Emma o il flusso dell'in-coscienza
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Anteprima del libro
Emma o il flusso dell'in-coscienza - Franca Bienati
EMMA O IL FLUSSO
DELL’IN-COSCIENZA
I
Emma raccolse disordinatamente i suoi appunti distogliendo lo sguardo da quello, insistente, del prof. Gaudo. E dopo un rapido sussurrato Grazie professore, grazie della sua disponibilità, si allontanò frettolosamente dall'aula chiamando ad alta voce l’amica: Paola, arrivo! Mentre percorreva il corridoio ripensò infastidita alle sue ultime parole.
Signorina Emma – l’apostrofava così ignorando il fatto che fosse sposata - per la tesina di metà anno dovrà preparare la simulazione di un caso clinico: colloquio orientativo, valutazione della terapia da effettuare, analisi o ciclo di sedute di psicoterapia generale e, ovviamente, guarigione del paziente. Aveva parlato col suo solito tono pedante un po' nasale e poi, sospirando, sottintendendo poverina non ce la farai mai da sola, l’aveva guardata con insistenza con quei suoi occhi slavati ed acquosi, dopo essersi accuratamente tolto gli occhiali tondi, se ha bisogno di una mano, di un approfondimento… io sono qua, a sua disposizione.
Paola se n’era già andata per fortuna. L’incontro con l’assistente l’aveva messa di malumore e resa vulnerabile. Non era più tanto sicura di riuscire a farcela da sola.
Scese lo scalone di marmo e, passato l’imponente portone di mogano dai pomelli di ottone tirati a lucido, si ritrovò fuori, in corso Galileo Ferraris.
Quando usciva dal Centro di Formazione Superiore di Psicologia e Psicoterapia, erano i suoi piedi a decidere autonomamente il percorso da fare per raggiungere la metropolitana o dirigersi direttamente alle stazioni di Porta Nuova o Porta Susa.
A volte si incamminava verso largo Vittorio Emanuele II dove non mancava mai di guardare all’insù la statua del primo re d’Italia. Era lì dalla fine dell'800. Il fiero sovrano, a capo scoperto, i piedi poggiati su un drappo sfrangiato sorretto da quattro colonne, non badava all’altrettanto impettito e tronfio piccione piazzato sulla sua testa che, incurante del traffico cittadino, era pronto ad alzarsi in volo per andare a sfamarsi con qualche briciola tra le foglie che si sollevavano leggere ai lati del corso al passaggio delle auto.
Attraversato il corso Galileo Ferraris, si fermava all’angolo a guardare le vetrine della Galleria d’Arte Pirra che in quel periodo esponeva dei quadri di pittori russi postimpressionisti e si perdeva ad osservare i paesaggi innevati, illuminati da un velato sole invernale. Sotto i portici di Corso Vittorio Emanuele, passava davanti ai barboni accovacciati alla destra del marciapiede e si abbassava pietosamente per posare una moneta nel piattino. Barboni giovani e vecchi, con e senza cani, alcuni sorridenti di riconoscenza, altri nascosti sotto un cartone di cui si poteva a stento riconoscere la sagoma. Sul lato sinistro si susseguivano i bei palazzi che lasciavano intravedere, attraverso i cancelli di ferro battuto, i cortili e i giardini curati. Tra un androne e l'altro, si affacciavano i negozi scintillanti, così fino alla Stazione di Porta Nuova.
Quel giorno, senza attraversare il corso, dopo un centinaio di metri, si infilò nella stretta via San Quintino che la portava dritta a Porta Susa. Nessuna distrazione in quella strada. Solo la Gelateria Siculo dove talvolta si fermava con Paola per gustare, a suo dire, la migliore granita di Torino.
Pensava ossessivamente a quella tesi. No, non sarebbe stata in grado di affrontare quella prova. Aveva sopravvalutato le sue capacità e di conseguenza sottovalutato la difficoltà di quel corso che aveva voluto a tutti i costi frequentare. Ma chi te lo fa fare, le aveva detto Luigi, pronto a scoraggiarla per ogni novità che volesse apportare nella sua vita. Mi tarpi sempre le ali, replicava risentita al marito. Era già stufa di quell’impiego al consultorio che si era trovata meno di un anno prima, dopo il trasferimento da Milano ad Aosta. Adesso però cominciava seriamente a pensare che lui avesse ragione.
La chiesa di Sant'Antonio da Padova con i due leoni di guardia ai lati, quasi al fondo della via, la distolse dai suoi cupi pensieri. Sarebbe voluta entrare, ma il portone era chiuso.
Sant’Antonio dalla barba bianca, fammi trovar quel che mi manca
. Le affiorò alla mente la litania infantile che da bambina ripeteva quando le capitava di perdere qualcosa.
Di fianco alla imponente facciata neogotica della chiesa, c'era un ingresso aperto che non osò però varcare. Da lì si accedeva al chiostro del convento francescano e alla mensa per i poveri.
Era quasi arrivata in vista della Stazione. Sulla destra all'angolo, prima di attraversare la strada, si infilò nel Bar Bolzano. Aveva tempo di mangiare un boccone. Ci era già stata altre volte in quella trattoria alla buona, frequentata abitualmente dagli impiegati del vicino Tribunale. Il proprietario, un gioviale anziano signore dall’accento veneto si affaccendava saltellando da una parte all’altra del bancone dove erano esposti i piatti del giorno e con galanteria le domandava: Che cosa desidera bella signora?
Attraversò poi la via Bolzano e si avviò tranquilla ai treni.
Ne avrebbe parlato ancora a casa con Luigi, lui l’avrebbe sicuramente incoraggiata a prendere la decisione di abbandonare gli studi.
Scese le scale che portavano al binario 2 e si fermò alla macchinetta per vidimare il biglietto. Quella semplice operazione le dava sempre una piacevole sensazione di sollievo: anche questa volta non se n’era dimenticata.
II
Il treno arrivò con qualche minuto di ritardo. Il vagone sul quale salì era quasi vuoto, si sedette a metà convoglio, allungò comodamente le gambe di traverso, appoggiò la grossa borsa con gli appunti sul sedile accanto e chiuse gli occhi. Una voce giovane la riscosse subito dalle sue elucubrazioni.
Va ad Ivrea questo treno?
Senza avere il tempo di dirgli di sì, un signore distinto, magro e alto in giacca e cravatta, che stava entrando nello scompartimento, rispose al suo posto.
Sì, almeno spero, la speranza è l’ultima a morire, disse divertito rivolgendosi ai pochissimi passeggeri presenti: il ragazzo, un signore che non aveva alzato la testa dal PC e lei, che gli sorrise gentilmente. Allora il signore le si avvicinò tossicchiando e, in piedi, continuò a guardarla amabilmente. Se si vuole accomodare qui… Le sembrava scortese non invitarlo a sedersi. Aveva evidentemente voglia di far passare l'ora che impiegava il treno per arrivare fino ad Ivrea, pensò, subito pentita dell’invito perché in realtà detestava quelle conversazioni con perfetti sconosciuti di cui non le importava nulla e che non avrebbe più rivisto un'altra volta. Proprio come nell'anticamera del dottore, pensò. E poi con l'umore che si ritrovava…
Nel ringraziarla, lo sconosciuto si mise a tirare la tendina. Mi scusi, ma con questo sole non la vedo in faccia. Oh! Adesso sono io che non la vedo - disse Emma. Sistemò allora entrambe le tendine e si sedette davanti a lei.
Era un anziano settantenne esuberante, così si era autodefinito. Poi Emma si era distratta. Forse aveva già attivato la disattivazione selettiva
che permette la concentrazione solo sulla dimensione affettiva, come aveva imparato al corso? Forse non c’entrava niente, no, più semplicemente la disattenzione avveniva sempre tutte le volte che si parlava di numeri. Sentì ad un certo punto che il signore sconosciuto insisteva che lei lo seguisse nella spiegazione, anzi lezione, sul significato di bit, byte e della lunghezza dei messaggi che non poteva superare i 140 caratteri, cioè byte.
Un ingegnere, pensò, e dal modo puntuale con cui si esprimeva e con il desiderio che capisse questo concetto assai semplice per uno che fosse stato un po' più concentrato, Emma concluse che si doveva trattare di un docente universitario del Politecnico.
Si scusò per non essere stata molto attenta, ma aveva una vera idiosincrasia per i numeri, al contrario di suo marito, ingegnere, che invece aveva una grande passione per la matematica e non sopportava di vederla contare sulle punte delle dita. Ora aveva iniziato lo studio della relatività generale che assorbiva quasi completamente il suo tempo libero.
Durante le brevi passeggiate che facevano vicino a casa per portare fuori Lilly, la loro cagnolina, si sforzava di spiegarle come la materia dicesse allo spazio-tempo come curvarsi e come lo spazio-tempo dicesse alla materia come muoversi. E a lei bastava vedere un riccio di castagna per terra, caduto prematuramente dall’albero, o udire il fruscio di un animale nel sottobosco, per distrarsi.
A quel punto il distinto signore, che non l'aveva interrotta, ma anzi l'aveva seguita e scrutata curioso come un entomologo studia attento un insetto dentro una boccia di vetro, alzò gli occhi sorridendo e con un moto impercettibile di fastidio esclamò: ah, gli ingegneri!
Ricorda l’affresco della Scuola di Atene di Raffaello? Sì, ricordava di averlo ammirato ai Musei Vaticani, rispose titubante, non sicura al cento per cento di averlo visto lì. Il signore fece un cenno di sì col capo. Sì sì, ma non ricordo i dettagli. Bene, fece lui in tono divertito, in questo capolavoro sono raffigurati i vari filosofi che, il capo eretto e lo guardo ispirato, conversano amabilmente fra loro. In un angolo in basso a destra Raffaello dipinge Euclide intento a disegnare una figura geometrica su di una tavoletta posata per