Pelle di Seta
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Anteprima del libro
Pelle di Seta - Marco Ambrosi
PELLE DI SETA
di Marco Ambrosi
PREFAZIONE
I capitoli di Pelle di Seta
, delizioso romanzo d’esordio dell’autore, scorrono come pellicole di un film, di quelli che non danno la possibilità a chi guarda di essere distratti da qualsiasi altro tipo di pensiero, catturando l’attenzione e rimanendo col fiato sospeso
fino all’ultima sequenza.
Lo scritto narra le vicende di un ragazzo che, tra mille peripezie, dubbi, domande, diventa uomo; uno spaccato di vita descritto con spontaneità ma anche, a tratti, con ironia e autoanalisi
. Fantasie, gioie, dispiaceri e scelte fanno da sfondo al romanzo mentre, al centro, vi è l’attaccamento ad una vita che, pur con le sue difficoltà e regole, non impedisce al protagonista di osare, rischiare e, quindi, imparare. È, infatti, la spiccata curiosità e il richiamo del rischio e della sfida a disegnare il sentiero del romanzo che, attraverso luoghi, vicissitudini ed eventi, conduce il lettore nei meridiani e paralleli dell’universo adolescenziale, fase tumultuosa della crescita dove si procede tentoni nella disperata ricerca di un equilibrio
che possa in qualche modo dare dei punti di riferimento più solidi. Ed è un passaggio necessario, inevitabile, di sperimentazione, contraddizioni, di messa alla prova, di errori
e scoperta che farà la storia del protagonista il quale si troverà, con la maturità di adulto, a raccontare l’accaduto ripercorrendone le tappe con le emozioni del ragazzo di ieri.
L’amore, o la visione di esso, con la consapevolezza di non poterlo mai racchiudere in schemi o categorie definite, è narrato abilmente dall’autore che riesce a trasferire nel lettore le inquietudini interiori del protagonista. Il costante intreccio di riflessioni, divagazioni e coincidenze
ricamate dalla mente del protagonista, rende il libro decisamente interessante.
Già autore di poesie, con la sensibilità di chi ha dimestichezza nel far parlare i dissidi dell’anima, lo scrittore riesce ad imbastire una brillante storia dai tratti umani che ci accomunano nelle imperfezioni, ma ci rendono autenticamente veri.
Teresa Laterza
I
PIAZZA IV NOVEMBRE
Forse sono cambiato davvero o, magari, ho solo fatto pace con una realtà che non volevo accettare.
«Nat, Nat, le car part!»
Claire non avrebbe voluto distogliere l'attenzione dell'amica dal suo momento magico, forse si sarebbe accontentata di ricordarla così, come la protagonista di una favola. L'evidenza talvolta non viene considerata, ma Natalie era ad un passo dalla svolta, per lei si era aperta una porta sconosciuta, un sogno che solo due mesi prima non avrebbe potuto neppure immaginare.
Una città nuova, l'amore che marciava a passi svelti, la sua tormenta fuori le mura e lei stava lì ferma, senza scavalcarle.
«Nat!», gridò l’amica per l'ultima volta.
Lei mi lasciò le mani e corse in direzione dell'autobus ancora parcheggiato, ma già in moto da qualche minuto, pronto per partire da piazza IV Novembre che si chiamava prima Piazza Grande (la denominarono così perché in quel giorno viene ricordata la vittoria dell’Italia e la fine della Prima Guerra Mondiale) verso la stazione di Fontivegge. Per Natalie era il congedo, il saluto a denti stretti alla felicità improvvisa e inconsueta. In un'altra vita, probabilmente, avrebbe fatto una scelta diversa, ma su questa non c'era riuscita, forse le mancava il coraggio necessario, come, in effetti, mancava a me. Il torpedone di colore celeste a righe bianche e blu era pronto per la partenza. L'autista Mario Crispolti detto l'aviatore
aveva suonato per l'ultima volta il clacson sfiatato di quel vecchio mezzo post rivoluzione industriale: un modello anni sessanta che consumava la sua vecchiaia nelle piccole corse cittadine.
Un tempo era servito per accompagnare le persone in pellegrinaggio ai santuari regionali, poi, l'amministrazione locale dei trasporti non lo aveva più considerato idoneo ed era stato sostituito con un mezzo più confortevole, ma il vecchio Fiat era ancora vivo, solo che quel pomeriggio del ventidue maggio 1984, trasportava quarantacinque ragazze francesi verso la stazione delle Ferrovie di Stato per prendere il treno regionale diretto a Firenze. Erano tutte felici e cantavano a squarciagola, ma una di loro stava in silenzio, aveva la morte dentro.
Rimasi assorto e taciturno fino a sera, passeggiando intorno alla Fontana Maggiore. Ogni tanto andavo a sedermi sulle scalette di Palazzo dei Priori che portano alla Sala dei Notari; da lì sopra vedevo tutta la piazza e la mia mente si sdraiava, percorrendo a ritroso tutti i giorni che mi avevano visto protagonista di una delle più belle e seducenti storie della mia vita.
Erano le diciotto e trenta quando Giulio venne a prendermi. Con altri amici aveva fatto la solita vasca
in centro: le chiamavamo così le nostre passeggiate per rimorchiare.
«Allora vieni?», disse sorridente, mentre nascondeva come sempre un velo di sarcasmo nel suo dire; sembrava quasi che si aspettasse la battuta di risposta, per poi riderci sopra, senza tenere conto dello stato in cui versavo talvolta.
«Arrivo!», risposi.
Non avevo voglia di ridere, né di parlare. Giulio se ne rese conto e non disse nulla. A pochi metri dalla piazza, in via Ulisse Rocchi, la pizzeria Etrusca aveva appena sfornato delle gustose margherite. Prendemmo due tranci e una birra, poi, seduti sulle scalette del portone di palazzo Ansidei di Montmartre, accendemmo una sigaretta. Era tardi. Non avevo voglia di rientrare a casa. Giulio smise di scherzare e parlammo un po’.
«Sai, mi sono molto affezionato a Natalie. Mi manca tanto e sono passate appena due ore.»
Giulio, che non perdeva mai il sorriso, quella volta era serio. Mi chiese cosa avessi fatto con lei per sentirmi in questo modo.
«Abbiamo parlato, mangiato insieme, poi abbiamo giocato, riso e...»
Prima che finissi la frase, mi chiese: «Avete scopato?»
Il suo era il tono innocente dell'ignoranza, quando da ragazzi non si capisce cosa sia l'amore, ma per giusta causa si chiama scopare. Mi aveva, quindi, semplicemente chiesto se avevamo fatto l'amore. In effetti, era la prima volta che lo facevo; fino allora avevo solo scopato.
«Sì! Che diamine!», risposi quasi come se la domanda fosse scontata. «Certo che sì, tutti i giorni che siamo usciti insieme!»
«Accidenti che culo!»
Lui era molto diretto, esternava senza preavviso, quindi si lasciò scappare il commento colorito tra gli occhi sbalorditi dei passanti, nell'ora che anticipava la cena.
«Com’è stato?», chiese Giulio, ormai curioso più dei dettagli che dei sentimenti.
«È stata una cosa diversa.»
Non riuscivo a dire altro. Non che non sapessi come fosse una donna vera, ma ci tenevo a fargli capire che non era una ragazzina, insomma, come quelle che frequentavamo io e lui. In me era cambiato qualcosa, parlavo al passato e tutto lì intorno mi sembrava luce fioca. Del resto a diciannove anni le ragazze erano poco più che adolescenti con la morale ancora appiccicata come una seconda pelle.
Mi resi conto che il modo di relazionarsi di Nat era, invece, completamente diverso. Lei non mi aveva mai resistito, quando con un pizzico di audacia l'avevo sfiorata sopra i jeans. Lei, con un sorriso malizioso, aveva capito, anticipandomi.
«Giulio...», chiesi ad un certo punto, «tu lo hai mai fatto senza?».
«Cosa?» rispose diretto, ma con il sorriso di chi vuol sentire il seguito della domanda.
«Dai che hai capito. Non fare lo scemo!»
C'era sempre questo modo di scherzare con lui. Giocavamo un po’ ai doppi sensi e rispondevamo il contrario di quello che invece era la risposta giusta, ad esempio quando indicavamo le strade a qualche passante che ci chiedeva dove fosse Piazza Ansidei, e noi lo indirizzavamo in Piazza Italia, dal lato opposto della città.
«Credo di no, anzi no!», rispose convinto.
«Ecco, se vuoi saperlo, lo abbiamo sempre fatto senza!»
Giulio, goloso come una donna al settimo mese di gravidanza, mi prese sotto il braccio destro e ci incamminammo giù per le scalette in Via dell'Acquedotto, che portano alla Conca, dove era parcheggiata la 128 bianca di suo padre. Rientrai a casa alle venti e trenta. La mamma era preoccupata per l'orario insolito. Mio padre appena rincasato era sotto la doccia e la minestra si stava raffreddando, anzi era già fredda, ma era il mio cuore il piatto più gelido della cena.
L'indomani a scuola i compagni già sapevano tutto. La sera precedente non ero uscito per il solito pokerino al circolo ma Giulio aveva informato gli amici comuni che, a loro volta, avevano informato le amiche comuni.
Qualcuno mi guardava, ma solo i più curiosi cercarono di iniziare il discorso, con le frasi più banali, del tipo: «Sei stato un grande!», oppure «Come sono le