Déjà-vu: Gaeta dentro e fuori le mura
Di Carcos
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I vincoli sentimentali di coppia vacillavano, due che si salutavano la mattina prima di andare al lavoro per ritrovarsi la sera e darsi la buonanotte scoprirono, in isolamento, di essere dei perfetti sconosciuti.
Le circostanze imponevano restrizioni di libertà sino ad allora sconfinate, tutto d’un tratto bisognava fare i conti con quanto ci era rimasto per continuare a vivere.
Il confinamento tra le quattro mura e il tragitto perpetuo tra il divano e il frigo faceva riflettere sul futuro e dava uno sguardo al passato che, distrattamente, ognuno di noi aveva messo da parte troppo in fretta.
Pezzi di vita emersi dalla memoria, riportati su questi fogli di carta come lati sinistro e destro di un conto in cui vengono registrati i valori da elaborare.
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Anteprima del libro
Déjà-vu - Carcos
Per cominciare
Sono nato in una casetta a dieci metri dal mare, fino a quando i metri diventarono venti a causa dei lavori di ampliamento del lungomare, nei lontani anni sessanta. Quel tratto fu costruito esattamente tra il 1956 e il 1962, demolendo i bastioni difensivi del fronte di mare e inglobando il vecchio Corso Attico. Quegli antichi e gloriosi bastioni, che avevano resistito a diciotto lunghi assedi di saraceni, guelfi e ghibellini, angioini, aragonesi, francesi e spagnoli, furono espugnati con la dinamite in un solo giorno da un risolutivo sindaco democristiano e le vecchie macerie, unitamente a quelle causate dai bombardamenti alleati della seconda guerra mondiale e dai tedeschi in ritirata, furono utilizzate per il riempimento del nuovo lungomare, che prese il nome di Giovanni Caboto, noto navigatore di origini gaetane che scoprì le coste del Nord America. Tutto quello che accadeva nel mondo, o in un orizzonte meno vasto, influiva in qualche modo negativamente su Gaeta; c’è sempre stato qualcuno che doveva espugnarla, assoggettarla, sottometterla, ricondurla alla propria sovranità.
Questo allontanamento dal mare di dieci metri, quasi traumatico, come quando si separa un neonato dalla mamma, non mi aveva privato però, fortunatamente, di assistere ogni mattina, svegliato dal primo raggio di sole, all’apertura del sipario sul Golfo di Gaeta: una cornice mozzafiato di albe magnifiche, viste dal balcone di casa, che si manifestano per quasi tutti i mesi dell’anno perché, non volendo richiamare la famosa frase chist è o’ paese do sol, che appartiene ad altri, da noi si dice che stamm dentro la zizz della vacca, per cui la collocazione geografica, la conformazione orografica, la temperatura mite, ci permettono di vivere in una sorta di paradiso terreno protetto da inverni rigidi "nel tepore del seno accogliente di una mucca". A noi indigeni scappava da ridere quando i turisti milanesi venivano a sfoggiare le loro pellicce di visone a Gaeta. Il nostro clima temperato, anche in inverno, era contro quella vanità, ci pensava la natura con le temperature mitigate dal mare a far desistere le signore dall’indossare quei capi lussuosi mentre, altrove, attivisti di organizzazioni contro le pellicce vere, dovevano manifestare accanitamente, bruciando le stole in piazza. Poi il mutamento del clima terrestre, tuttora in corso, caratterizzato in generale soprattutto dall’aumento della temperatura, diede il colpo di grazia: quelli del nord, per una sorta di rivalsa verso i meridionali, addossarono la colpa del riscaldamento globale a noi del sud perché facciamo cuocere il ragù almeno sei ore prima di servirlo in tavola.¹
A circa sette anni iniziai a esplorare gli anfratti rocciosi che costituivano la costruenda banchina frangiflutti del lungomare alla ricerca di granchi e, dove in mare si intravedevano seminascosti tra le alghe, anche polpi e seppie. Una mattina d’estate scivolai su uno scoglio ricoperto di lippo e fui inghiottito per qualche istante tutto intero sotto la superficie, naturalmente non sapevo ancora nuotare. La spinta dell’acqua mi riportò a galla per altri brevi attimi, ma poi cominciai ad annaspare e a bere, era salata. Cercai di raggiungere un appiglio invano, mi accorsi intanto che in quel momento non vi era anima viva che potesse aiutarmi e allora abbozzai una, due, forse tre bracciate e guadagnai uno scoglio su cui aggrapparmi. Fuori dall’acqua, fradicio, volgendo istintivamente lo sguardo verso le case del lungomare intervallate a tratti regolari dai vicoli, intravidi in fondo a uno di questi la sagoma imponente della chiesa della Madonna di Porto Salvo, sopra la scalinata, lei mi avrà certamente visto perché non sono sicuro di averla fatta io la terza bracciata. Non tornai a casa con i vestiti inzuppati, sapevo quali sarebbero stati i severi metodi educativi impartiti dai miei genitori, specialmente da papà. Potevo rimanere fuori di casa per l’intera giornata, non mi cercava nessuno, ma se fossi rincasato con un problema le avrei prese di santa ragione anche se avevo ragione. Girovagai fino all’ora di pranzo, finché i vestiti non si fossero ben asciugati addosso, poi rientrai.
La salsedine sulle braccia, sulle gambe, i capelli arricciati, l’abbronzatura color noce dorato erano l’esatta fotografia degli abitanti del posto, di pescatori esposti quotidianamente ai raggi del sole e alla salsedine e di contadini arsi e cosparsi dallo zolfo, che usavano dare sulle viti di uva da vino per preservarle dal fungo dell’oidio. A seguito dello scampato pericolo, fiero di aver imparato a nuotare da solo, diventai prestissimo un abile pescatore subacqueo in apnea. Il mare a pochi metri da casa era ricchissimo di pesci, appena mi immergevo mi si appalesavano ghiozzi, bavose, triglie, scorfani, pesci carabinieri, canestrelli, polpi, seppie, cozze e se con le pinne battevo i piedi a qualche centimetro dalla sabbia sul fondo nei tratti liberi dalla posidonia apparivano una miriade di prelibati tartufi. Sfilando le stecche a un vecchio ombrello, avevo ricavato un arco e delle frecce con le quali catturavo tutta quell’ abbondanza. Chiudendo con le mani entrambi i buchi contrapposti dei mattoni forati in laterizio, depositati sul fondo da qualcuno che se ne era disfatto, si potevano catturare ghiozzi, bavose o piccoli polpi, riparatisi al loro interno. Nell’arco di mezz’ora riempivo un secchio di pescato a km 0.
Sono tornato ad immergermi molti anni dopo nello stesso posto, col solo desiderio di rivivere quei tempi passati, ma con estrema delusione ho trovato un paesaggio lunare, come un lenzuolo bianco a ricoprir tavoli, sedie e credenza al riparo dalla polvere in una casa non più abitata, quasi nessuna forma di vita, anche la posidonia era sparita.
Tralascio la vita adolescenziale vissuta, che poco può interessare e di cui poco mi ricordo, mi torna in mente però un episodio che credo possa essere l’inizio del racconto.
La mia mamma era d’uso percorrere un lungo tratto di strada a piedi, da casa al cimitero, in visita ai propri cari, portandosi dietro me, primogenito di pochi anni. Accadde che in un giorno di temporale improvviso, proprio ad agosto, presso la tomba di nonna, nell’istante esatto in cui all’unisono balenarono un lampo e un tuono assordante, il braccio traverso della croce di marmo si staccò e cadde rompendosi in mille pezzi ai miei piedi. Piansi quanto il tempo della saetta, già così piccolo pensavo fosse stato un segno divino, al cimitero con mamma non andai più. Mi rimase però impresso nella memoria il ricordo del fatto accaduto, che si ripropone ogni volta che il sentimento religioso si aggira intorno alla connessione tra uomo e Dio, ma credo sia stato allora che il "già visto" ebbe inizio.
1 D. Abatantuono, dal film Compromessi Sposi.
Il Nautico
Per me, nato e cresciuto a dieci metri dal mare, la scelta non poteva che cadere sull’Istituto Tecnico Nautico Giovanni Caboto di Gaeta.
L’altro motivo era il riscatto economico che si desiderava ottenere: allora Gaeta, come il resto d’Italia, stava attraversando il boom economico e le rimesse dei marittimi gaetani in giro per il mondo andavano a rimpinguare il già cospicuo conto in banca, merito delle lungimiranti mogli che facevano fruttare i risparmi in modo oculato. Gaeta all’epoca era una delle città più ricche d’Italia come reddito pro capite.
Il sodalizio funzionava, alcuni riuscirono a comprarsi più di un appartamento, che affittavano ai militari americani della VI Flotta e alle loro famiglie che a quei tempi facevano base a Gaeta, dopo che il presidente francese Charles De Gaulle aveva deciso di interrompere i rapporti di ospitalità alle basi della Nato di stanza in Francia.
Era evidente la difficoltà monetaria di una famiglia, la mia, sei persone monoreddito sostenute dal solo stipendio striminzito del capo famiglia, che di mare non ne capiva nulla e non sapeva neanche nuotare e che per assicurare almeno gli alimenti alla sua numerosa prole dovette emigrare in Svizzera, operaio in una fabbrica di automobili. Papà lamentava sempre il trattamento che gli elvetici riservavano agli immigrati. Mi rimase impressa una frase che mi confessò di aver letto fuori un dormitorio di operai stranieri e che lo rattristò molto: «Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani». Per questo e altri motivi rientrò in Italia e trovò lavoro come operaio in una fabbrica di sanitari, la Richard Ginori, ironia della sorte da pochi anni passata nelle mani di una società svizzera, dalla quale si dimise presto a causa del lavoro usurante e del suo fisico gracilino, motivo quest’ultimo per cui già