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Intertestualità nell'opera di Violette Leduc: Maurice Sachs - Jean Genet - Simone de Beauvoir
Intertestualità nell'opera di Violette Leduc: Maurice Sachs - Jean Genet - Simone de Beauvoir
Intertestualità nell'opera di Violette Leduc: Maurice Sachs - Jean Genet - Simone de Beauvoir
E-book443 pagine5 ore

Intertestualità nell'opera di Violette Leduc: Maurice Sachs - Jean Genet - Simone de Beauvoir

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Info su questo ebook

L’opera di Violette Leduc, una delle più perturbanti del XX secolo – una letteratura dell’abiezione, della marginalità, ma soprattutto della diversità –, è ancora relativamente poco conosciuta al grande pubblico, nonostante la recente riproposizione dei suoi romanzi principali e l’attualità della sua vicenda biografica, trasposta anche per il cinema da Martin Provost (Violette, 2013). 
Interstestualità nell’opera di Violet­t­e Le­duc si concentra soprattutto sull’intreccio tra costruzione del testo e a­spet­to biografico, mettendo a fuoco il carattere intertestuale dell’opera di Leduc attraverso il confronto critico-­letterario con le tre figure più importanti della sua evoluzione letteraria – Maurice Sachs (l’autore che l’avviò alla scrittura, ma anche un amore “impossibile”), Jean Genet (lo spirito gemello), Simone de Beau­voir (la musa e la guida) – e la narrazione del loro incontro. 
Emergono da ogni pagina la sensibilità dolente e acutissima di Leduc, che ha dominato tutta la sua vicenda umana, e l’inconfondibile sensualità a tratti mistica della sua voce. 


Luana Doni (Torino 1990) è Dottoressa di Ricerca in Letteratura Fran­cese e at­trice teatrale presso la com­pagnia Doppeltraum Tea­tro. Collabora con la professoressa Gabriella Bosco all’organizzazione del­le iniziative artistico-­letterarie de­dicate alle letture plurilingue del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne dell’Università di Torino; scrive per la rivista «Studi Francesi»; fa parte all’Associazione Les Amis de Violette Leduc e del gruppo di ricerca Narra­tive Autobiographical Perspectives del­­l’Università di Torino.  
Tra i suoi contributi si segnalano:  Un padre, un ombrello, dei guanti. Riflessioni intorno all’oggetto simbolico ne L’Asphyxie di Violette Leduc, («Quaderni di Palazzo Serra»); …E tutto il resto è letteratura. Tra attore e poeta. Per un’interpretazione di Paul Verlaine («ricognizioni - Rivista di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne», 2019).
LinguaItaliano
Data di uscita17 gen 2023
ISBN9788833862316
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    Anteprima del libro

    Intertestualità nell'opera di Violette Leduc - Luana Doni

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    introduzione

    Capitolo 1 – Violette

    1.1 «Nous sommes tous des Violette Leduc»18. Vita e opere della scrittrice trafficante

    1.2 Genesi degli studi sull’autrice e punto sulla situazione della ricerca

    1.3 Un approccio intertestuale

    Capitolo 2 – Maurice

    2.1 Cronologia di un incontro

    2.2 Persona/Personaggio: Maurice Sachs da Alias a La Chasse à l’amour

    2.2.1 L’asfissia

    2.2.2 L’affamata

    2.2.3 La Vieille fille et le mort

    2.2.5 La follia in testa e La Chasse à l’amour

    2.3 La bastarda e Il sabba. Una lettura incrociata

    Capitolo 3 – Jean

    3.1 Di fiori, di ladri e di scrittura

    3.2 «Et je signe comme si j’étais…Violette Leduc»

    3.2.1 L’Affamée

    3.2.2 Thérèse e Isabelle – Ravages

    3.3 Il Santo Genet di Violette Leduc

    Capitolo 4 – Simone

    4.1 Un incontro decisivo: Simone de Beauvoir

    4.2 Commedianti e martiri

    4.3 La mano di Simone: note sui manoscritti di Violette Leduc

    4.3.1 Ravages e Thérèse e Isabelle: una ricognizione sugli studi di Catherine Viollet

    4.3.2 Il caso de Il taxi

    4.3.3 La Chasse à l’amour

    Ringraziamenti

    Bibliografia

    contrappunti / saggi

    luana doni

    Intertestualità nell’opera di

    Violette Leduc

    Maurice Sachs – Jean Genet – Simone de Beauvoir

    © 2022 Miraggi Edizioni, Torino

    www.miraggiedizioni.it

    In copertina: fotografia di Jacques Robert.

    Compiute senza esito le necessarie ricerche, l’editore resta a disposizione degli eventuali aventi diritto

    Progetto grafico: Miraggi edizioni

    Volume pubblicato con il concorso di fondi assegnati

    dal Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne

    nell’ambito dei cicli XXXIII - XXXIV di Dottorato

    Finito di stampare a Borgoricco (PD)

    nel mese di dicembre 2022 da Logo srl

    per conto di Miraggi Edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr

    Prima edizione digitale: dicembre 2022

    isbn

    978-88-3386-231-6

    Prima edizione cartacea: dicembre 2022

    isbn

    978-88-3386-229-3

    Alle donne della mia famiglia

    A Giulia, a mia madre, a mia nonna

    avvertenza

    Per quanto riguarda le citazioni presenti nel testo, sono state utilizzate, ovunque fosse possibile, traduzioni italiane edite e in commercio. Le fonti inedite in Italia, o delle quali non fosse stato possibile reperire la traduzione edita, sono state tradotte dall’Autrice. Per tutti i riferimenti bibliografici, si rimanda comunque allaBibliografia presente nel volume alle pagine 295 e seguenti.

    introduzione

    La cara Violette apparve, così, un giorno […]. Come? Non lo so più. […] La povera Violette – l’abbiamo sempre chiamata quella povera Violette – mezza pazza, depressa. […] Arrivava in salotto con l’aria di una vecchia strega con il turbante, trascinando piedi e borsa […]. In più, folle d’amore. Esiste: folle d’amore.

    François Reichenbach

    Connaissez-vous Violette Leduc? recita il titolo di un articolo apparso su «Parler» del 1958¹. Violette Leduc – la bastarda della letteratura francese, la donna con la pelliccia di volpe, la Jean Genet al femminile dal fisico esile di una fanciulla e il volto «decisamente brutto ma raggiante di vita»² – è un nome che in quegli anni comincia a farsi conoscere dai lettori contemporanei.

    Tra i pionieri dell’autofiction, Leduc è oggi tradotta e pubbli­cata quasi in tutto il mondo; nel 2020, la casa editrice vicentina Neri Pozza stampa una riedizione di Thérèse e Isabelle³ introdotta dalla puntuale prefazione di Sandra Petrignani. Because the Night Belongs to Lovers, questo è il singolare titolo con il quale Petrignani introduce un romanzo che, al tempo della sua stesura, nel 1954, viene censurato poiché considerato «di un’oscenità enorme e precisa», capace di attirare «i fulmini della giustizia»⁴.

    A oggi, assieme al suo più celebre romanzo La bastarda, Thérèse e Isabelle è il testo più conosciuto di Violette Leduc, in quanto simbolo di emancipazione letteraria della donna dalla sempiterna tirannia della letteratura maschile, e ciò grazie alla capacità di portare per la prima volta sulla pagina la sessualità femminile nella sua completa e inedita autonomia.

    Ma «Connaissez-vous vraiment Violette Leduc?» A questa domanda, forse, in pochi darebbero una risposta affermativa. Nonostante tutto il clamore – il «vortice»⁵, come lo definisce Jansiti nella sezione della biografia dell’autrice dedicata all’arrivo della notorietà letteraria – e il riconoscimento da parte della critica letteraria contemporanea, l’indagine sulla scrittura di Leduc ricorre spesso a interpretazioni mediate da etichette e pregiudizi che, per anni, hanno cercato di dare una definizione della sua opera senza individuarne la vera originalità.

    Così, la scrittura di Leduc è quella di una trafficante che un giorno si scopre scrittrice; è una scrittura morbosamente egoista che tutta si aggroviglia intorno al delirio insonne causato dall’amore non corrisposto per Simone de Beauvoir. Quella di Leduc è una scrittura impubblicabile, capace di proporre ai lettori francesi del dopoguerra «una storia di sessualità lesbica cruda come quelle di Genet», senza alcuna poeticità ma, al contrario, piena di «una quantità di porcherie atroci»⁶ e vagamente disgustose. È una scrittura esistenzialista, autobiografica; è una scrittura femminista, lesbica, gender, queer, probabilmente non è neanche possibile farla rientrare nella vera letteratura.

    Nella moltitudine di considerazioni che hanno ridotto Violette Leduc a un collage di pregiudizi, la sua opera si perde tra un milione di parole, appena sufficienti a spiegarne la complessità.

    Questo studio nasce dalla volontà di riflettere sull’autrice partendo dalla sua scrittura; una scrittura tutt’altro che «bastarda»: una scrittura consapevole, ragionata, raffinata che origina, come ogni scrittura, dall’incontro con le altre; una scrittura che nasce e matura nel mondo letterario in cui è immersa e che forma la propria identità grazie alla capacità di rompere i legami con quello stesso mondo che l’ha creata. In virtù di ciò, l’approccio di tipo intertestuale risulta essere quello più adatto a indagare l’origine della parola letteraria.

    Il primo capitolo è un’introduzione all’autrice che si affida al magistrale lavoro biografico di Carlo Jansiti⁷, uno dei punti di riferimento fondamentali per gli studi leduchiani. Successivamente, l’analisi si focalizza sull’aspetto genetico, cercando di fornire una visione quanto più esaustiva possibile del costante evolversi degli studi sui manoscritti di Leduc e delle recenti pubblicazioni di parti ancora inedite della sua opera. L’ultima sezione della prima parte del lavoro è invece di carattere metodologico; anche in questo caso si è reso necessario procedere cronologicamente in merito al concetto di intertestualità letteraria e di tutte le varianti connaturate a una definizione che, ancora oggi, conserva tutta la sua duttilità. Dalla concezione del testo come luogo di scambio costante, come combinazione di frammenti nati da testi anteriori proposta da Julia Kristeva⁸, e da quella di polifonia portata avanti da Bachtin⁹, si arriva alla definizione di «transtestualità» come tutto ciò che mette in relazione «manifesta o segreta»¹⁰ un testo con altri testi, elaborata da Gérard Genette nel 1982.

    Quello intertestuale è un approccio secondo il quale la stessa Leduc concepisce la scrittura, ecco perché il confronto tra l’autrice e gli altri autori presi qui in esame è introdotto da una riflessione sull’intertestualità interna in Leduc. Tale elemento fa emergere il carattere circolare della sua scrittura: in ogni libro c’è infatti la ripresa, più o meno esplicita, di testi precedenti, ripresa che determina quella che può definirsi una struttura a catena dal carattere intertestuale e metatestuale.

    I tre autori che vengono messi in relazione con Leduc sono Maurice Sachs, Jean Genet e Simone de Beauvoir. La scelta è determinata dal fatto che, all’interno dell’opera di Leduc, i tre autori appena citati sono una presenza quasi costante e, soprattutto, la loro produzione artistica e il loro punto di vista sulla letteratura risultano determinante nella genesi della sua scrittura. Il lavoro si articola dunque secondo questi tre momenti di influenza.

    Il primo è rappresentato da Maurice Sachs, «punto di partenza di una passione impossibile»¹¹, che è anche quella per la letteratura; è Sachs a consigliare a Leduc di cominciare a scrivere della sua infanzia, di sua madre, di tutto ciò che l’aveva fatta sentire colpevole. È Sachs l’origine de L’asfissia, motivo per il quale la sua presenza resterà legata all’opera di Leduc anche dopo la sua morte; Sachs diventa un personaggio, forse l’unico all’interno dell’opera, ecco perché il secondo capitolo si concentra sulla ricorrenza del personaggio di Maurice nella parte inedita de L’asfissia e nei romanzi dal 1948 al 1973.

    La seconda parte del capitolo dedicato a Sachs entra nel merito del confronto tra la struttura de Il sabba, che Leduc conosceva bene anche grazie alla lettura dei manoscritti dell’autore, e quella de La bastarda, pubblicato quasi una decina di anni dopo ma che ripercorre il periodo di vita legato all’infanzia e all’incontro con il personaggio di Maurice.

    Il terzo capitolo affronta invece la seconda influenza letteraria fondamentale per Leduc, quella di Jean Genet. Dopo aver illustrato i punti per i quali Violette Leduc è considerata l’analogo femminile di Genet¹², l’analisi entra nello specifico della sua opera. Nel caso di Genet, l’approccio è di natura sia intertestuale che metatestuale; la prima parte della riflessione presenta infatti un approfondimento sui testi di Leduc che risentono, sia da un punto di vista stilistico sia contenutistico, dell’influenza genetiana. La lettura de L’affamata è incrociata con quella del Miracolo della rosa, il primo testo di Jean Genet che l’autrice ha modo di leggere e apprezzare a tal punto da ricrearne il tono mistico-erotico nella narrazione della sessualità, arricchendo il testo di allusioni alla simbologia cara a Genet come quella relativa al mondo dei fiori (la rosa), dei colori (il blu) e della prigione sia interiore che esteriore. La presenza dei riferimenti al Miracolo della rosa risulta essere uno dei filtri interpretativi di Thérèse e Isabelle, mentre la lettura, verso la fine del 1948, del romanzo Notre-Dame-des-Fleurs si rivela fondamentale per la costruzione di alcune figure centrali di Ravages. Un ulteriore aspetto d’interesse è rappresentato dal ribaltamento dei ruoli di genere presente in maniera analoga nei due romanzi; la femminilizzazione del personaggio di Divine – protagonista di Notre-Dame-des-Fleurs – è accostabile alla femminilizzazione del personaggio di Marc e alla mascolinizzazione del personaggio di Thérèse in Ravages, testo che porta in scena la stessa dinamica triangolare.

    In una lettera a Paul Morihien del 1947¹³, Violette Leduc dimostra la sua ammirazione per l’autore del Miracolo accennando a un progetto che prevede la stesura di un saggio dedicato proprio al romanzo di Genet. Il progetto non venne mai portato a termine ma, grazie alle molteplici allusioni metatestuali e alle citazioni tratte dalla sua opera, la seconda parte del capitolo è il tentativo di ricostruire, in via ipotetica, l’antico progetto leduchiano, riunendo tutte le parti concernenti l’opera di Genet presenti nella trilogia autobiografica di Leduc.

    Il quarto e ultimo capitolo è invece una ricognizione su una delle relazioni più controverse della letteratura del tardo Novecento francese, quella tra Violette Leduc e Simone de Beauvoir.

    Artefice della notorietà di Leduc in ambito letterario, Simone de Beauvoir ne diventa, dal 1945, la musa e il censore al contempo; attraverso una panoramica dei rapporti letterari tra le due autrici, ben delineati nella biografia di Deirdre Bair e in quella di Carlo Jansiti e dalla corrispondenza 1945-1964¹⁴, l’analisi si concentra su quelli che sono stati i danni e i benefici del patrocinio accordato da Simone de Beauvoir all’opera di Violette Leduc. Il caso dell’autrice de La bastarda è accostato a quello di altri due autori che subirono il parrainage esistenzialista agli esordi della loro carriera, Jean Genet e Nathalie Sarraute.

    Una grande importanza, al fine di fornire alcuni esempi significativi in merito alla censura beauvoiriana, riveste la critica genetica; la riflessione verrà pertanto concentrata sullo studio dei manoscritti di Thérèse e Isabelle, Ravages e La follia in testa secondo il lavoro portato a termine dalla studiosa francese Catherine Viollet e da quanto emerge dalla lettura dei manoscritti de La follia in testa e della versione dattiloscritta di Thérèse e Isabelle conservati al Département des Manuscrits della Bibliothèque Nationale de France.

    Parafrasando quanto scritto da Mireille Brioude in un volume dedicato alla produzione inedita di Violette Leduc, la sua è un’opera che si è andata costruendo a spirale intorno all’indicibile¹⁵, manifestando a piena voce i caratteri del suo tempo: quelli determinati dalla fine di un conflitto mondiale dal quale l’umanità esce in frantumi, ravagée, come recita il titolo del suo romanzo più discusso.

    Dopo anni in cui la sua opera sembrava vittima di una «cospirazione del silenzio»¹⁶, l’eredità che Leduc lascia è quella di una scrittura intrepida, fortemente innovativa e rivoluzionaria, in grado di sovvertire i canoni della narrazione della sessualità femminile «come nessuna donna ha mai fatto»¹⁷.

    Dal presente lavoro è nato un sito internet dedicato all’intertestualità nell’opera di Violette Leduc: https://intertextualiteviolette

    leduc.wordpress.com/

    Capitolo 1 – Violette

    1.1 «Nous sommes tous des Violette Leduc»¹⁸. Vita e opere della scrittrice trafficante

    Thérèse Andrée Violette Leduc nasce nel 1907 ad Arras, nel Nord-Pas-de-Calais.

    «Sono nata il 7 aprile 1907 alle cinque del mattino. M’avete denunciato l’8. Dovrei esser contenta d’aver cominciato le mie ventiquattr’ore fuori dai registri. E invece, le mie ventiquattr’ore senza stato civile m’hanno intossicata»¹⁹.

    È il frutto di una fugace relazione tra la madre, Berthe Leduc e André Debaralles, primogenito di un’aristocratica famiglia originaria del Pas-de-Calais, presso la quale Berthe prestava servizio come domestica.

    La piccola Thérèse²⁰, non riconosciuta dal padre, trascorre l’infanzia a Valenciennes con la madre e la nonna Fidéline:

    La nonna passava lunghe ore nelle chiese, specie nella chiesa di Saint-Nicolas, vicina al tempio protestante. Che potenza di noia hanno i bambini, come dilata la noia. La mattina era lunga quando la accompagnavo a messa grande, il pomeriggio diventava lunghissimo quando andavo ai vespri con lei. […] Ahimè, Fidéline, seduta vicino a me, prendeva il volo. Le mettevo una mano sulla giacca, sulla lunga gonna che le ricadeva sino ai piedi, Fidéline non si muoveva, Fidéline non mi guardava. Dov’era? Se chiamavo sottovoce: nonna, nonna, non rispondeva.²¹

    L’angelo Fidéline muore di tubercolosi nel 1916, anno in cui anche André Debaralles cade vittima della stessa malattia. Rimasta sola con la figlia, Berthe Leduc decide di trovare lavoro a Parigi assieme alla sorella Clarisse e lascia la figlia in collegio a Valenciennes.

    Gli anni del collegio sono particolarmente dolorosi per Violette, tanto da costarle una pleurite che la costringe ad abbandonare gli studi e a sistemarsi in campagna dalla zia Laure.

    Non è solo la malattia a farle conservare un brutto ricordo di quei primi anni Venti; più grande delle compagne di almeno un paio d’anni, Violette Leduc è anche una figlia illegittima:

    «E tuo padre?»

    «Ti ho detto che mia madre lavora a Parigi».

    «Ti ho chiesto dov’è tuo padre. Non sto parlando di tua madre».

    «[…] Mia madre è mio padre».

    «Tu sei matta, sei scema. Io ho un padre e una madre. Mia madre non è mio padre».

    «Non sono né matta né scema. Da noi il padre non c’è. C’è solo mia madre.» […]

    «[…] Tu sei venuta al mondo come me: con un padre e una madre».

    «Non seccare. Io sono venuta al mondo con mia madre. Giochiamo».

    […] Perché non formano una massoneria? Dovrebbero perdonarsi tutto, perché hanno in comune quel che vi è in loro di più prezioso, di più fragile, di più forte, di più cupo: un’infanzia contorta come un vecchio melo. […] Mi piacerebbe veder scritto a lettere di fuoco: «Tipografia per bastardi».²²

    Una bambina taciturna e sgraziata che si appassiona a quelle letture proibite che rimarranno, col tempo, pilastri essenziali alla base della sua scrittura. Mort de quelqu’un di Jules Romains, La Confession de minuit di Georges Duhamel, ma soprattutto I nutrimenti terrestri di Gide, diventano gli unici confidenti e compagni della solitudine della giovane liceale.

    Nel 1924, dopo la nascita del fratellastro Michel, figlio legittimo di Berthe e del commerciante Ernest Dehous, Violette Leduc comincia a frequentare il Collège des jeunes filles di Douhais, attuale Lycée Jean-Baptiste Corot, dove conosce la giovane Isabelle P., protagonista del romanzo scandalo Thérèse e Isabelle (1966):

    La settimana per noi cominciava la domenica sera in calzoleria, dopo la libera uscita. […] Lucidavamo in una cappella di monotonia, senza finestre, mal illuminata; stavamo in calzoleria, con le scarpe sulle ginocchia, a sognare, nelle lunghe ore che seguivano il nostro ritorno in collegio. L’onesto odore del lucido, quell’odore che nelle drogherie rinvigorisce, ci anemizzava. […]

    Conta e riconta: sono trenta giorni da che sono tornata interna in un collegio e ventisei sere da che Isabelle sputa sulla scuola quando sputa sulla scarpa.²³

    Nel 1926, tuttavia, la relazione con la musicista e sorvegliante Denise Hertgès le costa l’espulsione dal Collège e il trasferimento a Parigi con la madre Berthe e la sua nuova famiglia:

    Che solenne sferragliare sotto il lucernario della stazione, che pletora di facchini. È cupa, vasta, enorme; ed eccomi qui che adoro la fuliggine delle locomotive ferme nella stazione di Parigi. Ho fatto una tal messe di rotaie nelle diramazioni. Vedevo mia madre in prima fila: una macchia d’eleganza. Una ragazzina e una giovane donna. Patto di grazia. L’ho abbracciata, lei mi ha risposto: «Ti piace il mio abito?» In tassì parlavamo del suo completino. Mia madre pariginizzata annichiliva la direttrice, faceva sparire il collegio. Nessuna insinuazione. Mi faceva dono della sua discrezione, regalandomi Parigi.²⁴

    È quasi certo che Berthe Leduc non ignorasse l’ostracismo e i pregiudizi nei confronti dell’omosessualità femminile ma, come del resto testimonia l’opera di Leduc, l’idea che Violette si salvasse dalla possibilità di diventare una madre sola bastava a farle accettare di buon grado le scelte anticonformiste della figlia:

    Per mia nonna, gli uomini era tutti degli stronzi. Me ne parlava con grande disprezzo. Mi confessò una volta, appena dopo essermi sposata, che non avrebbe esitato a pagare un cecchino se avesse saputo che mio marito mi faceva soffrire. Nonna non aveva mai dimenticato il suo passato, ma chiaramente le sue profezie non hanno avuto su di me la stessa presa che hanno avuto su sua figlia.²⁵

    A Parigi, Leduc prosegue, in maniera discontinua, gli studi presso il Lycée Racine²⁶ fino al 1927 quando, dopo aver fallito l’esame orale di baccalauréat, inizia a frequentare i corsi de La Maison du Livre per la formazione degli impiegati nel campo dell’editoria. Leduc affronta solo en passant la questione del titolo di studio; talvolta, il fatto di non avere una cultura accademica verrà esibito nell’opera come un tratto caratteristico dell’autrice, una sorta di presa di distanza da chi attinge alla cultura attraverso i luoghi canonici di imposizione del sapere²⁷: «A me l’esperienza, la superiorità veniva dai sensi. E dovevo tenerlo nascosto a tutti»²⁸.

    Nel gennaio del 1928, Leduc comincia a lavorare per l’ufficio stampa della casa editrice Plon.

    La celebre casa editrice, fondata nel 1845 da Henri Plon, rappresenta il primo contatto ufficiale di Leduc con la letteratura:

    Ho aperto senza fretta la prima porta, sono rimasta conquistata dalla vetrata a colori. Ho aperto la seconda porta, ho scorto la sfilata di libri negli scaffali. […] L’ampiezza del locale, l’altezza del soffitto, le dimensioni delle scalette davanti agli scaffali, la discrezione degli impiegati che stavano sulle scalette a infilare o togliere libri dagli scaffali, mi affascinavano. Finito, l’antico silenzio delle nostre biblioteche di liceo. Libri mai letti, libri intonsi vivevano, viaggiavano per la stanza. Giovani donne e ragazze, con libri dietro di loro negli scaffali, libri dinanzi a loro sui banchi, sceglievano, separavano, riunivano, intercalavano fogli di carta. […] Scesi i gradini, mostrai la mia lettera di convocazione.²⁹

    Le mansioni di Leduc si limitano, in un primo momento, a quelle della colleuse d’articles, ritagliare e, successivamente, incollare su altri fogli tutti gli articoli apparsi sui quotidiani locali riguardanti gli autori pubblicati dalla casa editrice Plon. Come spiega lei stessa in un’intervista rilasciata a Pierre Lhoste nel 1964 e citata da Jansiti nella sua biografia, il lavoro come colleuse lascia lo spazio a quello di scrittrice vera e propria.

    Era l’epoca dell’«avanguardia della letteratura di sinistra»³⁰, rappresentata da riviste come «Europe», fondata nel 1923 da Romain Rolland, alla quale Leduc dedica importanti considerazioni sul suo personale processo di formazione critico-letteraria: «Al mio posto trovavo i giornali della sera, cercavo gli articoli incorniciati o segnati in un angolo con una X a matita blu, leggevo dalla prima all’ultima parola la più anodina delle critiche al più anodino dei romanzi. Appagavo la mia coscienza di impiegata»³¹.

    Le vengono così assegnati i primi articoli: brevi trafiletti, degli echi di stampa, di argomento letterario e dedicati agli scrittori contemporanei tra cui Henri Bordeaux, Gabriel Marcel, «che faceva pensare all’abbigliamento trascurato d’un intellettuale puro»³²; Julien Green, «timido, intimidiva»³³; Georges Bernanos, «bello della bellezza d’un hidalgo quarantenne»³⁴ e Jean Cocteau che usciva finalmente dai libri e dalle fotografie per diventare reale³⁵.

    «Quando avevo vent’anni, portavo i capelli rasati, l’impermeabile, insomma, ero la più maschiaccio di tutti e, allo stesso tempo, mi vergognavo. […] Esageravo, esageravo molto»³⁶.

    Quelli che possono essere considerati gli anni folli di Violette Leduc si riassumono tutti in questa frase e nei due concetti che ne reggono il senso più profondo: l’esagerazione e la vergogna: «Volevo diventare un concentrato di curiosità per avventori di caffè, per bellimbusti di music-hall perché avevo vergogna della mia faccia e nello stesso tempo non evitavo di imporla»³⁷.

    Nel 1935 Violette Leduc diventa un’assidua frequentatrice della libreria di Adrienne Monnier³⁸, La Maison des Amis des Livres:

    Entrando nella libreria, il pavimento di legno tirato a cera mi causò un sentimento di sorpresa. La pulizia denuda. La pulizia avrebbe reso spoglio il locale se numerose fotografie di scrittori contemporanei non l’avessero decorato. […] Ad Adrienne Monnier arrivava tutto quel che si pubblicava: libri, riviste, manifesti, opuscoli. I nomi letti sulla «Nouvelle Revue Française» o sulle «Nouvelles Littéraires» li ritrovavamo sul lungo tavolo di Adrienne Monnier.³⁹

    In base a quanto afferma Carlo Jansiti nella biografia dell’autrice, è attraverso la frequentazione della libreria di Adrienne Monnier che Violette Leduc ha conosciuto la giornalista e scrittrice Alice Cerf⁴⁰, responsabile del suo incontro con Simone de Beauvoir nel 1945.

    Nel 1937, Alice Cerf, che Leduc definisce dotata di una «intelligenza muscolosa»⁴¹, presenta Violette Leduc a Denise Tual, pseudonimo di Denise Batcheff, fondatrice e direttrice della casa di produzione Synops.

    Sceneggiatrice e montatrice, Batcheff aveva fondato, con la collaborazione di Gallimard, un’azienda di creazione di sceneggiature tratte dai classici della «Nrf». Leduc viene assunta in un primo momento come sceneggiatrice e successivamente come segretaria. Nel volume autobiografico Le Temps dévoré, Tual dà una puntuale testimonianza del milieu artistico che orbitava intorno a Synops negli anni che precedono il secondo conflitto mondiale. Tra i nomi delle personalità illustri del mondo della letteratura e del cinema, fa capolino quello di Violette Leduc⁴², che Tual introduce nel testo attraverso la rievocazione di un singolare aneddoto riguardante la scelta del titolo di un film di Marcel Carné del 1937:

    Bisognava trovare un titolo, ugualmente insolito. Tornando con i piedi per terra, una delle lettrici dell’ufficio esordì a mezza voce: «Lo strano dramma!», titolo che fu accettato immediatamente. La lettrice era Violette Leduc. Violette Leduc era piombata nel mio ufficio su consiglio di un’amica che mi aveva assicurato avere «un talento folle» e che, in più, aveva «fame». Quell’orribile presentazione mi obbligava ad assumerla senza nemmeno conoscerla.⁴³

    Qualche riga più avanti, Denise Tual passa alla narrazione del loro primo incontro:

    Vidi arrivare una sorta di fantoccio che dondolava da una gamba storta all’altra e che poggiava su dei piedi smisuratamente lunghi, un corpo assurdo sovrastato da un viso sorprendente: una zazzera da cui spuntava un lungo nasone come non ne avevo mai visti. […] Fu senza guardarla che le affidai un lavoro: si trattava di riassumere il soggetto di un testo mettendo in risalto il ruolo per personaggio centrale.

    Dopo qualche ora mi venne restituito un testo eccellente, ma che non aveva più niente a che vedere con la storia originale.

    Per non scoraggiarla, passai le settimane che seguirono ad assegnarle lavoretti analoghi. Lo stesso fenomeno, però, si riproduceva in maniera invariata. Le consegnavo delle storie di Simenon, di Marc Orlan, di Marcel Aymé; lei mi rendeva delle storie irriconoscibili, spesso anche divertenti, ma di Violette Leduc. […] Alla fine Violette dovette convenire sul fatto che la sua immaginazione lavorava in modo troppo personale che si sentiva incapace di arginare per costringerla all’interno di sentieri battuti da altri. Non era dunque quello il modo in cui potevo servirmi di lei.⁴⁴

    La lunga parentesi di Tual in merito a quella singolare figura dal «talento folle» che si presentò per caso nel suo ufficio delinea in modo particolarmente pertinente il lavoro di creazione di Leduc, anche per quanto riguarda la sua stessa letteratura. Si tratta di un lavoro d’immaginazione irrefrenabile che procede in maniera autonoma, quasi incontrollabile, incapace di camminare per sentieri battuti da altri.

    Questo modo di concepire il proprio lavoro artistico verrà ridimensionato al momento della collaborazione con Simone de Beauvoir, quando il concetto di libertà assoluta della creazione si scontrerà con quello di censura editoriale.

    L’esperienza presso la casa di produzione Synops dura abbastanza per fare da sfondo al primo degli incontri capitali nella vita di Violette Leduc, quello avvenuto nel 1938 con lo scrittore Maurice Sachs.

    È ancora Denise Tual a fornire un’ulteriore descrizione del primo incontro tra queste due personalità controverse della letteratura francese del Novecento:

    Era facile che Violette dimenticasse un ospite nella sala d’attesa. Quel giorno toccò a Maurice Sachs, che aveva lasciato il segretariato personale di Gaston Gallimard per rimanervi comunque alle dipendenze, ma con più tempo libero da dedicare alla scrittura. Sachs si interessava al teatro, aveva tradotto la pièce di successo del londinese T. Rattigan, The Winslow Boy. L’adattamento francese portava il titolo di Écurie Watson.

    Fu proprio lì, nell’anticamera di Synops, che Violette Leduc lo vide per la prima volta. Entrando nel mio ufficio, Maurice esclamò: «Mia cara, che personaggio curioso avete messo all’ingresso! Parla di voi dicendo in continuazione: l’impresario qui, l’impresario là. Che sagoma! E che naso!» aggiunse, incredulo. «Che naso! Ma dove l’avete scovata una tale creatura?»

    Poi continuò con tono beffardo: «Le ho chiesto se aveva una brutta o una bella opinione dell’amore!».

    Fu il loro primo incontro, l’inizio di una curiosa relazione, di una complicità malsana e di una sordida attività di mercato nero al quale si votarono sotto l’Occupazione.⁴⁵

    L’incontro con Sachs determina prima di tutto lo slancio definitivo di Leduc verso la scrittura come lavoro artistico, di creazione. È infatti Sachs a introdurre Leduc nel mondo del giornalismo; nell’estate del 1940, alla nascita della repubblica di Vichy, Leduc comincia a lavorare come scrittrice di racconti, editorialista e reporter presso due celebri riviste parigine: «Paris-Soir» e «Pour Elle»⁴⁶:

    Mi sentii sciogliere di felicità e di tristezza. Lo desideravo, ma non osavo ammetterlo. Sì, era il mio desiderio che non aveva mai visto la luce. Leggevo il mio nome nelle vetrine dei librai, era una gioia e una malattia segreta, era l’impossibile. Scrivere…

    […] «Non so neanche coniugare l’imperfetto del congiuntivo» dissi a Maurice Sachs.⁴⁷

    Come ricorda Antolin in un articolo dedicato a Leduc giornalista, a quell’epoca la rivista femminile risponde «ai nuovi imperativi del motto dello stato francese: lavoro, famiglia e patria»⁴⁸, ecco perché, lontani da quelli che saranno i temi centrali della scrittura leduchiana, i soggetti degli articoli di «Pour Elle» spaziano dalla cura della persona a brevi racconti di taglio ottocentesco, passando per i sottili trucchetti per mascherare i segni del tempo che passa⁴⁹. Certo è che, pur non rappresentando l’anticamera dello scandalo, la produzione di Leduc per «Pour Elle» porta già traccia di alcune pose che saranno in seguito caratteristiche del suo stile. Prima di tutto, per quanto riguarda gli articoli incentrati sulla moda e gli stilisti, si può notare come questi abbiano favorito lo sviluppo di un’attenzione non comune al dettaglio estetico riferito all’abbigliamento, al trucco, alla marca dell’oggetto, sviluppato poi nelle lunghe descrizioni così frequenti nei romanzi di Leduc. Gli esempi sono vari e già presenti ne L’asfissia, dove, al personaggio della madre, vengono associati una serie di imperativi estetici che richiamano senza ombra di dubbio quell’ossessione per la bellezza e per la posizione sociale rispecchiate dalle riviste femminili degli anni Quaranta:

    Mentre montavano i baracconi, le giostre, mia madre faceva una cura di riposo al buio. Si coricava alle cinque del pomeriggio. Il suo libro Rimaner bella non la lasciava più. Lei evitava di parlare, di spazientirsi. Beveva del brodo, dell’acqua minerale, mangiava della frutta.⁵⁰

    Il ruolo della madre ne L’asfissia è infatti caratterizzato dall’adesione agli stereotipi più pregnanti della propaganda imposta dalla politica francese durante l’Occupazione; gli sforzi fatti per «rimaner bella», come suggerisce il titolo del suo livre de chevet, non sono soltanto relativi al mantenimento di un’apparenza giovanile, ma alla volontà di attirare l’attenzione maschile, di uscire dalla zona d’ombra nella quale sono segregate, come si vedrà entrando nel merito del romanzo, tutte le donne che hanno dovuto affrontare una maternità indesiderata. Nel capitolo riguardante «La donna sposata» ne Il secondo sesso, Simone de Beauvoir spiega del resto che «il matrimonio è il destino imposto per tradizione alla donna dalla società. La maggior parte delle donne, ancora oggi, è sposata, lo è stata, si prepara a esserlo o soffre di non esserlo»⁵¹.

    Leduc segue il pensiero di de Beauvoir, ritornando, ne La bastarda, proprio agli esordi da giornalista per «Pour Elle»: «Per un irresistibile complesso di celibato, avevo nascosto la mia fede matrimoniale nella

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