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Terra oltre mare
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E-book765 pagine11 ore

Terra oltre mare

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Info su questo ebook

iglio, fatto forte e maturo, slanciarsi da solo nel vortice della vita, fra le rose e le spine, le gioie e i disinganni, la bontà nei pochi e la perfidia nei molti. Così scriveva un carrista dell'Ariete alla fine della campagna del Nordafrica della Seconda Guerra Mondiale: gli italo-tedeschi erano stati sconfitti. Era il maggio del 1943 e lui era a bordo della nave che lo avrebbe portato in prigionia in America. Ma aveva un assurdo particolare: era americano. E aveva una missione, che non conosceva ancora, da compiere dall'altra parte dell'oceano in un luogo chiamato Santa Marinella. Quell'uomo era mio nonno. Questo romanzo è la sua storia.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2022
ISBN9788897911920
Terra oltre mare

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    Anteprima del libro

    Terra oltre mare - Giuseppe Bomboi

    Giuseppe Bomboi

    Terra oltre mare

    Librinmente

    copyright

    Copyright © 2022 Prospettivaeditrice. Design copertina © 2022 Prospettivaeditrice. Tutti i diritti riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a: Prospettivaeditrice Ufficio diritto d’autore Viale Giacomo Matteotti, 19 00053 Civitavecchia (Roma) Telefono 0766.23598 segreteria@prospettivaeditrice.it

    978 - 88 – 97911 – 92 - 0

    Stampato in Italia - Prima edizione http://www.prospettivaeditrice.it

    dedica

    A mio nonno Giuseppe

    Prologo

    TEEERRAAA!

    Una sola parola. Ma lunga.

    Esplode dalla gola di un uomo. Un urlo. Dopo il tempo passato tra il buio della notte e il bagliore del giorno tra le onde.

    E il brivido che sale lungo la schiena.

    Quella sperata certezza che si rivela dopo l’attesa. Quel brivido che si scatena dall’attesa.

    Poi appare una linea ferma lontana. Non è più blu. Non sono più onde.

    È TERRA. È quello che sognavi sul pontile. È quello che ancora non conosci e che ti fa tremare. È quello che sta oltre la prua di questo sogno.

    È là. Davanti ai tuoi occhi.

    La speranza dell’approdo.

    La certezza che da qualche parte IL MARE DEBBA COMINCIARE. Inizi a sognare il bagnasciuga… e già i gabbiani sono lassù in cima: custodi dell’arrivo. Solo la loro voce dopo quell’urlo.

    La loro voce a ribadire quelle vocali della sospirata e gridata parola TERRA:

    EEEAA! EEEAA! gridano i gabbiani.

    La loro voce a salutare le vocali della parola MARE.

    Un annuncio trionfante dell’arrivo del viaggiatore. Terra. Terra. Terra.

    E i tuoi occhi sono là. Spalancati verso la speranza del futuro. Verso la fine e l’inizio del viaggio.

    Il passato è oltre la distesa azzurra. Sommerso dai cavalloni. Risucchiato dall’elica del bastimento.

    C’è solo il domani sulle spiagge che si avvicinano.

    E la voglia di sognare.

    Oltre il mare.

    All’ombra del sogno americano

    Non so se girò, non era il tipo d’uomo che si perde

    in nostalgie da ricchi, e andò per la sua strada senza sforzo.

    Francesco Guccini

    Gli occhi guardavano verso l’orizzonte oltre la finestra, cercando invano di vedere il mare troppo lontano. Ancora per poco lontano. Soltanto fino al giorno dopo. Così si volsero prima in alto, verso le nuvole scure, e poi in basso, verso la via innevata sottostante, persa tra i rami gelati degli alberi che, mossi dal vento, arrivavano quasi a contatto con la finestra: laggiù due uccelli neri stavano saltellando su una staccionata coperta di neve.

    Quegli occhi, dietro al vetro, continuavano ad osservare la strada bianca su cui, ad un tratto, apparvero, piccole e lontane, alcune sagome indistinte e, dopo un po’, una folla di uomini avvolti in pesanti cappotti neri e di donne con la testa coperta da un velo scuro. Più d’una donna aveva un bambino attaccato al braccio. Avanzavano tutti nella stessa direzione. Il cielo era sempre cupo. Poi, all’improvviso, il sole scese al di sotto delle nuvole e la strada si tinse dei colori del tramonto, proprio mentre iniziavano ad illuminarsi le finestre di alcune case circostanti, come se tutto si opponesse alla necessità che quel bianco dovesse, da un momento all’altro, diventare notte senza lasciare spazio ai colori.

    I suoi occhi fissarono allora la folla che continuava a camminare con passo affrettato dal freddo. Si dirigevano tutti verso le proprie case: era sicuramente finita la messa alla Saint Francis of Assisi Parish. Tanti volti senza nome. Anzi, non tutti. Ecco Tamás Szabó, il vecchio ungherese, che stava aprendo il portone della sua casa là di fronte. Aveva il solito cappotto marrone e si scaldava le mani con l’alito: era proprio freddo là fuori. Ed ecco passare la famiglia Sweeney con le bambine dai capelli rossi: non si perderebbero una messa neanche a pagarli oro questi irlandesi! E Rosiński, il polacco di Cracovia, con la divisa blu da lavoro anche in quel giorno di festa. Se la dovevano passare ancora male a casa: forse non avevano neanche mangiato il pranzo domenicale! Ed ora la famiglia Giaconelli: il figlio più grande indossava una giacca verde e si era lasciato crescere la barba, ma era sempre la copia sputata del padre. I Giaconelli erano stati i primi italiani ad arrivare là: in Italia non erano più tornati e non avevano intenzione di farlo… Ed ecco Mrs Krueger, la tedesca, che rincasava là di fronte: lei di certo non tornava dalla chiesa cattolica, ma dalla Immanuel Evangelical Lutheran Church, la chiesa protestante che si trovava non lontano da là.

    Gli occhi di Andrea si soffermarono quindi sulle impronte lasciate da tutti quei passi sulla neve finché gli ultimi raggi illuminarono la strada. Allora la sua attenzione fu attirata dal suono dolce e malinconico del flauto traverso di James Maher che abitava nella casa vicina e che, come ogni sera, proprio in quel momento, aveva iniziato a suonare. Era una domenica. Una domenica di fine gennaio del 1916. C’era tanto mondo in quell’angolo di strada. Tante storie. Tanti viaggi. E passavano là, davanti alla sua finestra. L’America era questo in fondo. Così pensò. E intanto continuava a guardare la strada bianca, anche se le sue palpebre volevano cadere giù. Già, cadere, ma lentamente, come quel sole che ormai stava quasi scomparendo tra gli alberi. Cadere giù. Chiudersi al sonno. Era stanco. D’altra parte la notte precedente non era riuscito a chiudere occhio. Le sue palpebre volevano proprio cadere giù come quella neve che, da qualche minuto, era iniziata a scendere di nuovo: in quel periodo dell’anno il New England era quasi sempre candido. E anche la New Haven County, in Connecticut, nonostante il grigiore delle fabbriche della gomma, brillava adesso, per quegli ultimi istanti, di neve al tramonto. Tutto era avvolto da un manto bianco e soffice come quello di certe capre. Già, proprio come quello di certe capre…

    Andrea, nonostante il sonno stesse per vincere la sua battaglia serale, rimase ancora davanti alla f­inestra finché tutto non divenne quasi buio e avvolto dalla musica del flauto. Voleva imprimere dentro di sé quell’immagine perché non sapeva se l’avrebbe rivista di nuovo. Voleva imprimere dentro di sé l’America del suo presente che ora iniziava e finiva là, fuori dalla finestra della sala da pranzo, al numero civico 105 di Coen Street, nella città di Naugatuck. Da poco era rientrato in casa, dopo essere stato alla Behlman's Tavern in Main Street con Antonio e Domenico per un ultimo brindisi con birra fresca. Già, birra fresca. Cinque anni prima, infatti, Philip­­ Behlman ed il suo socio in affari, Edward Fahey, avevano installato un sistema di refrigerazione della birra, pagando la folle cifra di millesettecentosessanta dollari!

    Andrea pensava… pensava ed aveva negli occhi una strana inquietudine… ed il sorriso enigmatico sotto i lunghi baffi: quel sorriso che se ne stava là, beffardo e sprezzante, a sfidare il futuro più incerto. Quel sorriso che tutti i Bomboi portano addosso. Erano passati tanti anni: la Sardegna era lontana... Aveva trentaquattro anni ormai: i capelli erano sempre neri, ma, da alcuni anni, la fronte era divenuta più ampia. Pensava Andrea. Poi si voltò per un attimo verso l’interno della casa. Nella sala il camino era acceso ed una luce traballante ora allungava ed ora accorciava le ombre della sedia di legno, delle gambe del tavolo e del vaso di vetro dietro di lui. Si voltò di nuovo e rapidamente verso la finestra. Si toccò i baffi col pollice e l’indice per tre volte, lasciando scivolare infine il palmo sul mento. Nevicava e lui rimase così a fissare il cielo ormai sempre più scuro dalla finestra della casa di legno. Perché, nonostante i suoi occhi lo volessero portare tra le lenzuola, quella sera si sentiva troppo teso per andare a letto. D’altra parte il pensiero di quello che lo avrebbe atteso l’indomani mattina lo rendeva inquieto. Così iniziò a pensare al suo passato, sognando il mare che, dopo tanto tempo, il giorno dopo, avrebbe finalmente rivisto.

    Pensava…

    Andrea, o meglio Andrìa, era nato il 30 novembre del 1881. E sua madre aveva scelto questo nome perché era nato il giorno di Sant’Andrea: Il primo apostolo scelto da Gesù Cristo per farne un pescatore di uomini insieme al fratello Pietro.

    Era nato a Thiniscòle, cioè a Siniscola, piccolo paese della Sardegna di neanche tremila abitanti, nella contea di Montalbo.

    Terra di banditi e di proteste. E di fame. Perché, proprio in quegli anni, la lenta e sofferta fine dell’ademprivio secolare, della cussorgia e del feudalesimo aragonese e la diffusione della proprietà privata e della speculazione borghese avevano generato un grande malcontento.

    Terra di banditi e di proteste. E di fame. Perché il Regio Decreto del gennaio del 1863, che seguiva il vecchio e odiato Editto Sabaudo delle Chiudende del 1820, aveva sommariamente stabilito il riscatto delle comunità di Posada, Siniscola, Lodè e Torpè, ma il giovane Regno d’Italia non aveva saputo fronteggiare i problemi di quella terra, con conseguenze nefaste sugli allevatori e sugli agricoltori, cioè sulla maggioranza della popolazione locale.

    Inoltre, il mondo rurale di Siniscola e dei paesi vicini Torpé e Posada era diventato vittima dei proprietari dei caseifici e dei commercianti, soprattutto romani, ormai definiti scorticatori di pastori che pagavano sempre più in ritardo le campagne di acquisto del pecorino o ne abbassavano il prezzo. E si era giunti al punto in cui la contrattazione del prezzo per la nuova annata avvenisse prima del pagamento dell’annata precedente.

    Al malessere sociale e alla mancanza di sviluppo, era andata ad aggiungersi la malaria che mieteva vittime ed indeboliva chi restava in vita, sostenuta dalle condizioni malsane della zona, in quegli anni disboscata senza criterio per ottenere carbone, traversine ferroviarie e legna da commerciare. Così, a dispetto di quel mare azzurro che lambiva l’isola, il paesaggio era diventato sempre più brullo e devastato dall’ascia fino alle zone di Monte Latu, Grassianu, Conoi, Binza ’e Jana, Ospolo e Ospoleddu e fino alle colline del litorale. E la terra da coltivare e per allevare era diventata sempre più rara.

    La fame di terra aveva così spinto i poveri contadini fin sul piano di Sa Mesa, arroccato sulle alte vette del Monte Albo, per seminare il grano, dopo aver percorso, con il carro ed il buoi, antichi sentieri ripidi. E là i contadini soggiornavano per settimane lontano da casa, attendendo il raccolto de s’agliola e il rientro con i sacchi di grano a Siniscola.

    In questo clima il numero di banditi, balentes o miseros che fossero, era andato costantemente aumentando come conseguenza della fame e dello scompiglio sociale generati dalla privatizzazione delle terre e dall’abolizione del feudalesimo.

    E al padre di Andrea, Giuseppe Bomboi, era capitato di dover essere proprio carabiniere di Siniscola, in quegli anni di banditi e di proteste. E, nonostante tutto, era riuscito, nella sua breve esistenza, ad essere un buon padre. O, per lo meno, così ad Andrea piaceva ricordarlo. Già, il suo babbu. Un uomo che cantava sempre, anche e soprattutto quando le cose andavano male. Un’arte di famiglia il canto o il fischio, un inesauribile vizio che si tramandava di generazione in generazione. Sicuramente suo padre era stato un uomo che, a dispetto della sua poca cultura, era stato in grado di mandare i figli a scuola perché se non sapete leggere, scrivere e contare, qualcuno potrà decidere per voi!. Andrea non riusciva a ricordare bene il suo volto però sapeva che lo aveva ammirato per essere stato capace di avere un lavoro dignitoso che gli aveva permesso di acquistare, dopo anni di sacrifici, un vasto appezzamento di terreno presso il fonte di Cardianeddu e di sistemare la casa di famiglia, la casa dei suoi avi, situata vicino alla chiesa della Santissima Vergine delle Grazie… Ad ogni modo, ad Andrea era rimasto solo un temperino di tutti quei possedimenti. Quel piccolo coltello Pattada che adesso portava in tasca era tutta l’eredità di suo padre. Quando Andrea aveva quasi undici anni, infatti, proprio alla fine delle scuole elementari, il padre era morto di malaria. Ricordava che sua madre si era messa seduta sui talloni e aveva iniziato prima a percuotersi le cosce e la fronte e poi a strapparsi i capelli. Quindi, piangendo, aveva iniziato s’attinu, la lugubre litania che si cantava per i defunti probabilmente dal tempo dei nuraghi. Erano ancora vivi quei lamenti nella mente di Andrea. Ricordava le sue zie e cugine che baciavano il cadavere, mentre lui e suo fratello, seduti accanto a su fochile, tenevano i pugni stretti cercando di trattenere a fatica le lacrime. Poi sua madre, in silenzio, aveva preparato il pane e aveva riempito con l’acqua alcune brocche perché il marito sarebbe senza dubbio venuto a mangiare di notte mentre loro dormivano. E anche il giorno seguente ci fu molto cibo. Andrea pensava che il pranzo delle esequie fosse stato l’ultimo buon pasto che avesse avuto a Siniscola: avevano invitato parenti e qualche povero affamato e avevano mangiato persino su peticoccone, l’uva passa e i fichi secchi. Era tutto su quel grande tavolo su cui la madre teneva quello strano oggetto circolare, forse una pintadera nuragica. Aveva spesso in mente l’immagine di sua madre e delle altre donne con le candele tra le mani, quando lui e suo fratello erano andati a gareggiare per suonare a lutto la campana della chiesa, convinti che l’anima del loro babbu non sarebbe potuta uscire dal purgatorio se non avesse udito quei rintocchi.

    Così Andrea, tanto bravo nel calcolo matematico, era dovuto andare a zappare la terra per aiutare la famiglia già dalla settimana successiva al lutto.

    Pochi mesi dopo era morta di malaria anche sua madre, la sua mama, lasciando due figli completamente da soli: Andrea e suo fratello maggiore. Andrea ricordava di aver pianto per giorni. Speranza Monni si chiamava sua madre. Andrea ne conservava un ricordo sbiadito: era una donna semplice, piccola e silenziosa, che aveva passato tutta la sua breve vita superstiziosa e religiosa tra la pentola e la zappa. Era il prodotto di generazioni di pastori e contadini sardi che ignorava ci fosse un mondo oltre la Sardegna, riuscendole più semplice immaginare il regno di Dio che una qualsiasi città più distante di Nuoro. Prima di morire aveva dato ad Andrea un rosario e gli aveva detto che suo fratello, maggiore di lui soltanto di tre anni, avrebbe badato a lui.

    Ma Andrea aveva praticamente rimosso dalla sua mente anche l’immagine di suo fratello. Perché, solo un anno dopo la morte della madre, la malaria si era portata via anche lui. Era morto mentre Andrea e le sue cugine più grandi si erano affannati per giorni intorno a quel letto per raffreddare il suo corpo con stracci imbevuti d’acqua fredda e per dargli da bere malva sotto forma di decotto. Ricordava che la sua superstiziosa cugina Cecilia gli aveva raccontato che suo fratello era morto perché alcuni vampiri sotto forma di mosche gli avevano succhiato tutto il sangue dal cuore. E aveva aggiunto che lei aveva sempre saputo che sarebbe morto perché aveva sentito davanti alla porta il muggito di su voe de San Iaccu, cioè lo spirito di un uomo trasformato in bue che annunciava la morte.

    Insomma, era rimasto lui, Andrea. Con quel rosario al collo. Uno dopo l’altro i suoi cari erano finiti tutti al cimitero, sotto un albicocco, cresciuto là, per caso, in mezzo alle bare. Un albicocco grande e ombroso con un grosso favo d’api attaccato ad un ramo. Dopo la morte del fratello, Andrea aveva mangiato tre albicocche e aveva tenuto con sé tre noccioli. Tre ricordi.

    E la vita non era stata clemente con Andrea. Aveva, infatti, deciso di prendersi cura di lui un lontano parente, Battista Sanna, o meglio tziu Battista Sanna, come Andrea lo chiamava in segno di rispetto e timore. E, in realtà, più che di lui, tziu Battista si era preso cura delle terre di suo padre, appropriandosene.

    Andrea era così andato a vivere nella tenuta di tziu Sanna, vicino al porto, noto anche come Pedras Nieddas o La Caletta, non lontano da Siniscola, dove aveva iniziato a lavorare come garzone a cinque lire l’anno, suddivise in misere rate. Passava le giornate riparandosi sotto le fronde dei meriacros secolari oppure sotto sas arulas, le due piccole baracche di frasca e muri a secco costruite all’interno de sa mandra, il recinto per la mungitura. Battista e la sua famiglia, infatti, erano gente senza scrupoli e avevano avviato Andrea alla pastorizia, lasciandolo dormire fuori casa, vestito di stracci, spesso senza cena.

    "S’okru ‘e su mmere ingrassa su voe!"

    Era solito dirgli tziu Battista, paragonandolo a un bue cui bastava l’occhio vigile del padrone per ingrassare e giustificando così i magri pasti di Andrea.

    Tziu Battista Sanna lo picchiava, soprattutto quando era ubriaco e, spesso, non lo pagava per il lavoro svolto.

    Andrea, quando non lavorava, stava quasi sempre nella stalla, vicino alle capre, solo o accanto a Briantinu, il vecchio cane zoppo che lo aiutava con il gregge.

    Non aveva neanche un paio di scarpe.

    Pensava Andrea… non riusciva a non pensarci… la mente fissa a quella sera d’estate del 1894. Perché quel tramonto americano gli aveva portato prepotentemente in mente il tramonto sardo di quella sera.

    Aveva dodici anni.

    "Si commerciano le capre, Andrea. Si va in Maremma, poi si ritorna. Faccio questo mestiere da più di venti anni. Si lavora e si guadagna. Certo, si sta sempre in viaggio, ma torno dalla mia famigliola a Santa Marinella piuttosto spesso. Tu sei un bravo ragazzo e un ottimo pastore. Le capre del tuo padrone le tieni bene ed è un piacere fare affari con voi."

    Il mercante di capre toscano si fermava spesso a parlare con lui quando veniva a comprare le capre di Battista Sanna. Andrea trovava il toscano una lingua bizzarra e, allo stesso tempo, chiara ed affascinante. Insomma, qualcosa da guardare come la ricchezza. Qualcosa che si trovava dietro la vetrina. Dietro quella vetrina cui può accedere solo una piccola parte del mondo perché la gran parte non può far altro che guardarla.

    Il mercante era un uomo sulla quarantina, piuttosto grassoccio, brizzolato e simpatico e quella notte… quella notte avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Erano davanti alla casa di Battista. Era una casa bassa, tipicamente sarda, con il portone al centro e due ampie finestre ai lati che sembravano due occhi. In quel momento, col sole ormai tramontato, la luce che usciva dalla porta e dalle finestre spalancate conferiva uno sguardo attonito alla casa, quasi l’edificio fosse rimasto impietrito davanti alla sofferenza cui assisteva ogni giorno. Davanti alla casa, nel cortile, sotto un grande nespolo, era stato lasciato il carretto dal mercante. Sul carretto erano già pronte le capre che Andrea aveva portato dal recinto. Tra due o tre ore, come le volte precedenti, il mercante sarebbe partito: il tempo di bere un bicchiere di cannonau in casa di Battista, di parlare d’affari e di riposarsi.

    "Portatemi con voi, signor Guido!"

    Tu mi sa che non ragioni! Ma sei matto! E ai tuoi che gli racconti?

    Io sono solo. Non ho nessuno qui.

    "Maremma ladra! Hai il signor Sanna e sua moglie… Son gente perbene, figliolo!"

    Dormo per terra, signor Guido. Nella stalla. Babbo è morto e tziu Battista non è buono come sembra. Vedete questi segni sulla schiena?

    Andrea sollevò sa pedde scura e si scoprì il dorso: c’erano segni di cicatrici più o meno recenti. Colpi inferti con la cinta. Guido lo guardò con compassionevole impotenza.

    Figliolo, io non posso portarti via. Tra poco partirò col carretto. Si prende la nave e si va a Civitavecchia. Il signor Sanna è uno dei miei principali fornitori e tu lavori per lui. Non puoi venire con me perché…

    "Andrìa! Beni a inoghe!"

    La voce dello tziu Sanna, che ordinava ad Andrea di andare da lui, tuonò all’improvviso dall’interno della casa. Quella lingua sarda, gridata nella notte, che lo richiamava al padrone, gelò per un attimo la voce e le gambe di Andrea.

    Silenzio.

    Portatemi con voi! Per favore!

    "Sei dduro ‘ome lle pine verdi! Ti ho detto che non posso, Andrea..."

    Per favore, signor Guido!

    Andrea, ti ho…

    "Andrìa! Cane mandrone! Beni, disgrassiatu!"

    Di nuovo la voce di Battista squarciò la notte. Andrea rabbrividì.

    Poi seguì un lungo silenzio.

    Vi supplico, signor Guido!

    "No. Ragazzo, smettila ora! Io ho altro a cui pensare. Ora vai che il tuo padrone ti chiama e tra un po’ devo venire dentro anche io per trattare con lui il prezzo de... Ma i’ che tu fai?"

    Guido non finì neanche di parlare: Andrea corse via dal cortile della casa del padrone oltre la recinzione di fichi d’India… Corse in mezzo al campo arato, tra le spine dei cardi e tra i mirti. Correva. Arrivò al porto di Pedras Nieddas. Il piazzale della rada de La Caletta accoglieva montagne di carbone in at­tesa dell’imbarco per conto degli imprenditori che avevano in appalto la distruzione dei boschi siniscolesi e del Monte Albo.

    Guardò il mare. Perché i Bomboi il mare ce l’hanno dentro. Sono come i gabbiani diceva il suo babbu. Davanti il mare. Dietro il Monte Albo, la Sardegna. Davanti il mare. Onde che venivano da chissà dove. Non poteva restare. Onde che portavano profumi lontani. Doveva partire. Davanti il mare. Dietro la sofferenza. Non poteva restare. Davanti la speranza. Dietro la Sardegna. Doveva partire. Onde che lo invitavano lontano. Dietro tziu Battista Sanna, le capre, una stalla senza un letto. Paglia. Davanti il mare. Iniziò a correre. Corse via dal porto. Corse tra i mirti e tra le spine dei cardi, in mezzo al campo arato. Arrivò di nuovo nel cortile della casa di Battista Sanna. Il padrone, probabilmente, era dentro la casa a trattare e a bere con Guido.

    Andrea fissava le luci della casa con gli occhi sbarrati, fermi, con le palpebre immobili. Era pensieroso. La luna illuminava di bianco il vialetto che lo separava dall’ingresso della casa. Per un attimo pensò di entrare. Poi guardò il carretto delle capre.

    All’improvviso una mano gli si posò sulla spalla destra. Andrea sobbalzò.

    Che fai?

    Domenico, mi hai fatto prendere un colpo!

    Sto per andarmene a casa. Tu che fai qui fuori?

    Me ne vado via.

    Sentenziò Andrea. Domenico guardò il ragazzo incuriosito. Allora Andrea aggiunse:

    Voglio andare via da questo inferno!

    Domenico Conteddu era un ragazzo sulla ventina che lavorava con lui presso la terra di tziu Battista. Era moro ed aveva sottili baffi scuri. Ed era buono d’animo. Era l’unica persona di cui Andrea si poteva fidare al lavoro, l’unica persona che lo aiutava quando si trattava di spostare carichi pesanti, l’unica persona che, durante il lavoro, aveva, talvolta, avuto qualche parola di comprensione per lui.

    Il ragazzo gli poggiò nuovamente una mano sulla spalla, mentre scuoteva la testa. Domenico pensava che si trattasse soltanto della follia di un ragazzino: dopo tutto, Andrea era un ragazzo pieno di inventiva! Però non si fece troppe domande e pensò che ogni scusa era buona per il loro tipico appuntamento. Così guardò Andrea e disse:

    Aspetta, Andrea: se te ne devi andare, dobbiamo brindare!

    Così, con pochi passi, raggiunse una quercia da sughero cui era legato l’asino con il quale lavorava. Da una custodia, assicurata da un laccio al dorso dell’animale, estrasse una bottiglia, ben nota ad Andrea, che li aiutava nelle giornate pesanti: liquore di mirto. Poi tornò da Andrea tenendo la bottiglia nella mano destra, mentre con la sinistra si aggiustava il ciuffo di capelli sulla fronte alla sua maniera.

    "Se proprio devi partire, ti accompagni il nostro motto: mi falet unu raju, unu raju mi falet…"

    Si attaccò alla bottiglia. Poi passò il mirto al ragazzino mentre diceva:

    "… Si torro a biber abba in bida mea! Alla nostra incerta speranza!"

    Alla nostra!

    Fece eco Andrea. E mandò anche lui giù un po’ di liquore.

    Già il loro motto: i versi della poesia nuorese tzia Tatana. In quel sardo così musicale: mi colpisca un fulmine, un fulmine mi colpisca, se torno a bere acqua in vita mia! Alla nostra incerta speranza!

    Ma Andrea era strano. Guardò Domenico, gli diede la bottiglia e gli disse:

    "Ti chiedo un favore, Domenico. Quando andrai al centro di Siniscola, saluta il mio amico Antonio Melai e le mie cugine Speranza e Cecilia Bomboi da parte mia. Digli che vi scriverò e che un giorno tornerò a trovarvi. Adiosu!"

    Detto questo, Andrea alzò il braccio e aprì la mano in segno di saluto.

    Domenico neanche lo salutò: non pensava che Andrea parlasse sul serio così si avviò verso il cancello del cortile di tziu Battista, uscì in strada e scomparve nella notte.

    Andrea si guardò intorno. Si vedeva una fioca luce alle finestre della casa e si sentivano risate e rumori provenienti dall’interno: sicuramente tziu Battista Sanna stava ancora bevendo vino con Guido, come le altre volte.

    Era buio e la luna illuminava il campo delimitato da un basso muretto a secco. Quella era l’ora in cui, come gli aveva raccontato sua madre, sas panas, le anime delle partorienti morte durante il travaglio, iniziavano ad andare verso sa untana dove, a mezzanotte, avrebbero iniziato a lavare i panni. Era l’ora in cui sas janas uscivano fuori dalle case, insieme ai nani e agli spiriti maligni. Era il momento in cui finiva la giornata dell’uomo ed iniziava quella delle anime e dei folletti. Ma Andrea non aveva paura quella sera.

    Il cane Briantinu passeggiava là intorno. Andrea lo accarezzò. Poi lanciò lontano un osso, il cane si mise a correre e Andrea disse piano tra sé:

    "Bae chin Deus, Briantinu!"

    Poi guardò la luna mentre alcune piccole nuvole le passavano davanti. Sentì un brivido…

    Guido non si era mai fermato per più di tre ore. Andrea sarebbe voluto andare a salutare le tombe dei suoi… Ma Siniscola non era proprio vicina a Pedras Nieddas. Si infilò le mani in tasca e strinse i tre noccioli di albicocca ed il temperino di suo padre.

    Guardò di nuovo il carretto con le capre sopra.

    Piangeva.

    Si guardò intorno e si avvicinò al carro. Con un balzo, salì sopra. Tra le capre. Sul carro ce ne erano almeno una ventina e stavano ammassate l’una all’altra. Andrea le conosceva tutte come fratelli e sorelle.

    Zitta, Niedda!

    Disse, rivolgendosi ad una capra.

    Raggiunse il centro del carro facendosi largo tra le capre e si stese tra di loro in posizione prona, coprendosi con del fieno per evitare di essere visto.

    La prima che mi calpesta, la faccio arrosto!

    Disse Andrea a voce bassa, guardando le capre con sguardo minaccioso.

    Il mercante arrivò nei pressi del carretto circa venti minuti dopo, accompagnato da tziu Battista Sanna. Guido stava dicendo di essere molto teso: tziu Sanna gli aveva raccontato che, soltanto pochi mesi prima, a marzo, lungo la strada che univa Siniscola al porto de La Caletta, Domizio Scartabelli, un giovane imprenditore toscano, commerciante di legname e carbone, era stato rapito da un individuo mascherato che indossava un cappotto da soldato di fanteria ed era stato tenuto sotto sequestro da tre banditi per sette giorni in una grotta sul Monte Albo. Il giovane era stato rilasciato, ma gli erano stati derubati alcuni beni personali e gli erano state rivolte delle minacce. Tziu Sanna aveva aggiunto che, nel maggio precedente, nelle campagne tra Irgoli e Siniscola, nella località di Conca Fraicata, i carabinieri Francesco Santamaria ed Antonio Lai avevano avuto un conflitto a fuoco con due banditi, Giovanni Antonio Patteri e Cristoforo Mele. Nello scontro era morto uno dei due latitanti addosso al quale i carabinieri avevano trovato l’orologio e l’anello di Scartabelli.

    Se lo avessi saputo prima, non sarei venuto!

    Quella è una strada maledetta! L’hanno costruita i francesi di Lula circa trent’anni fa e già è piena di spiriti maligni! Credo che la situazione andrà anche peggiorando. Cercate di stare attento! Ad ogni modo il percorso che dovrete fare voi è breve: solo l’ultimo tratto di quella strada. Viaggiate armato?

    Certo! Ho sempre il fucile con me!

    Bene! Arriverete al porto in pochi minuti!

    Lo so. Ma sono preoccupato lo stesso!

    Si salutarono. Guido slegò i muli. Salì, quindi, sul carretto e stava per partire quando Battista Sanna gli si piantò davanti:

    Signor Spada, non ricordo se è stato tolto il collare alla capra bianca.

    Andrea a quelle parole trasalì. Era là, sdraiato sul fondo del carretto, tra le zampe delle capre. Sentiva il cuore battergli in gola forte e rapido. Non poteva vedere nulla e sentiva solo puzza di capre là dentro.

    Andate pure a controllare.

    Disse Guido.

    Sono cose che dovrebbe fare Andrea. Quel pelandrone maledetto… Andrìa! Andrìa!

    Battista iniziò a chiamare il ragazzo a gran voce, mentre si avvicinava al carretto.

    Dove sarà andato? Accidenti che buio pesto! Non si vede nulla. Guido, si può spostare il carretto qualche metro più avanti?

    Sì, certo.

    Guido fece un verso ed i due muli si mossero. Il carretto si fermò tre metri più avanti. Ora era illuminato dalla luna.

    Battista Sanna si avvicinò al carro. Andrea si mise una mano davanti alla bocca. Era agitato. Sentiva il respiro di tziu Battista sempre più vicino. La paura governava il suo silenzio. D’un tratto l’ombra di tziu Battista Sanna calò sul carro. Andrea era proprio al centro del carro, steso a terra, coperto dalle capre e dalla penombra.

    Non riesco a vederci bene. È troppo buio.

    Andrea tremava. Una capra iniziò a belare. Briantinu accorse abbaiando.

    Zitto, cane!

    Disse Battista che cercava di guardare tra le capre, strizzando le palpebre. Allora Guido suggerì:

    Se volete, potete salire sopra.

    Mi servirebbe una scaletta…

    Andrea tremava. Le capre iniziavano ad agitarsi.

    Se preferite, posso far scendere tutte le capre così voi…

    Sì, forse è meglio…

    Andrea sentì il cuore che batteva sempre più forte nella sua gola secca.

    Le faccio scendere qui o è meglio…

    No, no. Non ce n’è bisogno. Ecco la capra bianca. È proprio qui, vicino alla sponda del carro: le tolgo il collare. L’avrebbe dovuto fare quel maledetto… Andrìa! Andrìa! Ma dove si sarà cacciato?

    Guido tossì forte per attirare l’attenzione di Battista che imprecava e continuava a chiamare Andrea ad alta voce.

    Be’, se avete ripreso il vostro collare, io vi saluto! Arrivederci!

    Arrivederci!

    Pochi istanti dopo, il carro era per strada, nella notte illuminata solo da una bianca luna e dalle stelle.

    Muto, nel silenzio della macchia sarda. Muto, sul fondo di un carretto. Si può arrivare lontano partendo dal fondo. Si può arrivare lontano tra i belati delle capre.

    Il carro avanzava veloce verso il mare, condotto dalla paura di Guido che temeva di incontrare qualche bandito. Era teso il commerciante e per poco non cadde dal carro quando un cane abbaiò forte alla sua sinistra.

    "Maremma ‘ane! Vai via, cagnaccio! Via… Ma… Sei il cane di Sanna! Torna a casa dal tuo padrone!"

    Ma Briantinu continuava a seguire il carro abbaiando.

    Allora Guido fermò il carro, scese a terra e colpì il cane con un bastone, dicendo:

    Zitto, bestiaccia… ché se mi trovano i banditi per colpa tua, ti ammazzo!

    Briantinu si fermò e, questa volta, intraprese, zoppicando, la strada verso casa Sanna, emettendo ogni tanto qualche latrato.

    Andrea piangeva in silenzio, pensando al suo cane che guaiva per lui.

    Arrivarono presto al porto de La Caletta. Andrea, sdraiato, non poteva vederlo, ma riconosceva chiaramente i rumori tipici di quel posto. Ci andava, spesso, infatti, a nuotare col suo amico Antonio. In quel mare così suo che ne conosceva tutti i rumori intorno.

    Il piroscafo era arrivato. Si imbarcarono che era notte. Profonda e cupa notte. Lui sempre là. Steso in silenzio sul fondo del carretto. Aveva fame. Guido lasciò il carretto con le capre sopra e si allontanò.

    La nave si staccò dall’isola. Fu una spinta. Fu un secondo. Un secondo in cui Andrea spinse indietro il passato. Allontanò la Sardegna e la relegò al centro del mare. Lontano da sé. Aveva fame. Bevette il latte da una capra. Saltò giù dal carro. Poi si mise una mano sul petto e strinse il rosario della mamma mentre con l’altra mano, dentro la tasca, teneva stretto il coltello del padre. Aveva freddo. Prese, quindi, il cappello che Guido aveva lasciato sul carretto e se lo mise in testa. Non sapeva come e cosa dovesse fare. Ma sapeva che stava andando dove voleva. Nessuno intorno. Iniziò, dunque, a correre sulle scale. Salì su, su, su verso il pontile. Arrivò in alto. Quello che vide quella notte furono stelle. Tante stelle immerse nel nero che avvolgeva cielo e mare in un unico manto. Solo il rumore della nave sulle onde. E quello dei battiti impazziti di un piccolo cuore di un ragazzino da solo in mezzo al mondo. Ecco un uomo passargli accanto. Aveva paura il guardiano di capre. E freddo.

    Nessuno si curava di lui. Era là. Da solo. Pensava ad Antonio e a Domenico. Pensava alle sue cugine. Pensava a Siniscola. Pensava alla stalla. Pensava alle mani pesanti di tziu Battista e alla sua cinta. Sentì il dolore.

    Guardò il cielo. Sorrise. Sorrise di quel sorriso beffardo e sprezzante che rimase per un po’ sul suo viso a sfidare il futuro più incerto.

    Andrea! Diavolo di un ragazzo! Che ci fai qui?

    Guido spuntò dal buio con una bottiglia di vino ed un pezzo di pane carasau.

    "Maremma maiala!"

    Andrea si sporse oltre il parapetto della nave:

    Là non ci torno, signor Guido. Piuttosto mi butto giù dalla nave stanotte.

    "Fermo! Ma i’ che tu fai? Cerca di stare tranquillo… Povero ragazzo! Ma come sei arrivato qua sopra?"

    Nel vostro carretto. Tra le mie capre. Io da tziu Sanna non ci torno. Mai più!

    Sorrise, allora, Guido. Sorrise. Guardò il ragazzino con il suo cappello in testa.

    Vieni qui!

    E si avvicinò a lui.

    Anche Andrea si avvicinò. Guido gli tolse il cappello. Gli poggiò una mano sulla testa. Poi si tolse la giacca e la mise sulle spalle del ragazzo. Gli diede il suo pane carasau e la bottiglia di vino. Scese giù il vino. Giù nelle vene che si scaldarono sul pontile in una notte fresca e ventosa anche se estiva. E la luna imbiancava il profilo di un uomo e di un ragazzino. Il sorriso di un uomo e gli occhi affamati di un ragazzino. Nella notte senza tempo e senza spazio. Sotto il mare.

    Domenica dirò a mia moglie di prepararti una cena speciale! E mia moglie cucina benissimo! Ma lunedì mattina ti alzerai presto e mi darai una mano con le capre ché si deve arrivare in Maremma per venderle.

    Si sdraiarono sul pontile. Umido. Qualcuno passò loro accanto nella notte. Guido e Andrea erano là. Uno accanto all’altro. Andrea pensava alla mamma, al fratello, al babbo.

    "Izu meu, ricorda sempre che i Bomboi non piegano mai la testa. Mai. Nemmeno davanti al dolore più forte. Nel dolore i Bomboi sanno sempre essere eroi."

    Così gli aveva detto il babbo poco prima di morire di malaria.

    Si strinse a Guido. Il mercante era grassoccio e caldo. E Andrea si addormentò...

    TEEERRAAA!

    Una sola parola. Ma lunga.

    Esplode dalla gola di un uomo. Un urlo. Dopo il tempo passato tra il buio della notte e il bagliore del giorno tra le onde.

    E il brivido che sale lungo la schiena.

    Quella sperata certezza che si rivela dopo l’attesa. Quel brivido che si scatena dall’attesa.

    Poi appare una linea ferma lontana. Non è più blu. Non sono più onde.

    È TERRA. È quello che sognavi sul pontile. È quello che ancora non conosci e che ti fa tremare. È quello che sta oltre la prua di questo sogno.

    È là. Davanti ai tuoi occhi.

    La speranza dell’approdo.

    La certezza che da qualche parte IL MARE DEBBA COMINCIARE. Inizi a sognare il bagnasciuga… e già i gabbiani sono lassù in cima: custodi dell’arrivo. Solo la loro voce dopo quell’urlo.

    La loro voce a ribadire quelle vocali della sospirata e gridata parola TERRA:

    EEEAA! EEEAA! gridano i gabbiani.

    La loro voce a salutare le vocali della parola MARE.

    Un annuncio trionfante dell’arrivo del viaggiatore. Terra. Terra. Terra.

    E i tuoi occhi sono là. Spalancati verso la speranza del futuro. Verso la fine e l’inizio del viaggio.

    Il passato è oltre la distesa azzurra. Sommerso dai cavalloni. Risucchiato dall’elica del bastimento.

    C’è solo il domani sulle spiagge che si avvicinano.

    E la voglia di sognare.

    Oltre il mare.

    Andrea fu svegliato da un urlo. O forse fu lui a gridare nel suo sogno. Guido era in piedi accanto a lui. Mangiava ancora pane carasau e beveva latte di capra.

    Civitavecchia era davanti a loro.

    "Ecco le torri del Lazzaretto e del Bicchiere! Quello è il Forte Michelangelo! E quella là... de’, quella là è Santa Marinella!"

    Disse Guido, indicando con l’indice.

    Il ragazzino, scalzo e avvolto nel cappottone, guardò il mercante con sguardo enigmatico. Poi osservò intorno a lui. Sentì la brezza che lo rapiva: veniva dalle colline della terra di fronte.

    Non poteva dimenticare il momento in cui aveva messo i suoi piedi scalzi sul continente. Non poteva dimenticare la prima volta a Civitavecchia. Il porto era molto grande. Sulla destra si ergeva maestoso il Forte Michelangelo. E c’era tantissima gente!

    Dopo esser sbarcati, si diressero verso Santa Marinella.

    Perché si chiama Santa Marinella?

    Mah! Dicono che una santa con questo nome, scampata ad un naufragio, sia stata portata qui dal mare… E che, poco più in là, a Santa Severa, fosse stata portata dal mare sua sorella Severa. Ad ogni modo ne raccontano tante…

    Guido Spada aveva una piccola casa, se così poteva definirsi quell’angusta baracca, in collina, non lontano da una tenuta detta Poggio del Principe. Là viveva con la moglie Alba e cinque figli piccoli. A dirla tutta, lui era nato a Piombino ed era figlio di un certo Berardo, ormai morto da anni, che faceva il carrettiere e che era giunto nella zona di Santa Marinella intorno al 1830. Da giovane Guido era tornato a Piombino a lavorare per certi parenti, ma da qualche anno era tornato a vivere a Santa Marinella. Col carretto del padre.

    I figli di Guido, cioè Marco, Daniele, Stefano, Margherita e Umberto erano nati tutti negli otto anni precedenti ed il secondo parto, quello di Daniele e Stefano, che avevano sei anni, era stato un parto gemellare. Insomma una folta tribù, la famiglia Spada, che protestava per la sua quotidiana lotta per il cibo, creando quel sottofondo di pianto costante che era diventata la vera voce della casa, sovrastando di gran lunga i belati delle pecore o i muggiti delle vacche che si aggiravano là intorno.

    Quella domenica, arrivarono alla casa, mentre la signora Alba stava cucinando.

    Purtroppo di asparagi non ce n’è più di questi tempi, altrimenti avresti assaggiato una specialità di mia moglie!

    La casa di Guido era un luogo molto povero: in un angolo non lontano dal tavolo, intorno al quale ora era riunita la famiglia, si trovava un giaciglio in terra utilizzato come letto per i bambini che vi dormivano tutti insieme, mentre Guido e la moglie trascorrevano la notte nell’unica altra stanza della casa. Per Andrea fu facile capire che a lui sarebbe toccata la stalla.

    Non lontano dal tavolo, ma sul lato opposto rispetto al giaciglio, era stato acceso un fuoco su cui bolliva un vecchio pentolone.

    Alba era una donna piccola, silenziosa, con i capelli neri. Non aveva ancora trent’anni, ma sembrava molto più anziana col seno sfiorito dalle poppate e numerose varici che le contornavano le gambe pallide e sottili. In contrasto col suo silenzio, i bambini facevano molto chiasso sul letto come certi piccoli uccelli nel nido quando sentono che la loro madre si sta avvicinando con il cibo.

    Mangiarono carne di pollo, un evento raro per quella casa in cui Andrea avrebbe trovato normalmente solo cipolle e patate.

    Guido, durante il pasto, raccontò ad Andrea che aveva lasciato la Toscana e si era stabilito a Santa Marinella per essere in prossimità del porto di Civitavecchia. Quando non commerciava bestiame, lavorava la terra del principe Baldassarre Odescalchi, che aveva vari possedimenti in quella zona. Stimava molto il principe e disse ad Andrea che alcuni locali lo avevano visto addirittura con Giuseppe Garibaldi in persona molti anni prima:

    Dicevano che il principe in persona andasse a prendere Garibaldi in carrozza alla stazione di Civitavecchia e poi lo portasse a curarsi le ferite di guerra con le acque termali! È ricchissimo! Pensa che è proprietario di non so quante terre anche in Ungheria!

    Parlarono per tutta la sera. Insomma Andrea fu ben accolto dalla famigliola, ma Guido sottolineò:

    Andrea, non credere che ti manterremo noi: io non ho soldi neanche per la mia famiglia. Come vedi, si vive in una casetta minuscola. Ti si può dare un posticino nella stalla e dovrai lavorare con le mie bestie. Io non ti picchierò come il signor Sanna, ma dovrai lavorare!

    La sera, girando per la zona, Andrea constatò che quel posto, come Siniscola, era infestato dalle zanzare.

    All’alba del lunedì seguente il loro arrivo, come previsto, si rimisero in viaggio verso la Maremma. Sempre il mare sulla sinistra. Oltre il mare la Sardegna. Oltre il mare il passato, il dolore, lo sfruttamento.

    Ma Andrea adesso era tranquillo. Più andavano verso nord, più si sentiva libero.

    Seduto sul carro, fischiava, da alcuni minuti, una melodia che piaceva a Guido.

    La fischiava sempre il mio babbo: lui sosteneva che saper fischiare è come saper suonare uno strumento.

    Passarono Monte Argentario e poi si diressero verso Grosseto. Sempre più a nord. Dormivano fra i campi. Due volte si fermarono in osterie e Guido gli offrì il pasto.

    Arrivarono alla periferia di Grosseto. Là Guido doveva vendere le capre presso tre fattorie e Andrea lo aiutò nel calcolo della spesa.

    Sulla strada del ritorno si fermarono, quindi, presso un’osteria per comprare pane, vino e altre pietanze per loro e per la famiglia di Guido. Guido pagò l’oste che mise il resto sul bancone.

    Il mercante stava per prendere il resto, quando Andrea lo fermò, dicendo:

    C’è un errore nel resto: mancano due centesimi!

    L’oste guardò indispettito il ragazzino: era stato colto in flagrante.

    Più tardi Guido ringraziò Andrea:

    Be’, ti sei ripagato del pane che ti ho offerto!

    Tornarono a Santa Marinella alcuni giorni dopo. Durante il resto del viaggio, Guido fece i complimenti ad Andrea per la sua rapidità e precisione nel fare i conti e Andrea raccontò a Guido la sua passione per i calcoli matematici. Guido era quasi analfabeta e capì che quel ragazzino poteva davvero tornargli utile.

    Così Andrea iniziò a lavorare per Guido come commerciante di bestiame e finì spesso per fare viaggi al suo posto in giro per l’Italia centrale. Inoltre, divenne sempre più esperto di ovini e caprini e imparò a preparare formaggi, grazie alle conoscenze che Guido metteva a sua disposizione. Decise, però, che non sarebbe tornato in Sardegna per nessun motivo: la paura del passato era ancora viva.

    La comunità di Santa Marinella, in cui Andrea si ritrovò a vivere, era composta da circa duecento anime. Gente nata principalmente nell’Umbria e nelle Marche o nelle vicine città di Tolfa, Bracciano e Civitavecchia. La maggior parte di queste persone viveva nel borgo che si sviluppava intorno al grande castello e alla tenuta che, sette anni prima, il principe Odescalchi aveva acquistato dal Pio Istituto di Santo Spirito in Sassia di Roma per la cifra di trecentotrentaseimilacinquecentosessantatré lire con l’idea di realizzare un paese giardino.

    Vicino al castello la piccola chiesetta era il cuore della comunità. Non lontano dal castello c’era una piccola trattoria nota come Osteria e Cucina. Ci lavoravano una certa Sora Artemisia e le figlie: passavano le giornate a preparare larghe sfoglie di pasta all’uovo che stendevano sulla spianatora con il lansagnolo. Guido andava spesso in quel posto soprattutto per via dell’ottimo vino che il marito della signora Artemisia, il signor Giuseppe Illuminati, si procurava da molte parti d’Italia. Una piccola costruzione accanto all’osteria era adibita a locanda per chi era in viaggio da Roma al porto di Civitavecchia. C’era poi un’altra trattoria, non lontana dal castello, quella del ferroviere Salvatore Lucignani e di sua moglie Gioconda da cui veniva sempre odore di pesce. Vicino al castello sorgeva anche la vecchia Casa della Posta ed Osteria, una grande villa di proprità del marchese Urbano Sacchetti che l’aveva comprata pochi anni prima dal principe Odescalchi. Nel giardino della grande villa erano in corso vari scavi archeologici, fatto che incuriosiva molto Andrea. Poco distante da là, si trovava la Fornace della Tavoletta e, più lontano, sulla collina, si vedeva il casale Valdambrini.

    Andrea, dopo un po’ di tempo, si rese conto che a Santa Marinella, in alcuni periodi dell’anno, da alcuni punti si poteva vedere il sole sorgere dal mare e tramontare nel mare. Come se la luce fosse portata avanti ed indietro dalle onde. E si innamorò di quell’angolo di mondo.

    D’estate, sulla spiaggia, vicino al castello, c’era sempre qualche ricca famiglia romana in villeggiatura e le capanne di molti pescatori che venivano da Pozzuoli. Quando i villeggianti arrivavano per giocare a carte sulla spiaggia, i pescatori erano però già rientrati a terra. Perché per i poveri l’alba iniziava prima e, in genere, non c’era tempo per le carte da gioco. Per i poveri l’alba iniziava prima del sorgere del sole: potevi vedere di buon mattino le loro barche tirare dietro quelle reti tra le onde quasi volessero arare il mare. Per poi coglierne quei frutti argentei con la coda e le pinne.

    Sarà per un’attrazione fatale per il mare, sarà per la sua infinita curiosità, sarà solo per caso, Andrea divenne amico di uno di questi pescatori, un certo Ciro che, più di una volta, lo portò sulla sua barca e gli insegnò molti segreti della pesca.

    Perché è roba affascinante e amara la pesca: puoi starci per ore sopra quel pezzo di legno in mezzo alle onde e ricevere solo spruzzi e sale dalla vita. Però quando tiri su un tonno, un grosso tonno, qualcosa di divino si impossessa di te e comprendi il segreto dell’attesa, il senso della vita, di tutto quel sale che hai respirato, di quel mare che ti sta davanti e del quale non puoi fare a meno. Perché c’è gente nata per la montagna o per l’entroterra. Ma i Bomboi sono gente da riva. Noi siamo gente dell’isola, diceva il suo babbu. Perché puoi essere anche povero e solo, ma quando hai il mare, hai sempre un fratello maggiore accanto, figlio delle lacrime come te, che ti sfama e ti fa sorridere, ma che non devi mai sfidare quando è arrabbiato: Quando i gabbiani volano nell’entroterra, non si avventura per mare neanche Sant’Andrea protettore dei pescatori gli diceva sua mamma da bambino a La Caletta davanti al mare.

    Il mare. Quando non ci andava per pescare, Andrea ci andava per tuffarsi o per nuotare. Si immergeva più in profondità che poteva. Oppure nuotava contro le onde. Inesauribilmente.

    La baracca di Guido era un po’ distante dal borgo e non c’erano case intorno, tranne la baracca di Vincenzo Forcini che si trovava proprio dentro la tenuta di Poggio del Principe. Forcini era originario di Notaresco, vicino Teramo, e colpiva per la sua lunga barba. Stava lavorando con Piccini e si mise ad imprecare contro Andrea, gridando e agitando la sua barba, quella mattina in cui il ragazzino, di ritorno da uno dei suoi primi viaggi da mercante con Guido, passò correndo in mezzo ai loro campi appena seminati diretto alle pendici di una collina.

    Andrea, allora, per tutta risposta, accelerò la sua corsa in mezzo ai campi, incurante delle grida del contadino, saltando rovi ed ortiche. Arrivò col fiatone alle pendici del Poggio Bellavista. Là si fermò ed iniziò a guardare il mare in lontananza. Poi volse lo sguardo intorno a sé: più in basso si estendeva la tenuta Chiaruccia, proprietà della famiglia Alibrandi, che dal fosso del Marangone si estendeva fino al vicino fosso Ponton del Castrato. Rimase ad osservare in lontananza il trenino che portava l’acqua potabile da Orbetello. Poi volse lo sguardo ad ovest dove si trovavano la torre Chiaruccia e la macchia del promontorio di Capo Linaro.

    Oltre il promontorio e l’orizzonte, la Sardegna era davvero lontana.

    Quindi si sdraiò in mezzo ai campi supino, si mise una mano in tasca e trovò i tre noccioli di albicocco. Allora si girò, si mise con la pancia contro la terra ed iniziò a scavare con il suo temperino. Pensò a suo padre, a sua madre e a suo fratello e piantò i tre semi nella terra. Nella sua nuova terra.

    Un giorno tornerò qui da voi. E spero di trovare un grande albero.

    Ben presto la leggenda del ragazzino che era fuggito dalla Sardegna a dodici anni, si sparse tra la piccola comunità santamarinellese che, nel 1895, era passata dall’essere amministrata dal Comune di Tolfa all’essere amministrata dal Comune di Civitavecchia.

    Ed Andrea si faceva benvolere da tutti: Francesco Fantozzi, il ciociaro, e sua moglie Maria lo consideravano quasi uno dei loro figli.

    Andrea visse per pochi anni con Guido e, approfittando della complicità e dei viaggi del mercante di capre, mantenne una corrispondenza cartacea con le cugine e con gli amici Antonio Melai e Domenico Conteddu. Infatti, Andrea dava le lettere a Guido che, puntualmente, durante i suoi viaggi a Siniscola le consegnava a Domenico che provvedeva a farle pervenire agli altri.

    Vivere a Santa Marinella la sua adolescenza in un’onesta famiglia lo aiutò però solo in parte. Perdere la propria famiglia in una fase così critica della sua vita era stato un vero trauma per Andrea. E, per quanto fosse un bravo ragazzo, Andrea era piuttosto impulsivo e irrequieto e diventava sempre più instabile. Si comportava sempre bene con Guido, sua moglie e i suoi figli, ma sentiva che quella non era la sua famiglia. Sì, quella brava gente si era presa cura di lui e Santa Marinella era davvero la sua vera casa, dopo un tragico passato di disgrazie rimasto su un’isola, però la notte, spesso, alcuni pensieri si impossessavano di lui e si ritrovava a piangere da solo in mezzo al recinto delle capre per non essere visto né sentito da nessuno.

    Perché la notte… la notte è come se le ansie si dilatassero nel tempo e nello spazio, le angosce fossero amplificate, le paure si materializzassero. Come se gli uomini fossero più vulnerabili. E gli incubi si amalgamassero con la realtà, in un dormiveglia spettrale.

    Negli anni a venire, i guadagni di quel lavoro si fecero sempre più scarsi per Guido e, quindi, per Andrea che iniziò a stancarsi di quella vita col bestiame. Così, non appena divenne sedicenne, poiché era piuttosto maturo e temprato, nonostante l’età, decise di cercarsi un nuovo lavoro e di cambiare aria.

    E questo sarebbe divenuto uno dei principali tratti del suo carattere: la difficoltà di restare legato a lungo ad una situazione, la necessità di doversi spostare continuamente alla ricerca di un qualcosa che non conosceva, ma che sentiva di dover cercare, per un dannato stato di tensione interna che lo rendeva sempre irrequieto e instabile. Però proprio Santa Marinella, da cui stava ora fuggendo, sarebbe diventato il luogo in cui sarebbe voluto tornare per sempre. Per tutta la vita.

    Una mattina di marzo del 1898 Andrea si recò a Civitavecchia. Nell’agosto di due anni prima erano iniziati, infatti, i lavori di costruzione di un grande cementificio. Si presentò presso la Società Anonima Fabbrica Calce e Cementi. I dirigenti, due tipi che parlavano con dialetto piemontese, lo accolsero a braccia aperte: avevano bisogno di uomini per il nuovo cantiere.

    Però lo ammonirono:

    "Chi ved, sent e tas, a ten ‘l mùnd ‘n pas!"

    Lui non capì e accettò il lavoro.

    Ne parlò con la famiglia di Guido e loro cercarono di convincerlo a restare. Lui non gli disse dove avesse trovato lavoro. Gli disse solo che voleva andarsene perché suo padre avrebbe voluto un lavoro migliore per lui. Quelli si erano affezionati al ragazzo. Gli volevano bene. Ma non ci fu verso di convincerlo. Andrea raccolse le sue poche cose e partì col temperino sempre in tasca ed il rosario al collo.

    Così iniziò a lavorare a Civitavecchia. E smise di fare il pastore e il mercante. Ormai era un operaio: chissà cosa avrebbe pensato il babbo!

    Lavorava presso uno dei due forni verticali Aalborg. Oltre ai due forni, c’era un impianto di macinazione costituito da due mulini Krupp a pale e da un frantoio.

    Era un lavoro disumano. Vista la poca distanza da casa di Guido, sarebbe anche potuto tornare a dormire là. Ma non voleva e…

    "Ohé! Quindi sei il figlio di tziu Bomboi de Andetti o sei il nipote di Cambimannu?"

    No, sono di quelli de Gagliardu. Mio padre era Giuseppe. Abitavamo vicino alla chiesa della Santissima Vergine delle Grazie…

    "Emmo! Il carabiniere!"

    Al cementificio erano giunti parecchi sardi ed alcuni di loro provenivano proprio da Siniscola e conoscevano la famiglia di Andrea. Gagliardu, infatti, era il soprannome dato a un qualche antenato di Andrea. Infatti, occorre dire che a Siniscola c’erano varie famiglie con gli stessi cognomi e che, per praticità, si utilizzavano i soprannomi per distinguerle. Potevano trovarsi così i Bomboi de Andetti, i Bomboi de Cambimannu, i Bomboi de Cara e’ Baccalu e molti altri.

    Grazie ai siniscolesi trovò alloggio in un appartamento poco distante dal cementificio, nel quartiere sardo. Una dimora sporca e maleodorante. C’erano due stanzoni all’interno. All’angolo di uno dei due c’era un grosso tavolo. Solo uno degli stanzoni aveva una finestra, l’altro era buio anche di giorno. Una lampada ad olio veniva usata per illuminarlo. Andrea dormiva in questo luogo insieme a sei uomini tra cui uno di quelli di Siniscola. Aveva un giaciglio ad un angolo. I siniscolesi si erano stabiliti a Civitavecchia per cercare fortuna sul continente senza allontanarsi troppo dalla loro isola, dall’altra parte del mare.

    Gli diedero una divisa. Era usata, rammendata in maniera sbrigativa e aveva vari buchi all’altezza delle ascelle e al cavallo dei pantaloni.

    Iniziò a lavorare di gran lena sin dai primi giorni.

    Era stanco e affaticato, ma fiero di sé.

    Ma era solo.

    Molto solo.

    Poi conobbe Paolo.

    Fu esattamente otto giorni dopo il suo arrivo, in un mattino di pioggia.

    Andrea era appena stato duramente rimproverato da uno dei titolari perché era arrivato con cinque minuti di ritardo al lavoro. Paolo gli si avvicinò, parlando con accento napoletano:

    "Questi idioti credono che noi esseri umani siamo macchine. Esseri senza cervello fatti per lavorare. Numeri. Pezzi sostituibili. Ma noi non molleremo. Capito, guagliò? Sai leggere e scrivere?"

    Sì.

    Come ti chiami?

    Andrea.

    "Non ti far piegare mai da nessun essere umano, Andrea! Ricorda che, nonostante in questo paese ridicolo esista un re e alcuni si ritengano superiori agli altri, noi socialisti sappiamo che tutti gli uomini sono uguali! E non credere alla balla di chi ti racconta che alcuni sono nati con più sfortuna di altri: troppo spesso i potenti usano il termine sfortuna al posto del termine ingiustizia!"

    Paolo. Un maestro che faceva l’operaio. Paolo, un folle sognatore che, alla fine, lavorava più di tutti! Paolo, un maestro di cultura socialista. Gli altri lo chiamavano Paolo Er Matto. Era un uomo sui quarant’anni con i capelli neri e la barba folta. Portava sempre un cappello nero in testa. Dormiva anche lui nello stesso appartamento di Andrea, ma stava nell’altro stanzone. Gli altri operai non parlavano molto con lui. Dicevano soltanto che fosse matto.

    Paolo Esposito era nato a Napoli. Aveva frequentato il Liceo Classico. Era stato un ottimo studente. Poi, quando aveva circa diciotto anni, suo padre era morto. La sua famiglia era allora caduta in disgrazia e così si era imbarcato. Marsiglia, Barcellona, Tunisi, Genova. Navi mercantili, navi per passeggeri. Faceva il mozzo. Un giorno a bordo aveva conosciuto un tizio: gli aveva aperto gli occhi sul mondo. Diceva Paolo che era stato quello a mettergli in testa l’idea degli esseri umani macchine. Lui li chiamava proletari. Gli aveva parlato della rivoluzione. Gli aveva detto di venirlo a trovare a Roma. Quel

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