell’arrivo del gelido inverno londinese, con il suo freddo umido e pungente, talmente intenso da penetrare nelle ossa e far rabbrividire ad ogni passo lungo le ventose strade della capitale.

    «Siamo pensierosi, stamattina». Una calda voce femminile, proveniente dalle sue spalle, lo invitò a distogliere lo sguardo dal meraviglioso e malinconico panorama che si presentava ai suoi occhi stanchi.

    «Ciao Abby, non ti ho sentita entrare», ribatté lui voltandosi verso la collega che stava in piedi di fronte alla scrivania tenendo in mano una copertina piena di fogli; era bella, come sempre. Quel tipo di bellezza lontano dalle copertine patinate dei rotocalchi o dei settimanali di moda, superficiale ed artefatto dal trucco e dal ritocco fotografico; la sua era una bellezza naturale, spontanea, acqua e sapone, esaltata da un trucco appena percettibile che valorizzava i suoi tratti dolci ed i suoi occhi di un intenso color nocciola.

    «Già, qualcuno è un po’ distratto da queste parti», fece lei in un tono a metà tra l’indagatorio ed il preoccupato; conosceva Alden da diversi, forse troppi, anni. Sapeva che c’era qualcosa che non andava; glielo leggeva dallo sguardo di guerriero sfinito dalle battaglie della vita, pronto alla resa finale, disposto ad accettare qualsiasi condizione.

    «E’ solo che ho dormito malissimo stanotte», rispose Alden evasivo, lasciando intendere tutto e niente, cercando di scacciare invano i demoni che affollavano la sua mente; erano troppi anni che faceva quel lavoro, cominciava ad essere stanco. Stanco degli orari massacranti, delle pressioni che subiva dai suoi superiori, dei ritrovamenti macabri di gente ammazzata senza ritegno come in uno squallido film dell’orrore. Ma la vita che conduceva tutti i giorni era ben lontana dalla rappresentazione cinematografica; a volte la realtà riusciva ad essere molto più raccapricciante della fantasia.

    «Come tutte le notti, d’altra parte». Lo sguardo di Abby spaziò per un momento fuori dall’ampia vetrata dell’ufficio, cercando di capire che tipo di emozioni quel paesaggio così piatto ed enigmatico potesse generare. Chiunque si perdesse in quel panorama non faceva altro che riversare sul grigiore dell’autunno tutti i problemi, le frustrazioni e le sconfitte di una giornata o, in certi casi, di una vita intera.

    «Già», rispose laconico Alden che nel frattempo aveva dato le spalle a quella finestra aperta sulla tristezza di una, cento, mille vite che popolavano quelle strade e quelle case. «Cosa mi racconti di bello?»

    «Vuoi parlare di lavoro o della mia solitaria e sconsolata vita privata?».

    «Forse è meglio parlare di lavoro», decise lui, abbozzando un sorriso sarcastico, a metà tra il finto divertimento e la sincera amarezza; i suoi problemi erano i problemi di tutti. Cambiava solo il grado di sofferenza, in alcuni casi. «Che mi dici sul caso Karen Atkins? Ci sono novità?».

    «Niente, per adesso. Stiamo aspettando i referti del coroner per stabilire le reali cause di morte, ma per il resto non abbiamo assolutamente nulla», rispose subito Abby cambiando il tono di voce da confidenziale a professionale; cosa c’era di meglio del lavoro per seppellire i propri problemi personali?

    «Eppure deve esserci qualcosa; nessuno può abbandonare una scena del crimine senza lasciare traccia».

    «Probabilmente si tratta di un delitto occasionale; nessun movente particolare, nessun rapporto tra la vittima e l’assassino, nessuna premeditazione», azzardò lei, facendo spallucce; il cardigan leggero color prugna modellava perfettamente le meravigliose curve del suo corpo snello ed atletico, mostrando una sensualità quasi sempre nascosta dall’atteggiamento duro e determinato che il lavoro le imponeva.

    «E come ti spieghi le lesioni diffuse?».

    «Un rapinatore particolarmente efferato? Un drogato in crisi di astinenza? Sai meglio di me di cosa può essere capace un tossico pur di avere qualche soldo per comprare una dose».

    «La teoria della rapina spiega il luogo dell’omicidio, il parco pubblico, ma non i tagli trovati sulle braccia, le gambe ed il petto», borbottò Alden, infilandosi le mani in tasca; tutto sembrava semplice, ma qualcosa, il suo intuito da segugio forse, gli diceva che c’era qualche particolare che gli stava sfuggendo. «E visto che non è stata trovata alcuna traccia di violenza ci saluta anche il movente sessuale».

    «Esatto. E poi considera che i tagli sul corpo potrebbero essere di molto precedenti all’ora del decesso; potrebbe trattarsi di qualche tentativo pregresso di suicidio o di qualche forma di autolesionismo».

    «O forse del gesto di qualche ex amante o fidanzato geloso che non si è ancora rassegnato alla fine della storia e che ha voluto punirla deturpando le sue parti migliori», ipotizzò Alden tenendo lo sguardo in un punto fisso sulla scrivania davanti a sé come se avesse ancora davanti agli occhi il corpo senza vita della spogliarellista trovata a Richmond Park la mattina precedente. Quella ragazza era davvero notevole; poteva far girare la testa a molti uomini... forse quella sera aveva solo trovato quello sbagliato. «Comunque ci conviene aspettare l’esito dell’autopsia e degli esami tossicologici. E’ inutile azzardare teorie troppo fantasiose».

    «Sono d’accordo. Ti conosco da più di dieci anni e so che ti piace andare sul sicuro», sorrise bonariamente lei, ammirando in cuor suo la tenacia e la precisione con la quale il suo collega si dedicava ad ogni caso di omicidio, anche il più banale… sempre ammesso che la morte di una persona potesse essere definita in quel modo.

    «Vuoi dire che mi sopporti da più di dieci anni». Alden la guardò per un attimo negli occhi profondi e carichi di sensualità e tristezza al contempo, così intriganti da dare l’impressione di scavarti dentro, di leggere le confessioni più intime del tuo cuore. Lei ricambiò il suo sguardo solo per un attimo, poi lo distolse velocemente, come se avesse paura di quel breve contatto visivo; la sua mente non riusciva a spiegarsi il perché di quella reazione, ma sentiva qualcosa, dentro di sé, che sembrava suggerirle la vera ragione di quel comportamento.

    «Buongiorno, ragazzi. Ho interrotto qualcosa?». La voce di Brown, che faceva capolino dalla porta semi aperta, ruppe quell’attimo di imbarazzo, riportando la situazione alla quotidiana normalità, fatta di fredde ipotesi, lunghe disquisizioni e ritrovamenti macabri. Era un ragazzo allegro e solare, sempre pronto a scherzare e a rallegrare anche i momenti più bui ma, quando si trattava di fare sul serio, aveva un intuito incredibile, da vero segugio, in grado di captare anche il più piccolo ed insignificante particolare sulla scena del crimine.

    «Buongiorno, George. A che dobbiamo l’onore?», lo salutò scherzosamente Alden distogliendo a fatica lo sguardo dal volto enigmatico della sua collega; per un attimo aveva avuto la sensazione che anche lei si trovasse a disagio in quella situazione.

    «Buone notizie. Ottime direi. Avete già fatto colazione?», continuò il ragazzo esibendosi in un sorriso divertito, continuando a biascicare il suo chewingum alla menta senza curarsi della formalità della situazione; era fatto così, schietto, sincero, lontano dalle convenzioni verbali e gestuali che, molte volte, il loro lavoro imponeva. Prendeva ogni caso che si presentava davanti con leggerezza e tranquillità, consapevole del fatto che una mente fresca e libera dai pregiudizi riesce a lavorare molto più efficacemente di quando è sotto stress; e da quando era arrivato alla omicidi il livello di pressione psicologica era salito notevolmente.

    «Non ancora. Hai intenzione di pagarci il caffè?», fece Abby in tono sospettoso. Era tipico di Brown: non riusciva a dirti una cosa senza prima fare un lungo giro di parole.

    «L’idea era quella, in effetti. Ma non prima di aver fatto visita ad un nostro nuovo cliente».

    «Accidenti!», esclamò Alden che aveva sospettato da subito un altro omicidio, ringraziando mentalmente ancora una volta il suo intuito da investigatore. «Dove?»

    «Provate ad indovinare…».

    «Richmond Park?», chiese Abby timidamente, con un’espressione a metà tra lo scherzoso e lo sconvolto; non potevano aver trovato un altro cadavere nella stessa zona a distanza di poco più di quarantotto ore.

    «Bingo! Richmond Park», biascicò soddisfatto Brown, strizzando l’occhio alla sua collega con un’espressione da playboy dipinta sul volto giovane e sbarbato. «L’ho sempre detto che lei è più sveglia di te, Alden».

    «Andiamo, mister simpatia», replicò Alden prendendo dallo schienale della poltroncina la giacca di tweed marrone ed avviandosi a passo svelto verso l’uscita.

    «E’ sempre così di buon umore?», chiese ironicamente Brown rivolto ad Abby mentre il loro capo usciva di fretta dal suo ufficio, passandogli davanti come se non esistesse neanche.

    «E’ adorabile», fu la risposta altrettanto sarcastica di lei che lo seguì velocemente verso l’ascensore; da quel momento per Alden Green era finito il tempo degli scherzi.

    Si cominciava a fare sul serio.

    La lingua d’asfalto sbiadito che attraversava i prati verde scuro del Richmond Park, snodandosi tra gli alti

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