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E-book260 pagine3 ore

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Si propone un percorso che tenta di spingersi oltre le secche della maledizione che costringe a quella zona grigia fatta di cupidigia, odio, invidia, violenza, sentimento del nulla, irrisolte pratiche del desiderio.
Una finestra da cui si prova a scorgere il virtuale, erroneamente scambiato con il reale, e riproporre l’inquietante domanda sulla illusorietà di ogni tentativo che non generi un effettivo mutamento.
In definitiva il tentativo di infliggere un colpo allo scandalo dell’uomo virtuale, passando attraverso la stratificazione percettiva che conduce alla riscoperta della consolazione, alla possibilità di percepire nella distinzione e affermare la filosofia come pratica quotidiana e quindi alla considerazione che la filosofia possa essere alterazione percettiva dell’esistenza, fino alla proposta di una “pratica” che non può che essere pratica del desiderio.
Un viaggio che si propone di mostrare nella sua essenza il pericolo in cui si trova l’uomo alla mercé del virtuale, un pericolo di tipo mortale che rappresenta un autentico punto di non ritorno rispetto a ciò che ha rappresentato l’umanità dell’animale uomo.
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2023
ISBN9791222046563
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    Anteprima del libro

    Sguardi - Maurizio Gracceva

    Premessa

    Senz’altro immagini di perfidia ricorrenti. Così sembrerebbe, ma il vero è in altro, in ciò che sta accadendo. Forse abbiamo constatato la presenza di una finestra sul mondo, una finestra non necessariamente reale, forse sufficiente al vivere. L’illusione sull’uomo è stata tenace ed è durata nei secoli. Alcuni parlano di una mutazione in corso, che lascia pensare che Homo sapiens si stia evolvendo in altro da sé, diverso e contrario, nell’ Homo digitalis ; una forma del suo essere non prevista, che ha in modo particolare a che fare con la vecchia storia della perfidia.

    L’uomo ! alcuni si erano illusi, per altro in una modalità curiosa. Determinando la sua natura come tendente al bene, si sono dovuti ricredere davanti all’inesorabile giudizio della storia. Un’illusione tanto più intensa quanto più ci si avvicina al Moderno. Chi tira le fila di questa dinamica che pensa il bene mentre opera il male? Per alcuni il Potere è l’agente invisibile che perpetua l’illusione. Il misterioso Potere con la maiuscola, naturalmente… che veicola e controlla gli istinti d’individui e masse.

    Un tempo - forse in una luminosa giornata primaverile, tra il distratto e il disincantato, qualcuno avrebbe affermato: il potere ha tutto l’interesse a mantenere le masse nell’ignoranza, la religione è il suo oppio; ma lo stesso, davanti alla non nascosta natura umana, si è forse domandato se fosse necessario l’oppio? Se questo farmaco fosse inevitabilmente migliore dell’eventuale rimedio...

    I - LA STRATIFICAZIONE PERCETTIVA

    1.La progettazione di un centro absconditus

    La filosofia nasce adulta. Irrompe nella scena del mondo con una energia conoscitiva prima di allora impensata. Propone una forma mentis nuova e un rimedio al negativo, al caos. Ed è assai probabile che la sua funzione resedante sia la conseguenza di una profonda necessità antropologica, di una risistemazione biologica attraverso un nuovo sapere. Ma l’enigma del suo irrompere nel mondo resta ben celato in una qualche sperduta e irraggiungibile Avalon, perfino per quanto riguarda la sua intuizione originaria. Il paradigma resedante costituisce un passo oltre la religione, di tanto più anziana e, a quanto sembra, longeva. Arduo negare, non senza un constatare malinconico, che tra le due, alla lunga, la religione si è rivelata una combattente più tenace. Entrambe hanno delimitato il territorio che ha reso possibile lo spazio mentale dell’uomo del Quaternario. Entrambe maestre nel sotterfugio, perché del territorio nascondono il Centro, quando affermano che soltanto la sua intellezione conferisce senso alla totalità del territorio. L’abilità linguistica ha reso particolarmente ardua la caccia al tesoro architettata da queste due sofiste.

    Ora, ammesso che il Centro esista realmente o sia soltanto un’invenzione ad hoc , non c’è dubbio che il sentiero intrapreso per l’auscultazione del territorio verrà (ma lo è ancora?) condizionato dall’individuazione futura di questa meta. Inoltre, se si ragiona in termini di territorio e di relativo centro, ne consegue che l’ambito altro dal territorio (per alcuni il nulla: sì, proprio l’autocontraddittorio nulla!) sia definito come impercorribile nonché inesistente. Curioso capovolgimento prospettico!

    Cosa ha comportato questa impostazione di un problema, che, a sua volta, nasceva da un problema ancor meno chiaro? Certamente una serie complessa di conseguenze… Una delle quali riguarda l’apparato percettivo dell’uomo per il quale il superamento (del territorio) è vissuto come divieto, trasgressione, male, negatività, colpa, errore. Ma non si tratta di un problema morale, più semplicemente di tipo psichico, e forse psichiatrico; quindi percettivo. La costruzione del problema – il disegno del territorio e la progettazione di un centro absconditus – implica un apparato di fissità riproducentesi senza soluzione di continuità; rinvia ad una struttura (l’effetto specchio) autoreferenziale della percezione che, a lungo andare, non poteva non generare conseguenze catastrofiche, oltre che eminentemente fuorvianti per la conoscenza.

    La convinzione che la filosofia si sia anteposta come soluzione dei due problemi antropologici fondamentali, la conoscenza e la morte, ha oscurato (almeno come tentativo) ciò che precedeva questo geniale tentativo. Alcuni hanno parlato di nichilismo irrefrenabile dell’uomo, che avrebbe preceduto l’elaborazione di un pensiero (filosofico ma anche religioso) indirizzato al suo necessario trascendimento per la sopravvivenza del genere umano. Alcuni, tra questi Nietzsche, parlano di un’intuizione tragica della vita fondata sull’accettazione del divenire (e, dunque, dal suo punto di vista, dell’annullamento della vita nella morte) che precederebbe la nascita del pensiero filosofico come razionalità teorizzata e dispiegata fondata sull’apodissi. Da questo riferimento risulterebbe che il ritmo della storia occidentale (da alcuni chiamato Destino) si articola in tre momenti: inizio, decadenza, ritorno (dell’inizio).

    Chi parla d’ineffabilità del senso denuncia una diminuzione di possibilità assoluta. L’ineffabilità è una condizione mentale che segue ad una problematizzazione imperfetta. Inoltre, questa modalità ricerca una corrispondenza (esterno-interno), che, a sua volta, segue ad un’ansia simbiotica o mira ad una deriva simbiotica. Nei termini della riflessione filosofica si rimuove completamente e paradossalmente l’evidenza sensibile relativa alla fattualità del divenire; aspira, quindi, ad una quiete assoluta che ancor più paradossalmente ricorda la morte che in qualche modo voleva esorcizzare. Dimentica fenomenologicamente che anche la morte è un processo, erroneamente vissuto da una psiche distorta come quiete assoluta, vuoto del nulla. Ma è interessante interrogarsi sulle modalità della filosofia che hanno prodotto la negazione della morte come processo. E, indubbiamente, la categoria del macabro si rivela la più adatta ad un approccio fenomenologico del problema.

    2. Riscoprire la consolazione

    Consolazione , parola oggi desueta! Tuttavia da ripercorrere e fondamentale, in ogni senso. Da un lato, parola antitetica al macabro della morte, dall’altro, pratica diretta dal buio di una prigione - Boezio e la sua situazione come metafora dell’esistenza. In origine: disposizione difensiva all’oblio davanti a qualcosa d’insopportabile. Termine, dunque, ambivalente, positivo-negativo, a seconda dell’intenzione con cui lo si assume e pratica.

    Per quanto il termine sia oggi desueto è utile valutarlo. D’altra parte l’attrezzistica tradizionale è stata riposta in un anonimo sottoscala. Soltanto il peggio viene utilizzato come rimedio, in questo nostro tempo di apocalissi oscena. Quando la consolazione potrebbe svolgere una funzione corroborante, vitale; al fine di scorgere un barlume di luce nelle tenebre onniavvolgenti dell’attuale presente. In un profilo particolare, decisamente diverso da quello delineato dalla filosofia in presenza del macabro nel divenire della morte. La riscoperta della consolazione può assumere un ruolo significativo.

    Certo, se andiamo alla ricerca di un risolutivo punto Y, allora l’obiezione di astoricità e ascientificità diventa decisiva e insopprimibile. Anche se risulta impossibile sfuggire a ciò che sembra una programmazione originaria, di enti pensanti e senzienti bisognosi dell’individuazione del puntoY (il primo nella linea del tempo) per giustificare le conseguenze di uno sfacelo presente agli occhi anche dei ciechi – si tratterebbe, allora, di avviare una riprogrammazione? D’altra parte la struttura paranoide della mente dell’uomo del Quaternario ci sospinge verso una causa originaria. Ma, al di là di un’individuazione precisa nel tempo (cosa che soddisferebbe al più la nostra curiosità intellettuale senza modificare sostanzialmente la nostra esistenza), ciò che conta è il fatto dell’eventuale programmazione originaria davanti all’incubo della morte e soprattutto alle sue evidenti conseguenze.

    Ammettendo che le cose stiano così, il punto Y resterebbe comunque il paradigma di riferimento del nostro sfacelo. Non uno strumento che consenta l’individuazione della verità, al più una colpa originaria sulla quale meditare incessantemente; anche perché, considerando che lo sfacelo ha coinvolto l’intero pianeta, siamo noi a poter avere la cognizione delle sue conseguenze, mentre gli altri esseri viventi ne subiscono soltanto le conseguenze. Contro ogni illusione storicistica o annebbiamento tardoromantico è necessario affermare che qualcosa di profondamente malato investe la natura umana, la sua terribilità è quella di un virus che infetta e distrugge lo spazio circostante.

    Non saranno mai sufficienti le accuse a una versione edulcorata della natura umana, soltanto un modo per occultare ciò che poteva essere accettato: poter contemplare la propria immagine senza provarne una profonda vergogna. A quell’immagine riflessa qualcuno ha creduto di poter dire: con il tempo cambierà.

    Il punto Y si è insinuato nel DNA, operando come una pulsione elementare alla sopravvivenza della specie, celando; almeno in parte, gli altri istinti da scimmia nuda presenti nella natura umana. Questa miscela esplosiva è il risultato uomo . Ne avesse almeno tratto giovamento! Quando, al contrario, ha determinato una espansione della sofferenza, ormai globalizzata, inarrestabile e crudele. Che determina inarrestabilmente il venir meno della domanda sul Senso nella nuova etica del digitale.

    Molteplici sono le definizioni che la filosofia ha proposto dell’uomo. Alcune particolarmente suggestive, come quella di Nietzsche. La sua enigmatica definizione - l’uomo, l’animale ancora non fissato - forse va assunta come ciò che esprime una latenza originaria che lo avrebbe preservato dalla maledizione del cristianesimo. Insomma, una sorta di suicidio programmato, una castrazione originaria in conseguenza di un’angoscia non controllabile. Nella prospettiva nietzscheana in vista di una riacquisizione originaria (attraverso il ritorno di ciò che sarebbe emerso – positivamente!? – nella dimensione aurorale).

    Ma, paradossalmente, questa prospettiva coglie soltanto un aspetto del problema, non fosse altro perché Nietzsche, troppo preso dalla sua interpretazione dionisiaca della grecità, non riusciva a scorgere una verità elementare: l’attimalità dello zenit era soltanto una dimensione letteraria e tardoromantica. Infatti, l’attimalità è una disposizione estetica, non esistenziale (tantomeno concettuale e scientifica); in essa si respira un’atmosfera di risentimento, di sconfitta dalla vita, nonostante da un punto di vista percettivo sia decisamente interessante, in quanto rimette in discussione il rapporto fra la funzione del tempo e la realtà esterna. Un’attimalità esemplare è utile, piuttosto, come disposizione estetica, veritativa e mistica nei riguardi del regno della doxa.

    3. Doxa

    La doxa-illusione non ha bisogno di una dinamica giustificativa e dimostrativa. L’errore della tradizione eleatica fu di connotarla mediante una reductio ad absurdum , quando, al contrario, essa occupava lo spazio dell’incontrovertibile evidenza sensibile. Il mondo è l’opinione-illusione e ciò è immediatamente evidente. Negando questa evidenza elementare (percettiva), lo stregone eleate ha costruito un mondo capovolto, con in più un difetto di concentrazione logica: l’incapacità di assumere fino in fondo la radicalità della sua tesi (si deve allora congetturare la formulazione di un’ipotesi ad hoc che faccia di Parmenide il primo di una vasta schiera di nichilisti pseudo-metafisici? O, al contrario, ha intuito come necessaria antropologicamente l’inevitabilità della finzione?). Che la percezione sensibile occupi l’ambito della fallacia è indubitabilmente vero; ma ciò non giustifica, se non in una disposizione preoccupantemente autopunitiva, la cancellazione tout court della realtà sensibile. La rimozione della realtà ha confuso la prospettiva implicita nell’assunzione dell’incontrovertibile verità dell’Essere, in quanto quella verità altro non era che percezione mentale del sovrasensibile, dell’invisibile. L’identità di pensiero ed Essere è soltanto un fatto percettivamente mistico, nonché un’arrogante imposizione antropocentrica. Questa acrobazia cabalistica ha generato una lacerazione, che resta un tratto caratteristico della nostra realtà mentale e culturale. Dell’ideale gnoseologico dominante è prevalso l’elemento schizofrenico. Da questa impostazione la realtà del sensibile ha iniziato a perdere ciò che in essa è reale. La deontologizzazione del sensibile guida attualmente, nel suo storico essere sempre in perdita, lo scambio feticistico tra immagine e reale. Con la conseguenza del venir meno della domanda sul senso che ha guidato l’esperienza dell’uomo, dai Greci al postmoderno. La filosofia è entrata in una crisi strutturale e irreversibile, sebbene il segreto dell’immagine vada ricercato nel rapporto che con essa Platone istituisce.

    4. Transito

    Il fremito sublime e indefinito della vita è stato colto soprattutto dalla poesia. Percezione momentanea, sguardo inatteso sull’assoluta perfezione della natura, quiete inesprimibile dei morti… dissonanze linguistiche… La realtà fenomenica non appare nella sua assoluta visibilità. Forse sarebbe più corretto affermare: non ci appare. Lo spazio di apertura della totalità del possibile viene percepito secondo una logica del discorso stratificata. A ciascuno il suo, verrebbe da dire rispetto alla molteplicità e varietà degli esseri viventi. E questo è un fatto, non ignorabile, per quanto riguarda il carattere della realtà fenomenica. Anche restringendo l’osservazione al singolo ente uomo, sono veramente troppi gli elementi che entrano nel gioco percettivo. Come negare che la stratificazione percettiva, dalla coscienza razionale a situazioni subliminali, rinvia ad un quid di conoscenza per forza di cose ignoto? Che risulti chiaro: questa riflessione non vuole condurre ad un relativismo gnoseologico fine a sé stesso, nonostante sia proprio il concetto di stratificazione percettiva rispetto al singolo percipiente a costituire un problema, un’aporia. Nel pensiero classico è noto che, rispetto ad un analogo relativismo della sensazione, Platone nel Teeteto credette di risolverlo una volta per tutte, anticipando di oltre duemila anni la tesi kantiana, distinguendo fondamentalmente la Sensazione (come Forma) dalle sensazioni (come Materia).

    In questo svolgimento la percezione ha sempre un contenuto determinato, che corrisponde al percepito. Nella tradizione filosofica occidentale, la percezione si distingue dalla sensazione per un quid di coscienza fondamentalmente assente nella tradizione orientale. Il luogo della coscienza è la mente-cervello. Immaginando la stratificazione percettiva come gradi difformi del percepito attraverso la figura di una cipolla, risulta evidente che l’insieme include sia la superficie sia il centro. E sulla base di una variazione assiologica, non è scontato affermare che lo strato più superficiale sia anche il più privo di contenuti veritativi rispetto al centro, al cuore, invisibile che faticosamente deve essere raggiunto.

    I gradi percettivi della coscienza sono quindi molteplici. Ma è universalmente noto, quale che sia il diagramma assiologico della percezione rispetto al percepito, che si danno esperienze-limite sorprendenti rispetto ad un controllo razionale della stratificazione percettiva coscienziale, quali quelle di esperienze post-mortem o date per assunzione di droghe. Forse il primo a mettere in evidenza il carattere straordinariamente sorprendente della percezione è stato Leibniz; si pensi soltanto alla misteriosa funzione delle piccole percezioni.

    Sembrerebbe, secondo una prima approssimazione, che ‘le piccole percezioni’ siano relative ad una parcellizzazione infinitesimale del tempo; appunto percepiscono ciò che la coscienza percettiva ordinaria percepisce in un tempo ‘diverso e ordinario’ [1] . E ciò che percepiscono sia nel contempo ontologicamente diverso da ciò che solitamente la superficie della coscienza (lo strato esterno della cipolla) percepisce. Viene dunque da pensare ad un’estensione della vita oltre la vita, in un’irruzione leibniziana entro i confini oscuri della morte, e naturalmente a quanto ci accade nel sognare ogni notte.

    Ed è singolare questo tentativo di oltrepassare i confini della vita attraverso le modalità del percepire prima di porre, secondo tradizione, il problema dell’immortalità dell’anima. Potrebbe essere definita come una via intermedia fra un nichilistico immanentismo ed una trascendenza metafisica che ratifica in eterno una parte della vita; che dà spazio ad un abnorme e misteriosa fisicità, ad una fenomenologia del corpo morto che non muore completamente, ma continua ad interagire (a percepire diversamente) con lo spazio in cui è situato. Un fatto che comporta anche problemi etici: quando, infatti, deve essere considerato morto (definitivamente?) un individuo? Da questa prima approssimazione al problema leibniziano seguono due percorsi: il primo passa attraverso una definizione di ciò che noi intendiamo per morto (e, per opposizione, per vita); il secondo attraverso la sola lettura di un romanzo geniale, Ubik di Ph. Dick, la resa estetico-narrativa più illuminante che esplora la possibilità di una vita intermedia (provvisoria) tra vita e morte. In questo romanzo Dick occupa finalmente il centro del problema, sciogliendo ansie bimillenarie in un’idea che va attentamente analizzata e discussa.

    In fondo, le recenti problematiche bio-etiche relative ai confini della vita sono state anticipate dal genio di uno scrittore appartenente al genere minore della fantascienza … Nella oscurità asettica e gelida del Moratorium Diletti Fratelli, il signor Runciter ha un urgente bisogno di mettersi in contatto con la moglie Ella, che giace in un sepolcro congelato in una condizione di semi-vita a tempo. Ritta nel cofano trasparente, avvolta in un effluvio di nebbia ghiacciata, Ella Runciter riposava immobile con gli occhi chiusi, le mani sollevate eternamente verso il viso impassibile. Da tre anni lui non vedeva Ella e naturalmente lei non era cambiata. Non sarebbe mai cambiata, del resto, almeno secondo i comuni parametri della vita fisica. Ma ad ogni resurrezione alla semi-vita attiva, ad ogni ritorno di attività cerebrale, per breve che potesse essere, Ella moriva un poco. Ogni volta il tempo che le rimaneva usciva di fase e si attenuava [2] . Dick esplora con commossa partecipazione il fantascientifico microcosmo dei morti dopo la morte, questa avveniristica condizione provvisoria di semi-vita post mortem , conseguenza di uno sviluppo scientifico e tecnologico che afferma: La sepoltura è una barbarie […]. Un rimasuglio delle primitive origini della nostra cultura [3] . Il mistero della morte viene indagato a partire da un’improbabile fase di transito, di cui, noi in quanto vivi, nella nostra ordinaria percezione quotidiana della vita e della morte, non possiamo avere esperienza. Secondo i comuni parametri della nostra vita fisica; è evidente che questa affermazione implica l’idea di una determinazione dello stato di morte per la quale la morte stessa va al di là della nostra stessa capacità d’immaginazione. Analoga difficoltà la incontriamo quando si prova a determinare il comportamento degli animali (morte, dolore, strumenti di lettura del mondo, ecc.) a partire dal nostro punto di vista antropologico. Per questo Dick inventa una condizione ipotetica intermedia che consenta una lettura a partire da presupposti diversi da quelli percorsi dalla tradizione. "Ella, bellissima e con la pelle chiara; i suoi occhi, nei giorni in cui erano stati aperti, avevano luccicato di un azzurro luminoso. Questo non sarebbe più accaduto; lui poteva parlarle e sentirla rispondere; poteva comunicare con lei ... ma non l’avrebbe mai più rivista con gli occhi aperti. E non avrebbe più visto muoversi la sua bocca. Lei non avrebbe sorriso al suo arrivo. Quando lui se ne sarebbe andato, lei non avrebbe pianto. Ne vale la pena? si chiese amareggiato. Tutto questo è migliore della vecchia via, la strada diretta dalla piena-vita alla tomba? Eppure, in un certo senso l’ho ancora con me , decise. L’alternativa è il nulla" [4] . Gli occhi sono eternamente chiusi, la bocca impossibilitata a muoversi, sorriso e lacrime escluse per sempre… e tutto questo è malinconicamente drammatico! sola possibilità di comunicare la misteriosa attività cerebrale residua, a tempo ma in realtà senza più tempo. La mente e i suoi strati profondi nascondono il mistero della morte. Lo stato di semi-vita nel quale Ella Runciter si trova è uno stato di transito, consono a quanto insegna il Bardo Thodol . Infatti, poco più avanti, Runciter lo ricorda alla moglie, alla quale appunto lo

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