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E-book194 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Il commissario Ottavio Ponzetti, già protagonista de I gatti lo sapranno, torna a parlare di sé e dell’universo che lo circonda grazie a un nuovo, appassionante caso. Trasferitosi dall’Esquilino ai Parioli, diviso tra la nostalgia per il vecchio quartiere e la frenesia di quello nuovo, in questo secondo episodio che lo vede protagonista si ritroverà alle prese con la misteriosa scomparsa di un professore di liceo.

Nel clima successivo alle elezioni politiche del 2008, la sparizione di un uomo dipinto da tutti come tranquillo, all’antica, solo un po’ misantropo, finirà addirittura in tv e il trambusto creato da una trasmissione come Chi l’ha visto? scatenerà un putiferio nelle famiglie bene della scuola Mameli, teatro del dramma nonché ritrovo per eccellenza della gioventù pariolina.

Tre donne: la vicepreside, una giovanissima studentessa dal nome altisonante di Ginevra e la madre di quest’ultima sono solo alcuni dei personaggi che affollano la scena di questo intrigo e che si alternano a quelli già cari al lettore come, ad esempio, i componenti la famiglia del commissario e l’ex collega Iannotta. Si dispiega qui, ancora una volta, la notevole fantasia dell’autore che, alla seconda prova narrativa, dimostra una grande perizia nel far rivivere i suoi personaggi, e una vera e propria vocazione a creare piccoli enigmi legati alla cronaca cittadina.
LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2010
ISBN9788864113593
Ci saranno altre voci
Autore

Giovanni Ricciardi

Giovanni Ricciardi è professore di greco e latino in un liceo di Roma. Il silenzio degli occhi è la terza indagine del commissario Ottavio Ponzetti, il personaggio creato da Ricciardi, già protagonista de I gatti lo sapranno (2008) e Ci saranno altre voci (2009), anch’essi pubblicati da Fazi.

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    Anteprima del libro

    Ci saranno altre voci - Giovanni Ricciardi

    PARTE PRIMA

    Le voci di dentro

    O God, I could be bounded in a nutshell

    and count myself a king of infinite space,

    were it not that I have bad dreams.

    O Dio, potrei venir chiuso in un guscio di noce

    e considerarmi re dello spazio infinito,

    se non fosse che faccio brutti sogni.

    Amleto (Atto II, Scena II)

    1

    «Commissario Ponzetti, venga, l’aspettavo. Era per consegnarle questa. Dopo quindici anni di onorato servizio all’Esquilino, è tempo che si prenda un po’ di soddisfazioni».

    «Cos’è, signor questore?».

    «La sua lettera di trasferimento! Immagino che sarà curioso di sapere quale zona le è stata affidata. L’abbiamo trattata come si merita. No, no, non l’apra qui, davanti a me, è giusto che si goda il suo momento. E comunque…complimenti».

    Fregatura in vista, fu il mio primo pensiero, ma lo pensai dopo essere uscito dalla stanza, per timore che capisse. Del resto il questore dimenticava che io non avevo proprio chiesto nulla, e fino a quel momento stavo benissimo dove stavo. Poi, spizzando la busta in controluce, vidi quel nome, e chiusi gli occhi.

    Il fedele Iannotta trepidava in sala d’aspetto, teso come un giovane marito che ancora non sa se il parto è andato bene. Al vedere la mia faccia scura da sotto la busta e a sentire quel nome, cercò parole di circostanza: «Dotto’, nun se la prenda. Vorrà dì che io me tengo i bangla e li cinesi e lei entra dritto dritto ner jet set. Nun è mica una tragedia cambià aria. A questo monno cambia tutto».

    «Proprio tutto, Mario?».

    «Mo’ che ce penso bene, una cosa ce sta, ar monno, che nun cambia mai».

    «E qual è?».

    «La Settimana Enigmistica. Centocinque tentativi d’imitazione nun l’hanno sfiorata de pezza. Er giorno der giudizzio universale ce starà ancora quarcuno che sta a risolve er Quesito colla Susi».

    A casa non capirono il mio disappunto. Vai ai Parioli, Ottavio, mica a Torre Gaia, ripetevano in coro le tre donne della mia vita. E così, pian piano, mi ci sono abituato. È che Parioli non è solo il quartiere della Roma bene: è un mondo a sé, con le sue regole e i suoi riti, e quel mondo, fino a tre anni fa, per me era terra incognita. Hic sunt leones, leoni altolocati, ingentiliti, ma pur sempre leoni. Ancora oggi, tutte le volte che prendo via Piemonte ed esco dal recinto delle Mura, mi coglie un misterioso senso di soggezione. «Nun è un mistero», è il commento di Iannotta. «È che quella nun è propio Roma, dotto’. È ’na cosa apparte, è un destino, come nasce laziali senza che te ne sei accorto pe’ davero. Te sveji ner quartiere sbajato, ner condominio de un altro, così, tutt’an tratto…e t’accorgi che la vita è propio amara. C’hai un sacco de sordi, pe’ carità. Però sei condannato a quer colore da lavatrice spenta prima».

    Iannotta, nonostante le apparenze, ultimamente si è affinato. Rimanere «da solo», come dice lui, all’Esquilino, un po’ gli pesa, anche se con me non si sbottona, per non darmi soddisfazione. Ma io lo so che soffre. Il nuovo capo, Nino Ricci, non apprezza il suo modo di lavorare, così teatralmente svaccato. Certo che anche lui, passata l’età sinodale dei quaranta, potrebbe vendersi un po’ meglio. Fatto sta che ogni tanto, quando proprio non ce la fa più, mi chiama al telefono e sbotta: «Un cacacazzi, dotto’, che nun ce poteva capità ’na disgrazzia più traggica». E così, proprio nei giorni in cui cominciava la storia che sto per raccontare, don Fabio, in confidenza, mi disse che Mario aveva presentato la sua bella domanda di trasferimento. Ma da allora a oggi è passato un anno, e la sua pratica è ancora ferma lì, immutata, come «La Settimana Enigmistica».

    Quanto alle mie tre donne, sono diventate tre più uno. Dopo l’Erasmus, Gisella è tornata bilingue, fidanzata, non esce più tutte le sere, e così mia moglie Gloria non crede ai suoi occhi e se la coccola. Ma in compenso si è portata a Roma il suo Jorge, che un po’ studia, un po’ lavora, un po’ rompe, visto che ormai viene a cena tutte le sere. La piccola Maria invece ogni tanto mi preoccupa. «È la fase sua, dotto’» dice Iannotta. «Poi vedrà che je passa. Jel’ho detto: passa tutto a questo monno, pure la faccia tragica de Nino Ricci». Sempre che glielo diano, questo benedetto trasferimento.

    Passerà, la nave dell’adolescenza. Così, quando al mattino esco di casa e lei sfugge al mio bacio, cerco di non pensarci e appena sono in macchina accendo la radio. Però a volte mi torna su, quel pensiero, come un pranzo mangiato in fretta, o come quelle canzoni che odiavi dal primo momento, ma per qualche ragione misteriosa si sono annidate in un angolo della memoria, e quando meno te l’aspetti tornano a trovarti e non vanno più via. Una su tutte: Dammi il tuo amore, non chiedermi niente, dimmi che hai bisogno di me. Tu sei sempre mia, anche quando vado via, tu sei l’unica donna per me. Tu-u sei, tu-u sei, tu-u sei l’unica donna per me-e. Quando nella testa parte il disco, mi sento perduto. Non riesco a cacciarlo a forza di volontà, soprattutto il raddoppio della u, che mi fa pensare all’angoscia di quella donna in gabbia, condannata a sentirsi per sempre sua, anche quando lui andava via e lei poteva respirare, ma alla fine non riusciva nemmeno a godersi il sollievo dei momenti in cui lui chiudeva la porta di casa e spariva per un po’. Quattro mandate a rovescio e zac, presa in trappola. Non c’era niente da fare. Restava sempre lì, sospeso a mezz’aria, quell’incubo, con la u piantata proprio in mezzo e stretta fra la t e la s, incapace di muoversi e scivolare via.

    2

    Questo quartiere non sta fermo su Roma. Sembra una zattera ancorata al centro, con una corda lenta, flessuosa, che gli lascia un po’ di gioco e lo fa ondeggiare sull’acqua tranquilla di un molo silenzioso. La corda ogni tanto lascia che la zattera si allunghi lentamente verso una campagna sciatta, annunciata da stradoni vuoti e assolati, incerti se inseguire l’orizzonte della valle del Tevere o i nastri sospesi delle autostrade e dei raccordi dell’Olimpica. Poi la corda s’irrigidisce, resta tesa per un po’, finché non s’allenta di nuovo, e la zattera si riaccosta alla riva. Quando ci arrivi, da Porta Pinciana, d’un tratto gli spazi di cielo si allargano, ti lasci a sinistra i pini di Villa Borghese, e mentre immagini le tigri e le giraffe spaesate allo zoo imbocchi a poco a poco strade sempre più larghe e silenziose, anche nelle ore trafficate.

    I negozi si fanno rari, s’ingentiliscono le insegne, quasi scompaiono, nel timore di essere notate; le vetrine sono piccole, ordinate, mentre i portoni lasciano il posto a cancelli di ferro, i condomini a villette con torretta, i semafori ti aspettano lontani e qualche volta ti regalano il verde proprio mentre stai per frenare. In fondo a via Paisiello attraversi i binari del tram e sei già sul ponte che ti traghetta a bordo della zattera. Pochi metri, ancora pochi, e sei sopra: perché ai Parioli non sei mai dentro, sei sempre sopra. Ci passi, ma non ti fermi, sotto di te la zattera ondeggia lievemente e ti dà la sensazione che stai andando all’altra riva, ma che quello non è un posto per mettere radici.

    Quando prendi una via secondaria cominci a salire lentamente, non incontri incroci né angoli, è tutto un andirivieni di curve dolci e seducenti, che percorro sempre con lo sguardo all’insù. Mi attirano le bandiere, le insegne delle ambasciate più improbabili, Iran, Belgio, Finlandia, El Salvador, i cortili senza voci, le grate di ferro forgiato e le telecamere discrete, fissate ai cornicioni. Mi attira il silenzio di queste vie deserte a ogni ora del giorno. Si sale piano, senza fretta, e poi c’è sempre un momento in cui non sai perché, ma ti ritrovi al punto di partenza. Fine della giostra, accosti, riprendi Tuttocittà e cerchi di capire dove hai sbagliato.

    Le vecchie signore eleganti che si incontrano in questo quartiere non assomigliano alle nostre nonne. Sono state belle un tempo, corteggiate, blandite, giovani principesse che hanno bruciato le tappe, girato il mondo, visitato salotti e feste, per ritrovarsi all’improvviso spose e madri, e poi signore decadenti di case vaste e silenziose, dove sono invecchiate a sorpresa, senza accorgersi che il tempo le aspettava lo stesso, e bussava insistente alle loro porte blindate. Vai ad aprire, cara, fai attendere, arrivo subito. Ma ora sembra che vogliano dire: «Io che c’entro? Siete sicuri che tocchi proprio a me?». E invece un braccio gli si accosta quando scendono le scale, tiene aperta la porta, sguscia dietro di loro e le accompagna al tramonto. Così, da vecchie, incominciano a imparare lingue sconosciute, a confidarsi a compagne venute dall’Est o dall’Asia lontana.

    Nei giorni ordinari, quando il tempo lo permette, trascorrono il mattino passeggiando su questi marciapiedi, a fianco di badanti fedeli e discrete, sorpassate ogni tanto da filippini ombrosi che portano in giro i cani.

    Quando arrivo con la macchina le osservo dal finestrino, con curiosità, mentre studiano un gradino con fare sospettoso e ripensano ai giorni della loro vita vivace, al medico che le rassicura, all’istante sospeso che le attende, alla zattera che sembra ferma e intanto scorre lieve sotto i loro passi.

    3

    I vecchi non rinunciano a votare, anche ai Parioli. Hanno comunque il senso del dovere, anche se poi rimproverano il presidente di seggio perché il Comune non ha ancora sistemato la buca sotto casa loro. Salgono piano le scale della scuola, tirano fuori il documento, chiedono com’è l’affluenza, scambiano qualche parola con gli scrutatori che gli fanno i complimenti perché quegli anni proprio non li dimostrano, s’avviano alla cabina, tornano indietro con la scheda aperta e chiedono se basta una croce. Sì, basta una croce.

    Però poi si ricordano che un nipote gli aveva suggerito una preferenza al Comune, ma non trovano il bigliettino. Allora fanno sfilare il dito sul manifesto elettorale per ritrovare quel nome, nell’imbarazzo dei componenti del seggio, che non sanno mai se il regolamento lo consenta.

    Bisogna andare a votare, per un riflesso pavloviano, o perché in fondo è così che può passare una mattina, con una meta precisa, rigorosamente dopo la messa e prima dell’aperitivo al bar. A me piace guardare questa processione, e la scusa di passare a vedere se i miei agenti fanno bene il servizio di guardia o hanno bisogno di qualcosa mi serve per godermi lo spettacolo del brulichio di queste oziose domeniche di primavera.

    Così era stato anche il 13 aprile del 2008, elezioni anticipatissime e organizzate in fretta. Cinque schede, domenica rischiosa. Camera, Senato, Provincia, Comune, Municipio. Mi ricordavo ancora le file impressionanti del 2001, quando si votò soltanto fino alle 22, tra i presidenti impazziti e la gente che protestava indignata. Stavolta c’era lo sfogo del lunedì, ma non ero tranquillo. Volevo che andasse tutto liscio, girare il quartiere, che ancora non mi corrispondeva, e mi feci portare da un istituto all’altro, preferendo, com’è ovvio, i licei. Dal Lucrezio al Mameli, dall’Azzarita all’ex magistrale di via Livenza, mi sinceravo e intanto mi fermavo a parlare con bidelle e messi comunali, poliziotti e gente comune, rappresentanti di lista e presidenti di seggio, del tempo e dei contrattempi, dei cani parcheggiati fuori a malincuore, delle tessere elettorali smarrite e delle feste di beneficenza a cui le signore volevano invitarmi. Stavo quasi decidendo di tornare a casa in tempo per il pranzo, quando una chiamata mi raggiunse mentre osservavo il cartello di un corso di restauro nell’androne del Mameli, il liceo pariolino per antonomasia.

    4

    Cosa ci fa un coltello insanguinato su un parapetto di via San Valentino alle 13 in punto di una domenica elettorale? Niente. Sta lì, a prendersi il sole e gli sguardi di una signora che torna dal voto. Che dobbiamo fare, commissa’? Niente, prendetelo, con cautela, infagottatelo e acquisitelo agli atti.

    E così, prima di virare verso casa, ripassai in commissariato per dare un’occhiata. Ecco qua: coltello da cucina modello lista di nozze Alessi, manico nero con viti di metallo grigio, una grossa macchia di sangue sulla lama, e nulla più.

    A pranzo c’erano tutti, anche Gisella con Jorge, e Gloria celebrò la domenica col risotto ai funghi porcini e le polpette che piacciono a me. Il tutto, coronato dalla stella di Regoli, la storica pasticceria di via dello Statuto, con fila numerata di un’ora a cui mi immolo solitamente io. Stavolta, dato il contrattempo, il catalano mi aveva degnamente rimpiazzato. Pomeriggio sonnolento, Maria ai suoi compiti, Gisella a sistemare la cucina con Gloria – spettacolo inaudito fino a un anno fa –, il catalano parcheggiato in salotto con me, che in questi casi sono molto silenzioso, poi tutti al Warner per il cinema di primavera.

    All’uscita, piazza Esedra era palpitante di luci, scivoloso come sempre il pavimento del portico, diviso in due dal cinema. Di qua il popolo di

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