Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il mistero di Edwin Drood
Il mistero di Edwin Drood
Il mistero di Edwin Drood
E-book573 pagine8 ore

Il mistero di Edwin Drood

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La storia, ambientata a Rochester, è quella di un matrimonio contrastato, con il futuro sposo che scompare misteriosamente. La mancata sposa rimane quindi naturalmente contesa tra laidi ed equivoci personaggi, sui quali ricadono i sospetti della sparizione. Questa è l'ultima opera di Charles Dickens, che morì prima di riuscire a terminarla.-
LinguaItaliano
Data di uscita4 ago 2020
ISBN9788726569100
Il mistero di Edwin Drood
Autore

Charles Dickens

Charles Dickens (1812-1870) was an English writer and social critic. Regarded as the greatest novelist of the Victorian era, Dickens had a prolific collection of works including fifteen novels, five novellas, and hundreds of short stories and articles. The term “cliffhanger endings” was created because of his practice of ending his serial short stories with drama and suspense. Dickens’ political and social beliefs heavily shaped his literary work. He argued against capitalist beliefs, and advocated for children’s rights, education, and other social reforms. Dickens advocacy for such causes is apparent in his empathetic portrayal of lower classes in his famous works, such as The Christmas Carol and Hard Times.

Correlato a Il mistero di Edwin Drood

Ebook correlati

Narrativa letteraria per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il mistero di Edwin Drood

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il mistero di Edwin Drood - Charles Dickens

    Il mistero di Edwin Drood

    Pier Francesco Paolini

    The Mystery of Edwin Drood

    The characters and use of language in the work do not express the views of the publisher. The work is published as a historical document that describes its contemporary human perception.

    Cover image: Shutterstock

    Copyright © 1870, 2020 Charles Dickens and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788726569100

    1. e-book edition, 2020

    Format: EPUB 3.0

    All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    SAGA Egmont www.saga-books.com – a part of Egmont, www.egmont.com

    I. L'alba

    Il campanile di un’antica Cattedrale inglese? Ma come può trovarsi qui, quest’antica torre? Eppure, è la massiccia, e a lui ben nota, mole squadrata e grigia della torre campanaria d’una vecchia Cattedrale. Come può trovarsi qui? Come si spiega la presenza, fra l’occhio di chi guarda e questa torre, qui, di un’asta di ferro, aguzza e arrugginita? Chi l’avrà piantata, in questo luogo? Forse è stata eretta per ordine del Sultano, onde impalarvi una masnada di briganti turchi, a uno a uno. Sì, è così: ché si ode un suon di cembali, e passa il Sultano, con lungo corteo, diretto alla reggia. Diecimila scimitarre sfavillano al sole, e tre-volte-diecimila danzatrici spargon fiori. Seguono, poi, elefanti bianchi, dalle gualdrappe multicolori, smaglianti, e un numero infinito di dignitari e servi. Tuttavia, il campanile si staglia sullo sfondo, dove non dovrebbe trovarsi, e, ancora, nessun malcapitato si contorce infilzato sull’atroce paletto. Un momento! Non potrebbe trattarsi, invece, del fregio a mo’ di picca che sormonta, di lato, la testiera d’un vecchio letto in ferro battuto? Sarà opportuno prendere in esame con calma, nel dormiveglia, ridacchiando fra sé, questa eventualità.

    Scosso da un tremito dalla testa ai piedi, l’uomo – la cui frantumata coscienza si è, in tal modo fantasioso, testé reintegrata – si solleva sul busto, alla fine, e, sostenendo con entrambe le braccia la propria tremitante carcassa, si guarda intorno. Si trova in una stanza angusta e squallida. Dalle tendine sfilacciate filtra, da un misero cortile, la luce del primo mattino. Lui giace, vestito, di traverso a un ampio e lurido letto, il cui telaio ha ceduto sotto un peso eccessivo. Infatti, sullo stesso lettone, pure vestiti e pure di traverso, giacciono un Cinese, un Lascar – o marinaio indiano – e una donna sparuta. I primi due sono immersi nel sonno, o nel sopore, mentre la donna sta soffiando in una specie di pipa, per accenderla. Ne protegge il fornelletto con la mano ossuta, e il rosso riverbero, alle alacri soffiate, illumina un poco quel tanto che, del suo volto, si riesce a discernere alla fioca luce dell’alba.

    «Un’altra?» domanda la donna, in un querulo rauco bisbiglio. «Ne vôi ’n’altra?»

    L’uomo si guarda intorno, con una mano sulla fronte.

    «Te n’hai fumate un cinque, da quando che arrivasti a mezzanotte» séguita la donna, con voce di cronico lamento. «Pôra me, pôra me, che la testa mi dole. Questi due, qui, son venuti più dopo di te. Ah, pôra me, l’è dura, gli affari vanno male, stracchi stracchi. Di Cinesi ce n’è pochi, giù al porto, e di Làscari anche di meno, e navi non n’arriva, di ’sti giorni, dice loro. Eccone ’n’altra, per te, cocco, accesa e tutto. Tieni conto, cocchino, sii bravo, che il prezzo di ’sta roba oggi l’è caro, sul mercato, l’è assai caro. Più chenné tre scellini e sei penni, per ’na pipata. E tieni pure presente che nissuno, all’infori di me… e all’infori di Jack il Cinese, qui d’arimpetto… ma lui è meno bravo chenné me… nissuno conosce il segreto della bona miscela. Mi pagherai conforme, vero, cocco, ver’o no?»

    Dà tirate alla pipa, mentre parla, e così ne approfitta per inalarne parte del contenuto.

    «Ohimè, ohimè, ci ho i polmoni tutti fradici, un macello. È quasi pronta, la pipetta, cocco. Ah, pôra me, pôra me, che la mano mi trema che quasi mi casca. T’ho visto che ti stavi per svegliare, e allora, pôra me, mi sono detta: Gli ne preparo ’n’altra, mo, per lui, e lui terrà conto del prezzo dell’oppio, oggigiorno, sulla piazza, e mi pagherà conforme mi son detta. Oh la pôra testa mia! Io le faccio, le pipe, come vedi, con dei vecchi calamai da ’n penni l’uno – questa è una – e ci infilzo sù ’n cannello – ecco così – e la prendo, la miscela, da ’sta boccetta, con ’sto cucchiarino di osso… e la carico, cocco. Ah, i mi pôri nervi! Per sedici anni ho durato, a imbriacarmi dura, prima di passare a questo. Ma questo qui però non mi fa male. E manda via la fame, pure, oltr’a tutto, cocco caro.»

    Gli porge la pipa, che ha già quasi svuotata, e si ributta giù, bocconi.

    L’uomo si alza in piedi barcollando, depone la pipa sul focolare, scosta la logora tenda e guarda, con repugnanza, i suoi tre compagni di letto. Nota che la donna, a furia di fumar oppio, s’è ridotta a somigliare al suo vicino: il Cinese. Ne ha gli stessi occhi obliqui, gli stessi zigomi sporgenti, le stesse gote scavate. Dal canto suo, il Cinese sta lottando convulsamente contro i suoi dèi, o demoni, numerosi senz’altro, e sogghigna orribilmente. Il Lascar ridacchia e sbava dalla bocca. La padrona di casa giace immota.

    Che razza di visioni avrà costei? si domanda fra sé l’uomo sveglio. Le rigira a sé il viso e, chinandosi, lo scruta. Visioni di botteghe ben fornite, spacci di carne, bettole… dove le fanno credito abbondante? O sogna che le aumentino i clienti, che questo orrendo letto si raddrizzi, e quell’orrendo cortile ritorni pulito? A quali altezze potrebbe mai levarsi, maggiori di queste, la sua fantasia, pur sotto l’effetto dell’oppio!… Eh?

    Porge l’orecchio, chinandosi, per distinguere i borbotta della donna.

    Incomprensibile!

    Mentre osserva le smorfie spasmodiche che le contraggono il viso, e i sussulti delle membra, come lampi che squarciano a tratti un cielo cupo, sembra esserne in qualche modo contagiato: gli tocca infatti arretrare e accasciarsi su una poltroncina che sta accanto al focolare – pòstavi, forse, per siffatte occorrenze – e tenersi stretto ai braccioli, finché la fitta non gli è passata.

    Poi ritorna accanto al letto, agguanta il Cinese per il collo, con entrambe le mani, e lo ribalta rudemente, supino.

    Il Cinese afferra quelle mani aggressive, si dimena, sussulta, protesta.

    «Cosa dici?»

    E tende le orecchie.

    «Incomprensibile!»

    Allenta pian piano la stretta, mentre ascolta quelle voci incoerenti, quei farfugli, aggrottando la fronte, poi si rivolge al Lascar e lo scuote, lo scrolla, e quasi lo fa ruzzolare dal letto. L’Indiano si raddrizza a metà, guarda intorno con occhi di fuoco, agita bellicoso le braccia, e fa per estrarre un pugnale. Ma impugna soltanto un pugnale fantasma. È chiaro che la donna gliel’ha tolto, per prudenza; ché, quand’ella balza su a sua volta, per invitarlo alla calma, quel pugnale è visibile, fra le sue vesti; ma poi entrambi crollano giù, di nuovo, assopiti, a fianco a fianco.

    Hanno cianciato fra loro, e si sono dibattuti, ma inutilmente. Le parole che sono uscite dalla loro strozza non avevano alcun senso, alcuna logica. Perciò l’uomo desto ripete il suo commento: «Incomprensibile!» e poi lo ripete ancora, annuendo col capo, come rassicurato, con un fosco sorrisetto. Quindi depone alcune monete sul tavolo, trova il suo cappello, esce, scende tastoni le scale scalcinate, augura il buongiorno a un portinaio che dorme nel suo bugigattolo sotto le scale, infestato dai topi, ed esce in strada.

    Quello stesso pomeriggio. La massiccia, grigia, squadrata torre campanaria di una vecchia Cattedrale si erge dinanzi allo sguardo di un viandante stremato. Le campane suonano: è il vespro. L’uomo allunga allora il passo e diresti, dalla sua fretta, ch’egli deve, appunto, assistere alla funzione vespertina, nella grande Cattedrale. Infatti, ne varca la porta. I coristi stanno infilandosi, alla svelta, le bianche cotte, sudice, quando l’uomo piomba in mezzo a loro. E, a sua volta, s’infila una tonaca, poi s’unisce al corteo che dalla sacrestia si sta dirigendo in chiesa. Nel presbiterio, i coristi prendon posto nelle loro scranne. Un sacrista chiude il cancello di ferro che divide il presbiterio dal tempio. Poi il coro attacca una salmodia e le parole «Quando l’uomo malvagio…», modulate, si levano fra le costole degli archi e le travi del soffitto, risvegliandovi cupi rimbombi.

    II. Un decano, uno zio e un nipote

    Chiunque abbia osservato le cornacchie, questi tranquilli e clericali uccelli, avrà forse notato che esse, allorché riedono al nido all’imbrunire, volano tutte in frotta, in tranquilla ed ecclesiale compagnia, quand’ecco che, d’improvviso, due cornacchie si sbrancan dallo stormo, tornano indietro a volo per un tratto, e poi si librano indugiose; inducendo chi le guarda a immaginare che sia di qualche occulta importanza, per il branco, che quella estrosa coppia faccia finta di aver rinunciato a ogni colleganza con esso.

    Similmente, terminata la funzione vespertina nella vecchia Cattedrale dalla massiccia torre campanaria, usciti i coristi dal coro, mentre diverse persone di venerabile aspetto, non dissimili dalle cornacchie, si disperdono qua e là, ecco due di costoro tornar sui loro passi e percorrere insieme il sagrato.

    Non solo la giornata volge al termine, ma anche l’anno. Il sole basso è infuocato, epperò freddo, oltre le rovine del monastero, e la vite vergine che riveste la Cattedrale ha seminato una metà delle sue foglie rossicce sul selciato. Ha piovuto nel pomeriggio, e un brivido invernale trascorre sulle piccole polle d’acqua piovana fra le scabre e sconnesse selci, e passa fra le chiome degli olmi giganteschi, che sgrullano lacrime. Le loro foglie cadute formano un folto tappeto. Alcune di esse, con timida fretta, vanno a cercar asilo oltre la porta della Cattedrale; ma due uomini, che stanno allora uscendo, le respingono a calci; dopodiché, l’un d’essi si sofferma per richiudere a chiave la porta, mentre l’altro si allontana di furia, con uno spartito sottobraccio.

    «Era mister Jasper, quello là, vero, Tope?»

    «Sì, signor Decano.»

    «Si è trattenuto, dopo la funzione.»

    «Sì, signor Decano. Così mi sono trattenuto anch’io, per via di lui. Si era inteso poco bene.»

    «Non inteso, Tope: sentito, quando parli col Decano» interloquisce la cornacchia più giovane, a bassa voce, per correggere lo scaccino, quasi a dirgli: Puoi anche parlare scorrettamente con i laici, Tope, o anche con il basso clero, Tope, ma non già con il Decano!.

    Mister Tope, sacrestano e occasionale cicerone, abituato a farsi assai valere con le varie comitive di gitanti, si rifiuta, con silente alterigia, di prender atto della reprimenda.

    «E quando, e come, si è sentito poco bene… sì, ha ragione mister Crisparkle, è meglio dir sentito anziché inteso, in questo caso, quando e come» ripete il Decano «mister Jasper si è sentito…»

    «Sentito, signore» borbotta, deferente, il Sacrestano.

    «…Poco bene, eh, Tope?»

    «Ecco, signore, mister Jasper già ci aveva un po’ di tiro…»

    «Eh no, non direi tiro, caro Tope» interviene di nuovo mister Crisparkle, col medesimo tono di prima. «Non bisogna parlare in dialetto… col Decano.»

    «Meglio dire che era un po’ trafelato, dunque» suggerisce il Decano, con una certa qual condiscendenza (lusingato dall’indiretto omaggio).

    «Insomma, mister Jasper già ci aveva un certo affanno,» – in tal modo, accortamente, Tope evita lo scoglio – «quand’è arrivato in chiesa, tantevvero che m’è parso che facesse parecchia fatica a connettere. E difatti più tardi gli è presa una specie di manchezza. Voglio dire, gli è venuta una specie di amnesia.» Lo scaccino guarda fisso il reverendo Crisparkle, nello sparare questa parola, quasi a sfidarlo a coglierlo in castagna. «Sembrava che avesse la mente annebbiata, e che gli girasse la testa. Insomma, aveva un’aria molto strana. Ma lui non pareva badarci però, e non dargli tanto peso. Comunque, con un po’ di riposo e un po’ d’acqua, gli è passata, l’amnesia.» Lo scaccino ripete con enfasi questa parola, come a dire: M’è andata bene, allora ci rifaccio!.

    «Sicché, si è ristabilito?» domanda il Decano.

    «Sì, Reverendo, mister Jasper si era già ristabilito, prima di andar a casa. E vedo che ora ha bell’e acceso il fuoco. Meno male! Ché la serata è fredda assai, dopo ’sta pioggia. E c’era una tal umidità, stasera, in chiesa! E lui aveva indosso certi brividi!»

    Seguendo lo sguardo del Sacrestano, gli altri due si sono voltati a guardare una casa di rimpetto al sagrato. È una vecchia casa in muratura, che sovrasta l’arcata di una porta cocchiera. Attraverso le finestre dai vetri piombati, si scorge il riverbero delle fiamme d’un caminetto, mentre la scena all’esterno si incupisce e si addensano le ombre dei rampicanti che rivestono l’edificio. Allorché la campana della Cattedrale batte, cupa, le ore, una lieve folata di vento agita quella verzura, sì che sembra che a scuoterla sia l’onda di quel bronzeo suono solenne che rintocca sulle torri e sulle tombe, sulle statue smozzicate e sui ruderi dell’attiguo edificio.

    «È arrivato, il nipote di Jasper?» domanda il Decano.

    «No, sir, non ancora,» risponde il sacrista «ma lo si attende. C’è solo lui in casa. Si intravede la sua ombra solitaria. Ecco, ora sta tirando le tende alle finestre: quella che affaccia in qua e quella che dà sulla Via Maestra, dall’altra parte.»

    «Bene, bene,» dice il Decano, accingendosi con fare brioso a por fine a quel breve colloquio, «spero che mister Jasper non sia troppo attaccato a suo nipote. I nostri affetti, per quanto lodevoli, in questo nostro transitorio mondo, non dovrebbero mai far da padroni; dovremmo esser noi a guidarli, sì, a guidarli. Oh, ma sento la mia campanella che mi invita, certo non disgradita, a cena; bene, bene. Magari, mister Crisparkle, fareste bene, rincasando, a far una capatina da Jasper, che dite?»

    «Certamente, signor Decano. E gli dirò che voi avete la bontà di interessarvi al suo stato di salute.»

    «Sì, senz’altro. Ditegli che il suo stato di salute mi sta a cuore. Senza meno. Mi sta a cuore sapere come sta.» Con garbata aria di condiscendenza, il Decano inclina il suo buffo antiquato cappello quel tanto che conviensi a un Decano di buon umore, e dirige il passo – con molto decoro – verso la vecchia, comoda casa in mattoni rossi, ov’egli attualmente risiede e dove, nella rubizza saletta da pranzo, l’attendono la moglie e la figlia.

    Mister Crisparkle, Canonico Minore, biondo e roseo, e propenso a tuffarsi a capofitto in ogni acqua turbinosa del circondario; mister Crisparkle, Canonico Minore, mattiniero, amante della musica, dei classici, allegro, gentile, di buona indole, socievole, soddisfatto di sé, un po’ fanciullesco; mister Crisparkle, Minor Canonico e brav’uomo, già pedagogo presso miscredenti e poi elevato da un patrono (riconoscente per un figlio da lui ben istruito) all’attuale cristiano rango; mister Crisparkle dunque si sofferma a casa di Jasper, prima di far ritorno alla propria dimora.

    «Ho saputo da Tope che vi siete sentito poco bene, Jasper, e me ne dispiace.»

    «Oh, una cosa da nulla, da nulla.»

    «Avete l’aria un tantino sciupata.»

    «Davvero? Oh no, non credo. Eppoi, quel che più conta, non mi sento affatto giù di tono. Il Tope ha esagerato, mi sa tanto. È suo mestiere, del resto, dar risalto a tutto ciò che concerne la Cattedrale, sapete.»

    «Posso riferire al Decano – mi ha mandato giusto lui – che vi siete ristabilito?»

    La risposta, con un sorrisetto, è: «Certamente; con i miei ossequi e ringraziamenti al Decano».

    «Ho saputo – e mi rallegra – che attendete il giovane Drood.»

    «Sì, da un momento all’altro. Quel caro ragazzo!»

    «Ah! Vi farà più bene lui chenné un medico, Jasper.»

    «Più chenné una dozzina di medici, diciamo. Poiché a lui voglio un gran bene, mentre non amo né i dottori né le medicine.»

    Jasper è un uomo bruno, di circa ventisei anni, dai folti capelli neri, lucenti, ben pettinati, e dai baffi pur folti. Sembra più vecchio della sua età, come càpita a tanti uomini bruni. La sua voce è profonda e gradevole, ha gradevoli il viso e la persona, le maniere un po’ meste. Mesta è pure la sua stanza, e può aver influito sul suo temperamento. È piuttosto buia. Anche quando il sole splende, i suoi raggi non giungono quasi mai fino al pianoforte a coda, in un canto, fino agli spartiti sul leggio, agli scaffali di libri, o al ritratto non finito di una fanciulla in fiore, appeso sopra il caminetto. La fanciulla ivi effigiata ha i fluenti capelli castani raccolti in un fiocco azzurro, e la sua beltà è notevole, nonostante un infantil tocco di vivace impertinenza, spiritosamente conscia di sé. (Non ha, quel ritratto, verun merito artistico: è una semplice crosta; ma è chiaro che il pittore lo ha reso, argutamente – e potrebbe quasi dirsi vendicativamente – assai somigliante al modello.)

    «Sentiremo la vostra mancanza, Jasper, stasera, ai nostri Mercoldì Musicali, ma, certo, è meglio che stiate riguardato. Buonanotte. E che dio vi benedica! Dite, diiiite, pastori, diiiitemi, avete visto visto visto la mia Floooooora, visto la mia Flora pa-a-aassar per di qua?» In tal melodiosa maniera il Canonico Minore reverendo Septimus Crisparkle prende congedo dal Maestro del Coro, con amabil sembiante e, varcata la soglia, discende le scale.

    Si odon quindi accenti di riconoscimento e di saluto, fra il reverendo Septimus e qualcun altro, appiè delle scale. Jasper tende l’orecchio, si alza dalla poltrona, muove incontro al giovinotto sopraggiunto e, abbracciandolo, esclama:

    «Mio carissimo Edwin!»

    «Caro Jack! Che piacere rivederti!»

    «Togliti il cappotto, ragazzo, e siediti là, nel tuo angolo. Hai piedi bagnati? Togliti le scarpe. Su, togliti le scarpe.»

    «Caro Jack, ma sono asciutto come un osso. Non asfissiarmi di premure, ti prego. Non mi piace venir coccolato.»

    Jasper ci rimane male, a vedere così rintuzzato, antipaticamente, un suo gioviale slancio d’entusiasmo. Resta immoto e guarda attento il giovanotto sbarazzarsi di soprabito, cappello, guanti e così via. Sia detto una volta per tutte: c’è sempre un’espressione intenta e intensa – un nonsoché di famelico, esigente, un affetto guardingo eppure devoto – adesso e sempre in seguito – sul volto di Jasper allorché Jasper guarda suo nipote Edwin Drood. E quand’egli lo guarda, la sua attenzione non è mai, né adesso né in altre occasioni, mai distratta, mai divisa, ma sempre concentrata.

    «Ecco, adesso sono a posto, Jack, ora andrò nel mio angoletto. C’è niente da cena?»

    Jasper apre una porta che immette in una sala interna, più piccola, gradevolmente illuminata, ove una donna sta apparecchiando la tavola.

    «Ma che bravo, il vecchio Jack!» esclama il giovinetto, battendo le mani. «Dimmi, Jack, di chi è il compleanno quest’oggi?»

    «Non il tuo, questo lo so» risponde mister Jasper, dopo essersi soffermato a riflettere.

    «Non il mio, questo lo sai. E lo so anch’io. È il compleanno di Pussy, oggi!»

    Lo sguardo che il giovane incontra è fisso su di lui, eppure, eppure esso ha il potere di abbracciare, al tempo stesso, anche il ritratto appeso sopra il caminetto.

    «È la festa di Pussy, oggi, Jack! Dobbiamo brindare alla sua salute. Suvvia, zio! accompagna a cena il tuo devoto e affamato nipotino.»

    Il ragazzo (poco più di un ragazzo egli è) gli posa una mano sulla spalla e, allora, Jasper mette allegramente, cordialmente, una mano sulla spalla di lui, e così, come al suono d’una marsigliese, vanno a tavola.

    «Ohilà! ecco la signora Tope!» esclama il ragazzo. «Più bella che mai!»

    «Non datevi pena per me, master Edwin,» ribatte la moglie del Sacrestano, «so badare a me stessa.»

    «Non è vero! Siete troppo leggiadra. Orsù, datemi un bacio, ch’è la festa di Pussy.»

    «Te la darei io, la Pussy, giovinotto, se fossi Pussy, come tu la chiami!¹» ribatte, arrossendo, la signora Tope. «Tuo zio ti vuole troppo bene, ecco quanto. Ti vizia, te le dà tutte vinte, e tu credi che ti basta far un fischio perché corrano a frotte da te, le tue Pussy, mi sa tanto.»

    «Dimenticate, signora Tope,» interloquisce Jasper, prendendo posto a tavola, con un giovial sorriso, «e anche tu, Ned, dimentichi, che qui zio e nipote son parole proibite, di comun accordo e per espresso consenso. Per il cibo che adesso prenderemo, sia il Suo santo nome lodato!»

    «Bravo. Degno del Decano. Te lo attesta Edwin Drood. Per favore, taglia tu la carne, Jack, ch’io non so fare.»

    Queste scherzose battute preludono alla cena. E ben poche cose qui rilevanti, o rilevanti ad alcun fine, vengono dette nel corso di essa. Alla fine, sparecchiata la tavola, vengon imbanditi un vassoio di noci ed una caraffa di vin di porto, dal bel colore ambrato.

    «Accipicchia! Dimmi, Jack,» riprende a un certo punto il giovinotto, «sei davvero convinto che a menzionar la nostra parentela ci si senta, io e te, più distanti? Io, per me, non credo!»

    «Di solito, Ned, gli zii sono molto più vecchi dei nipoti,» è la risposta «sicché io codesta sensazione di distacco, ecco, ce l’ho istintiva.»

    «Di solito, eh sì, può darsi. Ma che differenza d’età vuoi che sia mai, una dozzina d’anni. D’altronde, in certe famiglie numerose, ci son anche zii più giovani dei loro nipoti. Perbacco, vorrei che fosse questo, il nostro caso.»

    «Perché?»

    «Perché, se fossi più grande di te, Jack, sarei io a guidarti; e, t’assicuro, sarei saggio come… Saggio come l’uggioso Premura, che fa i giovani ingrigire ed i vecchi incitnillire! – Un momento, Jack! Non bere.»

    «Perché no?»

    «Come sarebbe a dire! È la festa di Pussy e tu berresti senza aver brindato a lei? Cento di questi giorni, Jack, a Pussy.»

    Jasper sfiora, sorridendo affettuoso, il bicchiere che il ragazzo porge, quindi beve in silenzio.

    «Hip, hip, hip, hurrà! Nove volte nove urrà, più un’altra volta ancora. Urrà! Urrà! Urrà! – E adesso, Jack, discorriamo un po’ di Pussy. Ah, ci sono ben due schiaccianoci. Passamene uno, vah! Grazie.» Crac. «Come va la mia Pussy, Jack?»

    «In musica? Discretamente.»

    «Tu sei tremendamente esigente, Jack. Lo so, lo so, che Dio ti benedica. È un’allieva disattenta, eh?»

    «Quando vuole, impara tutto.»

    «Eh, già: quando ne ha voglia. Ma quando non le va?»

    Crac! per tutta risposta da parte di Jasper.

    «Come la trovi, Jack?»

    Lo sguardo assorto di John Jasper include di nuovo anche il ritratto, mentr’egli risponde: «Molto somigliante, invero, al tuo dipinto».

    «Ne sono fiero, a dir la verità» dice il giovane, voltandosi a guardare il ritratto, con compiacimento. Poi, chiudendo un occhio, e cercando una diversa prospettiva, al di sopra dello schiaccianoci che ha in mano: «Niente male, per esser stato eseguito a memoria. Ma non ho dovuto tanto faticare, a coglier quella sua espressione, poiché gliel’ho vista in faccia tante volte!».

    Crac! da parte di Edwin Drood.

    Crac! da parte di mister Jasper.

    «Fatto sta» riprende il primo, dopo aver pescato in silenzio fra i frammenti di noce, con aria un tantino risentita, «che Pussy ha sempre quell’espressione lì, sul viso, quando vado a trovarla. O, se anche non la trovo così, così la lascio. – Sì, sì, lo sai bene anche tu ch’è così,» soggiunge, agitando lo schiaccianoci in direzione del ritratto, «cara la mia signorina Scontrosa Impertinente. Buh!»

    Crac! crac! crac! lentamente, da parte di Jasper.

    Crac! con rabbia, da parte di Edwin Drood.

    Silenzio da ambo le parti.

    «Hai perduto la lingua, Jack?»

    «Hai ritrovato la tua, Ned?»

    «No, sul serio. Dopotutto, è… non è…»

    Mister Jasper solleva le nere sopracciglia interrogativamente.

    «Non è piacevole, dico, esser tagliati fuori da ogni decisione, riguardo a una cosa così. Voglio dire: non poter scegliere. Bada, Jack! Te l’assicuro: se potessi scegliere, sceglierei Pussy, fra tutte le ragazze di questo mondo.» «Però non ti è lasciata alcuna scelta.»

    «È ben di questo che mi lagno, Jack. Il mio defunto signor padre e il defunto signor padre della Pussy han deciso tutto loro, in anticipo: e ci han destinati l’uno all’altra. Perché d… stavo per dire diavolo, se non fosse irrispettoso alla loro memoria… perché non potevano lasciarci liberi?»

    «Calma, calma, caro ragazzo» dice Jasper, in tono di lieve rimprovero.

    «Calma? calma? Sì, Jack, si addice a te. Tu puoi prender la cosa con calma. Non è infatti la tua vita a venir riportata in scala sur un foglio, con trattini e puntini, come il progetto di un geometra! Non sei tu ad avere l’inquietante sospetto di venir imposto a una fidanzata, né costei ha l’inquietante sospetto di venir imposta a te. Tu sei libero di scegliere, tu. La tua vita è, per te, come un frutto che tu puoi spiccare a tua posta dal ramo. Non è stata già bell’e colta per te e…»

    «Continua, caro.»

    «Ho forse urtato i tuoi sentimenti?»

    «Cosa ti salta in mente!»

    «Ti vedessi in faccia, Jack. Sembri terribilmente malato. Ti si è annebbiato lo sguardo.»

    Con un sorriso sforzato, mister Jasper allunga una mano, come per disarmare l’apprensione dell’altro e al tempo stesso guadagnar tempo per riprendersi. Dopo un po’ dice, fievolmente:

    «Ho dovuto prendere dell’oppio, a causa di un dolore – lancinante – che certi giorni mi tormenta. Gli effetti di codesta medicina mi assalgono a volte, di furto, mi avviluppano come una nube… Ma poi passa. Mi sta appunto passando, ora. E fra poco non sarà già più nulla. Non guardarmi. Il malessere mi passa più tosto.»

    Con faccia spaventata, il giovane obbedisce e china lo sguardo sulle ceneri del caminetto. Senza smettere di fissare il fuoco, aggrappandosi saldamente ai braccioli della poltrona – quasi che la vista delle fiamme gli infonda vigore – Jasper resta irrigidito per un po’, poi, con la fronte imperlata di grosse gocce, con il fiato alquanto aspro ed affannoso, ritorna a rilassarsi. Il nipote attende, gentilmente, che si riprenda. Quando Jasper è tornato qual era, posa una mano sulla spalla del nipote, con tenerezza, e, in un tono di voce meno turbato di quanto le parole non comporterebbero – anzi, con un certo qual piglio di beffa o di celia – gli dice così:

    «Si dice che v’è, in ogni casa, uno scheletro nascosto; però tu pensavi che non ve ne fosse alcuno nella mia, caro Ned.»

    «Proprio così, Jack, te lo giuro. Però, se penso che persino in casa di Pussy – se ne avesse una – e in casa mia – se ne avessi una…»

    «Stavi per dire (senonché ti ho interrotto mio malgrado) che la mia è una vita tranquilla. Né tumulti né turbini, intorno a me, né calcoli o commerci che distraggono, nessun rischio, nessun mutamento di luogo, sicché posso dedicarmi interamente alla mia arte, agli affari e ai piaceri.» «Stavo appunto per dire qualcosa del genere, sì. Ma vedi, tu, Jack, parlando di te stesso, quasi inevitabilmente lasci fuori molte cose che io invece tirerei dentro. Per esempio: metterei in primo piano che tu godi di un alto rispetto come Maestro del Coro – o precentore laico, come credo che si dica, alla latina – presso questa Cattedrale; che hai fama di aver fatto miracoli, con questo coro; che sei in grado di sceglierti le compagnie che preferisci, e serbarti indipendente da tutti, in questa strana vecchia cittadina; che hai il dono dell’insegnamento (persino Pussy, che non ama affatto studiare, dice che non c’è nessun Maestro come te!) e che hai molte buone conoscenze.»

    «Sì. Lo sapevo dove volevi arrivare. Io detesto, però, questa vita.»

    «La detesti, Jack?» (assai stupito).

    «La detesto. La monotonia di questa esistenza mi stritola le fibre ad una ad una. Come ti sembrano, le nostre funzioni liturgiche?»

    «Magnifiche! Veramente celestiali.»

    «A me a volte sembrano assolutamente diaboliche. Ne sono così stufo! L’eco della mia voce, sotto le arcate, sembra farsi beffe di me, e delle pene che mi do, quotidianamente. Nessun disgraziato monaco, che trascinò prima di me la vita, salmodiando, in quel luogo teterrimo, Ned, poté mai esserne più stanco e stufo di me. Lui almeno poteva trovare sollievo (e lo trovava) nell’intagliar demonii sulle spalliere dei sedili, sulle panche, su tavoli e stalli… Ma io? Dovrei mettermi a scolpirli sul mio cuore?»

    «Io credevo veramente che tu, Jack, ti fossi scavato la nicchia adatta a te, nella vita» ribatte, stupito e sgomento, Edwin Drood, e, sporgendosi, posa una mano, consolatorio, sul ginocchio di Jasper, e lo guarda con aria ansiosa.

    «Lo so, che lo credevi. È quello che credono tutti.» «Oh, certo, sfido io» dice Edwin, meditando ad alta voce. «Anche Pussy la pensa così.»

    «Quand’è che te lo disse?»

    «L’ultima volta che fui qui. Ricorderai quando. Tre mesi fa.»

    «Come si espresse, esattamente?»

    «Oh, disse soltanto che era diventata tua allieva e che tu eri tagliato per la tua vocazione.»

    Il giovane lancia un’occhiata al ritratto. L’anziano lo guarda dubbioso.

    «Comunque, caro Ned,» riprende Jasper, scrollando la testa con grave allegria, «devo pur sottostare alla mia vocazione. Il che, da fuori, è la stessa cosa. Troppo tardi, ormai, per cambiare mestiere. Resti, questo, fra noi.»

    «Lo terrò come un sacro segreto, Jack.»

    «Te l’ho confidato perché…»

    «Sta’ tranquillo. Lo so. Perché siamo intimi amici. E perché mi vuoi bene e ti fidi di me. Anch’io ti voglio bene e mi fido di te. Qua le mani, Jack.»

    Si alzano in piedi e, guardandosi negli occhi, si prendono le mani nelle mani. Poi lo zio, stringendole forte al nipote, soggiunge:

    «Ora sai, nevvero, che persino un povero corista e strimpellatore, schiavo della monotonia, nella sua nicchia, può essere turbato da qualche randagia ambizione, aspirazione, irrequietezza, insoddisfazione… o come vogliamo chiamarla?»

    «Sì, caro Jack.»

    «E te ne ricorderai?»

    «Ti chiedo a mia volta, caro Jack: potrei forse dimenticare quel che mi hai detto con tanta sincerità?»

    «Prendilo come un ammonimento, allora.»

    Nell’atto di sciogliersi dalla stretta delle mani e di arretrare di un passo, Edwin ristà un istante per riflettere su quelle parole. Passato l’istante, egli dice, chiaramente commosso:

    «Temo di essere un individuo molto superficiale, Jack, e il mio cervello non è dei migliori. Non occorre che dica però che son giovane; e forse non peggiorerò, invecchiando. Ad ogni modo, spero di avere un animo sensibile, che sente – sente assai profondamente – il disinteresse con cui hai, dolorosamente, messo a nudo il tuo cuore, per dare un ammonimento a me.»

    In Jasper, la fissità del volto e della figura si fa tanto mirabile ch’egli sembra aver smesso di respirare.

    «Non ho potuto a meno di notare, Jack, che ti è costato un duro sforzo, e che eri assai commosso, fuor del tuo solito. Sì, certo, sapevo che mi vuoi molto bene, ma, veramente, non ero preparato a… come dire?… a che tu ti sacrificassi per me in tal maniera.»

    John Jasper, tornato a esser uomo che respira, senza il minimo stadio intermedio fra quei due stati estremi, si stringe nelle spalle, ride, e agita una mano per diniego.

    «No, Jack, non sottovalutare i sentimenti e non sopravvalutarli, te ne prego; ora ti parlo molto sul serio. Non ho dubbi che quel morboso stato mentale, che tu hai sì efficacemente descritto, si accompagna ad una qualche reale sofferenza, ed è arduo a sopportarsi. Ma lascia che ti rassicuri, Jack, quanto all’eventualità che a me càpiti qualcosa del genere. Non credo di essere su questa via. Fra un anno, anzi meno di un anno, io preleverò Pussy dalla scuola e ne farò la moglie di Edwin Drood. Andrò quindi in Oriente, a far l’ingegnere, e Pussy verrà con me. Adesso, è vero, ci càpita di bisticciare, ma le nostre piccole baruffe nascono da una certa insulsaggine – che è inevitabile, in un fidanzamento come il nostro – per il fatto stesso che la sua finalità fu fissata in anticipo da altri; ma sono convinto, nonostante tutto, che andremo perfettamente d’accordo, dopo le nozze, quando il fatto sarà compiuto, e non ci saranno più alternative. Insomma, Jack, per rifarmi alla vecchia canzone che citai, liberamente, a cena (e chi conosce le vecchie canzoni meglio di te?), mia moglie danzerà, e io canterò, e liete passeranno le giornate. Che Pussy sia bella, è fuor d’ogni dubbio… E quando sarai anche buona, piccola signorina Dispettosa,» soggiunge, apostrofando il ritratto, «brucerò questa tua comica effigie, e ne dipingerò un’altra, per il tuo maestro di musica.»

    Mister Jasper, il mento sulla mano e con una espressione di meditabonda benevolenza in volto, ha seguito con la massima attenzione ogni gesto, ogni vivace sguardo che han accompagnato quella piccola concione. Terminata la quale, resta ancora in quello stesso atteggiamento, come in preda a una sorta di incantesimo, inerente al profondo interesse ch’egli nutre per lo spirito di quel giovane cui vuol tanto bene. Quindi, con un pacato sorriso, dice:

    «Non accetti dunque il monito?»

    «No, Jack.»

    «Non ti si può metter in guardia, dunque?»

    «No, Jack. Tu non puoi. A parte il fatto che non mi considero in pericolo, veramente, non mi piace che tu assuma un tale atteggiamento.»

    «Vogliamo uscire a far due passi intorno al camposanto?»

    «Volentieri. Non ti dispiace se faccio un salto, prima, un momento, alla Casa delle Suore, per lasciare un pacchetto? Alcune paia di guanti per Pussy. Tante, quanti gli anni che oggi compie. Piuttosto poetico, eh, Jack?»

    Mister Jasper, ch’è rimasto nella stessa posizione, mormora: «Nulla è altrettanto dolce nella vita, Ned!».

    «Ecco qua il pacchetto. Bisogna che glielo porti oggi stesso, il regalo, altrimenti addio poesia. È contro il regolamento, una visita a quest’ora, al collegio, ma le lascerò il pacchetto in portineria. Sono pronto, Jack!»

    Mister Jasper si scioglie dal suo atteggiamento, ed essi escono insieme.

    III. La Casa delle Suore

    Per buoni motivi, che appariranno evidenti nel corso di questa narrazione, un nome fittizio dev’essere imposto alla vecchia città di provincia ove i presenti fatti si svolgono. Si chiami dunque, su queste pagine, Cloisterham. Fu forse nota ai Druidi sotto altro nome, e certo sotto un nome diverso ai Romani, e ai Sassoni sotto un altro ancora, sotto un altro ai Normanni. Un nome in più, o in meno, nel corso di tanti secoli, sarà di ben poco momento, nei suoi polverosi annali.

    Città antica, Cloisterham, e non certo dimora ideale per chi ami il mondo chiassoso. Questa è invece una città monotona e silente, cui deriva e si spande dovunque un odore terragno dalla cripta della sua Cattedrale, e dove abbondano le vestigia di monastiche tombe, al punto che i ragazzi del luogo ruzzano tra la polvere di abati e badesse, e fan torte di fango con monache e frati; mentre ogni aratore, nei campi limitrofi, presta a Arcivescovi, Vescovi e Lord Tesorieri un dì possenti quella stessa attenzione che l’Orco delle favole prestava all’ospite occasionale, e ne stritola le ossa per procurarsi il pane.

    Sonnacchiosa città, Cloisterham, i cui abitanti sembrano supporre, con incoerenza più strana che rara, che tutte le vicissitudini, tutte le novità, appartengano ormai al passato e che non ve ne saranno più in avvenire. Strana morale, da trarsi dall’antichità; eppure più vecchia di qualsiasi antichità rintracciabile. Così silenziose son le strade di Cloisterham (sebbene pronte a rimandare l’eco di ogni menomo rumore), che, d’estate, le tende dei suoi negozi non osano quasi palpitare al vento del sud; mentre i vagabondi, conciati dalle intemperie, che passan di là, affrettano un po’ il passo claudicante, per raggiungere al più presto i confini di quella oppressiva rispettabilità.

    L’impresa non è ardua, dal momento che Cloisterham si riduce a poco più chenné una stretta strada, per cui si entra e per cui si esce dall’abitato; per il resto, cortiletti e vicolini; non v’è alcun viale, o piazza, eccezion fatta per il sagrato della Cattedrale; eppoi c’è un quartiere quacchero, all’aspetto e al colore molto simile a uno di que’ cappellini delle donne quacchere, in un angolo ombroso.

    Insomma, città d’altri tempi, di un’età tramontata, è Cloisterham, con la rauca campana della sua Cattedrale, le sue rauche cornacchie che volan intorno al campanile, e le altre cornacchie, più rauche e meno distinte, che siedon negli stalli del coro, più in basso. Ruderi di antiche mura, di cappella, di canonica, convento e monastero, son venuti incongruamente a trovarsi a far parte di molte case o giardini, alla stessa maniera in cui idee antiquate e confuse sono state incorporate nella mentalità di tanti suoi abitanti. Tutte le cose, qui, appartengono al passato. Persino all’unico banco di pegni non si accettano più pegni, da chissà quanto tempo, ma si cerca soltanto di vendere, invano, l’inalienabile mercanzia mai riscattata nel corso degli anni, i cui articoli più costosi sono pallidi vecchi orologi che sembran trasudare, mollette per zucchero disargentate, tomi spaiati di opere uggiose. Le manifestazioni più frequenti e più gradevoli di vita attuale sono, a Cloisterham, quelle fornite dal regno vegetale in molti giardini e orti. Persino il piccolo, mesto e cadente teatro comunale ha il suo misero pezzo di terra, e lì va a cadere il demonio quando, da una botola del palcoscenico, precipita nelle ìnfere regioni – fra fagioli o scorzonere, a seconda della stagione dell’anno.

    Al centro di Cloisterham sorge la Casa delle Suore: un venerabile edificio in muratura, il cui nome attuale gli deriva dalla leggenda secondo cui un tempo era un convento. Sul cancello che sbarra l’accesso al vecchio cortile risplende una targa di ottone, sulla quale si legge: «Collegio per Signorine. Miss Twinkleton». La facciata è sì logora e vecchia, mentre quella targa è tanto lustra, da suggerire a qualche forestiero fantasioso la metafora di un decrepito, acciaccoso bellimbusto con un moderno monocolo incastrato nell’orbita dell’occhio guercio.

    Può darsi che le monache d’un tempo, appartenenti a una generazione più remissiva, abitualmente stessero a capo chino, per evitar di urtare contro le travi del soffitto basso, nelle varie stanze della loro Casa; può darsi che sedessero sui banchi a snocciolar i grani del rosario per la loro mortificazione, anziché farne collane per il loro adornamento; può darsi magari che alcune vennero murate vive in qualche recesso o solaio, perché avevano in corpo qualche lievito dell’alacre Natura, che da allora ha seguitato a fermentare e tener vivo il mondo; può darsi che tutto ciò interessi i fantasmi che l’infestano (se mai ve ne sono) ma non rientra affatto nei resoconti semestrali della signorina Twinkleton. Né interessano le allieve di miss Twinkleton, convittrici o esterne. La signora che insegna belle lettere al collegio, ad un tanto (o un poco) al trimestre, non annovera alcuna poesia, fra quelle della sua antologia, che tratti di siffatte vane questioni.

    Come, in alcuni casi di ebrietudine, e in altri di magnetismo animale, coesistono due stati di coscienza che mai non si scontrano, ma ciascuno dei quali segue il proprio corso, come fosse continuo anziché spezzato (quindi, se io nascondo da ubriaco il mio orologio, devo attendere d’esser di nuovo sbronzo prima di ricordare dove), così miss Twinkleton vive in due distinte fasi, due separati modi di essere. Ogni sera, non appena le signorine convittrici si sono ritirate, ecco miss Twinkleton darsi un’aggiustatina ai ricci, una ritoccatina agli occhi, e diventare una miss Twinkleton più vivace di quella che le convittrici conoscono. Ogni sera, alla stessa ora, ecco miss Twinkleton riprendere il discorso interrotto la sera avanti, riguardante un certo scandalo di Cloisterham, del quale ella non ha alcuna cognizione di giorno, e riferimenti a una certa stagione in quel di Tumbridge Wells (che miss Twinkleton in questo stadio della sua esistenza chiama briosamente «The Wells») precisamente la stagione durante la quale un certo distinto gentiluomo (compassionevolmente chiamato da miss Twinkleton, in questo stadio della sua esistenza, «lo sciocco mister Porters») le rivelò una certa passione del cuore, della quale miss Twinkleton, nella fase scolastica della sua vita, è completamente ignara.

    La compagna di miss Twinkleton, in entrambi gli stadi della sua esistenza, e ugualmente adattabile ad entrambi, è una certa signora Tisher, una deferente vedova dalla schiena debole, dal sospiro cronico, dalla voce sommessa, che cura il guardaroba delle convittrici, e dà loro ad intendere di aver conosciuto tempi migliori. Forse è questo il motivo per cui le domestiche son convinte (è un articolo di fede che si tramanda) che il defunto signor Tisher facesse il parrucchiere.

    Fra le convittrici della Casa delle Suore la prediletta è miss Rosa Bud, naturalmente chiamata Rosebud, o Bocciol di Rosa: graziosissima, graziosamente infantile e meravigliosamente capricciosa. Miss Bud desta un impacciato interesse (impacciato perché romantico) nella mente delle convittrici, perché è noto che le è stato assegnato un marito per volontà testamentaria, e, quindi, il suo tutore è tenuto ad affidarla a questo sposo prescelto non appena lei sarà maggiorenne. Nello stadio didattico della propria esistenza, miss Twinkleton stigmatizza l’aspetto romantico di questa vicenda con affettate scrollatine di capo dietro le spalle di miss Bud, e fingendo di rattristarsi per l’infelice destino della povera piccola vittima predestinata. Ma senza sortire altro effetto – può darsi che il contagio dello sciocco mister Porters abbia, a sua insaputa, svigorito il suo zelo – che quello di provocare nelle convittrici, una volta chiuse in camera, l’unanime esclamazione: «Oh, ma che razza di ipocrita è miss Twinkleton, mia cara!».

    La Casa delle Suore non è mai tanto in subbuglio come quando quel predestinato marito viene a trovare la piccola Rosebud. (Le convittrici son convinte ch’egli abbia ogni diritto di venirla a trovare, e se miss Twinkleton gli contestasse questo privilegio passerebbe per pazza e meriterebbe di venir rinchiusa.) Quando lui suona al cancello, o lo si attende, ogni giovinetta che può, con qualsiasi pretesto, affacciarsi alla finestra, si affaccia alla finestra; mentre quelle signorine che fanno esercizio di musica, perdono il ritmo; e la scolaresca di francese si distrae a tal punto che il contrassegno dell’asino passa di mano in mano tanto lesto quanto la bottiglia ad un festino conviviale nel secolo scorso.

    Il pomeriggio del giorno successivo a quello in cui zio e nipote cenarono assieme in casa di Jasper, il campanello squilla, e il consueto subbuglio ne segue.

    «Mister Edwin Drood per miss Rosa.»

    È, questo, l’annuncio della prima cameriera. Miss Twinkleton, con un’aria di esemplar malinconia, si rassegna al sacrificio, e dice: «Scendi pure, mia cara». Al che miss Bud scende, seguita da tutti gli sguardi.

    Mister Edwin Drood sta aspettando nel salotto di miss Twinkleton: una saletta graziosa, senza nulla di scolastico, a parte due mappamondi: un globo terrestre ed un globo celeste. Queste due suppellettili stanno ad indicare (a parenti e tutori) che, anche quando si ritira in seno alla sua intimità, miss Twinkleton è pronta, nel caso che il dovere la chiami, a trasformarsi in una sorta di Ebrea Errante, e vagar per terre e mari o volar negli alti cieli alla ricerca di cognizioni da impartire alle allieve.

    C’è una cameriera nuova, la quale non ha mai visto il giovin signore cui miss Rosa è promessa; e costei ne sta ora facendo conoscenza sbirciando fra i cardini della porta lasciata, a bella posta, socchiusa; poi si allontana a precipiti passi colpevoli, giù per le scale che menano in cucina, allorché una deliziosa apparizione, con la faccia coperta da

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1