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Sound of salame
Sound of salame
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E-book151 pagine2 ore

Sound of salame

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Info su questo ebook

Il protagonista di Sound of salame non ha un nome, vive nella periferia di Ferrara e si bea all'idea che presto diventerà una pop star. Per questo alterna momenti di vera esaltazione compositiva ad altri in cui allestisce autentici processi alle azioni di chiunque gli stia vicino. Tremendamente radical chic, ancorato alla propria bettola prediletta, circondato spesso da ubriaconi e uomini che pare si siano arresi alla quotidianità, l'attesa di una risposta dalle case discografiche lo sfibra e manda in bestia, cosa che comunque non gli porta altro che una sfilza di "le faremo sapere". Inutile, la sua esistenza sembra avvitarsi sempre più in una sorta d'illusione che si nutre di speranze, di momenti di ironia spesso non voluta, di birre e bianchini trangugiati senza sosta al bar. Finché, un giorno, ecco apparire all'orizzonte Margherita, la bibliotecaria. Sarà capace, l'aspirante pop star, di costruire, almeno con lei, una prospettiva che non si riduca a una semplice battuta?
LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2020
ISBN9788868512668
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    Anteprima del libro

    Sound of salame - Mattia Bortesi

    PRIMA PARTE

    Augusto, Tiberio, Caligola…

    C’era un brulicame di volti assenti, disperati. Una fila interminabile di omini, mal vestiti dalle loro signore.

    Con loro niente da spartire.

    Non mi conoscevano.

    Ero alle poste di Porotto per l’ennesima multa: eccesso di velocità.

    Le multe, se vengono pagate entro pochi giorni, costano leggermente meno. In realtà io darei anche il doppio se questo volesse dire non andare in posta.

    Un metodo alternativo ci sarebbe, suppongo, ma io sono terribilmente pigro.

    D’altro canto, allora credevo, anzi ero sicuro, di conoscere già moltissime cose. Diciamo che conoscevo cose a sufficienza.

    Fatto sta che lì, in mezzo a tutti quei bipedi rassegnati, mi è venuta una terribile voglia di urlare tutti i nomi degli imperatori romani. Proprio tutti.

    Ogni tanto mi capitava.

    Non ne ho saltato nemmeno uno e poi, mentre urlavo i nomi dei meno conosciuti, l’ho fatto con più foga, come per compiacere un professore di storia romana che ovviamente non si trovava in quella fila di perdenti. Azzardo a dire che nessuno lì, all’infuori di me, aveva mai visto un professore di storia romana.

    Sbigottiti, hanno atteso che terminassi e hanno continuato a guardarmi. Ho incrociato lo sguardo incredulo di un uomo molto sudato, forse costretto dalla moglie a indossare un maglioncino di lana, e gli ho chiesto se mi ero scordato di qualcuno. Non mi ha risposto e ha distolto lo sguardo. Perlomeno ero sicuro che nessuno in quelle ore mi avrebbe rivolto la ben che minima parola.

    Nel giro di una mezzoretta sono riuscito a varcare la soglia e a entrare nello stabile.

    Le poste di Porotto sono uno schifo, minuscole e piene di gente, le classiche poste di periferia: zeppe di vecchi in attesa di riscuotere la pensione, serviti soltanto da due operatrici, sempre più consapevoli del fatto che loro, la pensione, non la vedranno mai.

    Nelle poste di Porotto, per terra, c’è ancora quel tipo di pavimento gommoso, grigio chiaro, con le decorazioni circolari e le linee giallissime che lo fanno apparire un parcheggio per disabili. Le linee, in realtà, sono la cosa più utile in questo luogo: i numerosi mammiferi presenti, tra una chiacchiera e uno sbadiglio, fanno spesso fatica a collegare le gambe al culo e al cervello, finendo quindi con l’urtarsi caoticamente. E poi, nel mio caso, un minimo di privacy non guastava. Mai avrei voluto che si spargesse una voce del tipo: Futura pop star del paese tutto il giorno a sfrecciare in macchina, collezionando multe.

    Il tempo scorreva e solo due tappini nelle orecchie mi salvavano dall’ascoltare tutte le ciarlatanerie che provenivano da donnoni in sottana e ventaglio o da vecchi ancora muniti di cappello invernale.

    Per fortuna, dopo un’altra mezzoretta, è arrivato il mio turno. Avevo perso oramai la sensibilità nelle mani ed ero quasi anestetizzato ma, tornando in me, ho riattivato immediatamente l’udito. Non proprio così immediatamente: l’impiegata forse era già alla terza frase, ma di sicuro non mi ero perso nessuna lungimirante opinione sui nostri tempi.

    Eccola lì, dall’alto del suo gradino di 30 centimetri di differenza rispetto al mio, dietro un vetro appannato, probabilmente mai pulito, alle prese con un lavoro che non la soddisfaceva ma che forse la rappresentava. Giunonica donna, matrona abissale, coloratissima e carnevalesca rappresentazione di quelle statuine della fertilità che i libri di scuola allegano sempre alle prime pagine della preistoria.

    Eccola lì, ad aggravare ulteriormente la mia pena e la mia agonia.

    Le ho detto, senza troppi convenevoli, della dannata multa da pagare.

    Avrebbe dovuto riconoscermi, oramai, ma non me lo ha fatto capire e, proprio in quell’istante, per l’ennesima volta, mi sono ricordato del modulo verde da compilare, quello nello scaffale a lato dell’ingresso. Quante volte avrei dovuto ripetere quel fottuto errore? La colpa era mia, ma non potevo non odiare lei, il sistema burocratichese delle poste e quel suo rossetto fuori luogo.

    Non le ho rivolto la parola, mi sono girato e sono tornato indietro, ripetendo a bassa voce: «Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone…»

    Poco dopo sono riuscito a inserirmi nella fila, favorito da un anonimo cinquantenne che aveva seguito la vicenda o che, più semplicemente, amava la storia imperiale, o forse ancora aveva captato nei miei occhi lo sguardo della tigre, lo sguardo della futura pop star.

    Anche da lontano riuscivo a scorgere quel pachiderma di impiegata. L’ho studiata. Faceva di tutto per far male il suo lavoro. Sbuffava quando doveva alzarsi per fare una fotocopia, parlava male e lentamente, masticava il chewing gum e non scandiva per niente le parole, pur capendo di avere spesso di fronte utenti alloglotti. Ma, peggio di ogni cosa, con alcune signore intraprendeva inascoltabili conversazioni personali, cose dell’altro mondo che io sentivo distintamente, perché, per la rabbia, non trovavo più i miei stramaledetti tappini gialli.

    Una signora sulla cinquantina si stava lamentando con lei del caldo e, per portare ulteriori dettagli all’argomento già di per sé squallido, le era sembrato utile informare i presenti che si trovava da diversi anni in menopausa.

    «Guardi signora non ci interessa minimamente, ma nemmeno a suo marito interesserà più», mi sono limitato a dire a bassa voce.

    Sarei voluto esplodere con una tremenda invettiva petulante, come già avevo fatto in altre occasioni, ma è arrivata per la prima volta nella mia testa, in quell’indicibile mattinata, una epifanica ironia. Ho notato come le chiacchiere dei due premi Nobel davanti a me fossero intervallate dai sofferenti rumori della sedia da scrivania che sosteneva la mastodontica operatrice. Gnic gnic gnic. Gnic gnic gnic. Gnic gnic gnic.

    «Povere molle e povere rotelle», ho bisbigliato e la cosa mi ha fatto incredibilmente ridere: sono scoppiato in una fragorosa risata. E poco mi importava che qualcuno la pensasse riferita alla menopausa della signora. Quella donna non mi avrebbe attratto sessualmente neanche nel fiore dei suoi anni.

    Ridevo perché, nella mia testa, era oramai iniziata una storiella i cui personaggi erano le sofferenti rotelline della sedia da scrivania, che ogni giorno si lamentavano e maledicevano il culone capace di impennare continuamente, al piano di sopra, la scala Richter del loro mondo. Erano rotelline probabilmente svedesi e, quindi, nell’ottica fredda ma avanguardistica di chi viene dal Nord Europa, non risparmiavano nessun genere di commento, neppure il più infido.

    Ho finito di ridere solo quando è stato nuovamente il mio turno.

    Questa volta avevo i moduli compilati e tutto era in ordine. Tutto, tranne la signora arenata di fronte a me, intenta oramai a sudare cospicuamente. L’utente che se ne era appena andato, d’altronde, aveva necessitato di ben due fotocopie, ben due giri, ben due terremoti per le povere rotelline svedesi.

    Ho firmato ogni cosa possibile e stavo già per andarmene quando l’immensa icona della fertilità mi ha fermato. Altolà. C’era da aspettare la ricevuta, indispensabile foglietto che un aggeggio, tipo una stampante, avrebbe dovuto dare alla luce. Avrebbe dovuto, ma proprio in quel momento sembrava avesse smesso di funzionare correttamente.

    Una classica storia che avrei voluto tramutare in un thriller. Invece ho scelto la mia vecchia strategia e ho iniziato a riempire quel vuoto con critiche arzigogolate e stralunate sull’inettitudine del servizio e degli operatori che fedelmente lo rappresentano. Ho partorito voli pindarici sull’inadeguatezza del luogo e sulla pelata del direttore, sulla cattiva disposizione dei moduli e sull’eccessiva brevità degli orari di apertura. Credo di essere arrivato a criticare persino il cravattino del signore dietro di me, definendolo, con tono imperioso, sempliciotto.

    «Ora ricordo chi è lei», mi ha detto, «è quello strano che si lamenta sempre.»

    «Guardi che qui, carissima, le uniche a lamentarsi seriamente sono le rotelle della sua sedia», e me ne sono uscito senza alcuna ricevuta urlando i nomi degli imperatori, ma questa volta al contrario: «Romolo Augustolo…»

    La metamorfosi

    D’altronde per me la macchina era vitale, per me e per la mia pigrizia.

    Mi serviva tutti i giorni: dovevo recarmi al centro scommesse, che si trova nella periferia di Ferrara, una squallida sala bingo disposta su tre piani. Presumibilmente con piacere, negli anni ha visto crescere a dismisura il numero degli scommettitori della comunità. Tra questi allora c’ero anch’io: il bingo rappresentava una tappa fissa all’interno della mia routine, un demone con il quale non riuscivo a non prendere un caffè almeno una volta al giorno. Eppure, all’interno di quel luogo c’erano tutti gli elementi che solitamente aborrivo e dai quali giravo alla larga perché mi mandavano in bestia.

    E poi c’era lui, il mio acerrimo nemico: Michelone, detto anche il Sandalo. Un omone alto, curvo e triste, ben noto nell’ambiente: lo si poteva trovare lì in qualsiasi orario del giorno. Sandalo scommetteva su tutto, sul campionato di basket, sul campionato di hockey, sulla Spal, sul campionato indiano, sulla corsa dei tori di Pamplona, sul vincitore de L’Isola dei Famosi.

    Il brutto era che quel bifolco, quando scommetteva, lo faceva con una voce assai poderosa, sbraitando un mantra a decibel altissimi, come per far sapere al mondo a quali livelli si prodigava la sua tuttologia. Ma io lo sapevo che lui, sotto sotto, era soprattutto un coglione. Lo era anche senza menzionare quei suoi stupidi, maleodoranti sandali in cuoio e quel codino canuto, composto solamente dai capelli che gli restavano sulla coppa. Proprio così: ne aveva pochissimi, ma li aveva lasciati crescere tanto da poterli legare in un’inguardabile coda. Da anni. Questi, però, non erano i suoi problemi più gravi.

    Al contrario, il nostro problema più grave, e con nostro intendo mio e di tutti gli altri clienti, era un altro: non solo Michelone esisteva e passava lì la maggior parte delle sue ore, ma lui vinceva, vinceva numerose scommesse tutti i giorni.

    Molti andavano in bestia e lo maledicevano quando, tutto elettrizzato, si recava a riscuotere la vincita della scommessa fatta sul torneo di golf o su di un gran premio motociclistico sconosciuto. Con le scommesse lui riusciva a camparci e io lo odiavo doppiamente, poiché anch’io mi ritenevo una brillante mente scommettitrice e, vincendo spesso, mi sentivo in competizione con lui.

    La cosa più incredibile era che, prima di addormentarmi, a volte pensavo a quell’essere viscido, a come doveva trascorrere la sua notte e più in generale la sua vita.

    Mi rincuorava, in qualche modo, immaginare che se la passasse piuttosto di merda e godevo di questa mia supposizione, anzi più di una volta, a questo pensiero, mi sono ritrovato a sfregarmi le mani, sotto le lenzuola.

    Una notte sono arrivato persino a sognarlo.

    Era dentro al bingo e mi aspettava, sempre con le sue calzature da frate, ma con capelli molto più folti del solito. Anche la sua voce era più dolce, quasi femminile.

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