Diario Greco: In esilio volontario nell'Egeo
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La pandemia mi ha trovato davanti al Golfo del Saronico, pochi chilometri a sud est di Atene. Mi ha chiuso in casa, come è successo a tutto il mondo. Mi ha preoccupato. Mi ha ossessionato. Mi ha fatto ingrassare. Ma mi ha anche aiutato a vedere, a scoprire, a pensare, a ritrovarmi. Così come a conoscere un paese, la Grecia, che con umiltà, determinazione e responsabilità, è riuscito a evitare il peggio. E non era scontato.
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Anteprima del libro
Diario Greco - Macri Puricelli
Basilico
Diario greco
© 2020 by All Around srl
ISBN 9788899332952
I edizione luglio 2020
Editing Sesta Luna srl
redazione@edizioniallaround.it
www.edizioniallaround.it
Macri Puricelli
Covid 19
Diario greco
In esilio volontario nell’Egeo
Introduzione
Alcuni luoghi sono prepotenti. Ti restano addosso come certi odori di cui non riesci a liberarti. Si impongono al tuo pensiero. Condannano oppure salvano costringendoti a fare delle scelte.
Così è stata per me la Grecia. Come tutti gli amori di tarda età, mi ha travolto. E negli anni più vulnerabili della mia vita ho lasciato un mare per un altro. Dall’Adriatico di Venezia, all’Egeo di Atene e delle sue isole.
La pandemia mi ha trovato davanti al Golfo del Saronico, pochi chilometri a sud est di Atene. Mi ha chiuso in casa, come è successo a tutto il mondo. Mi ha preoccupato. Ossessionato. Mi ha fatto ingrassare. Però mi ha anche aiutato a vedere, a scoprire, a pensare e a ritrovarmi. Così come a conoscere un Paese, la Grecia, che con determinazione è riuscito a evitare il peggio. E non era scontato. Con 175 decessi, 2917 casi confermati e 1374 guariti (al 1 giugno 2020), su una popolazione di 11 milioni di abitanti, il Paese è riuscito ad arginare la pandemia fin dall’inizio. Il primo caso di Covid 19 in Grecia è stato registrato il 26 febbraio. Lo stesso giorno sono stati cancellati gli eventi programmati per il Carnevale e vietati i viaggi d’istruzione all’estero. E il 10 marzo, quando il numero di casi è salito a 89, e non c’era ancora nessun morto, Atene ha cominciato a chiudere: scuole, bar, chiese, ristoranti, hotel, attività. Non ha attraversato alcuna fase di negazione
della pandemia imparando in fretta la lezione dell’Italia. La Grecia ha agito con pacatezza, sebbene abbia un disperato bisogno di produrre dopo un decennio di crisi che ha forgiato la resilienza dei suoi abitanti. L’umiltà l’ha salvata perché l’ha resa consapevole dell’estrema fragilità del proprio sistema sanitario, fiaccato e decimato dalla crisi, con poco meno di 600 posti di terapia intensiva negli ospedali, e nelle isole – dove si concentrano i turisti – solo piccoli ambulatori.
È stato un periodo faticoso ma, per i più fortunati come me, anche eccezionale. Perché ci ha fermato. Ci ha costretti a guardarci dentro. A riscoprire il piccolo mondo che abbiamo attorno a noi. A interrogarci sul dopo coronavirus. A sperare nella capacità di imparare la lezione, di smetterla di sentirci invincibili, di fermare la distruzione caparbia di questo pianeta, l’unico che abbiamo. Per questa ragione ho voluto raccogliere immagini, sogni e pensieri in un diario che mi possa servire, quando tutto, forse, sarà finito, a ricordarmi come eravamo, come ci sentivamo, cosa volevamo.
Partenza
1 marzo - Guardo il mare e non ho più risposte alle mie domande. Posso stare ore a fissare anche la laguna e il cielo senza trovare nulla che spieghi cosa stia succedendo. L’inquietudine e l’incertezza sono compagne di un viaggio che non sono più certa di voler fare. E piove. Da mesi non veniva giù una goccia. È stato un inverno limpido, assolato, asciutto. Una stagione di improbabile siccità che mi faceva sentire bene. E proprio oggi, in questa prima domenica di marzo, viene giù a catinelle.
Il ponte 7 è deserto. Il bar del traghetto greco è chiuso e la piscinetta è solo un buco azzurro senza acqua. Sedie e tavolini sono sistemati in lungo, sia sul lato sinistro sia su quello destro. Il fumaiolo della nave sta già sbuffando, manca poco alla partenza. Sono arrivata puntuale all’approdo. Una manciata di chilometri dividono il limitare della laguna, dove sono nata, alla casa dove vivo parte dell’anno, nella campagna trevigiana.
Riguardo la laguna di Venezia, grigia e calma come il cielo. Sono di nuovo qui, in partenza per la Grecia. Ma questa volta so che è diverso. Di coronavirus parlano ormai da settimane e, nonostante la valanga di notizie, non riesco a capirne la gravità. Ho sempre più netta la sensazione che qualcosa non stia andando nel verso giusto. Che quell’influenza solo un po’ più grave
ci stia tirando un tranello. Per due settimane non ho fatto altro che chiamare la compagnia di navigazione per sapere se davvero avremmo potuto partire. La risposta di Alexandros, che lavora al terminal di Venezia Fusina, è sempre stata la stessa: «Certo signora, si parte». Resto incerta, penso che sarebbe stato meglio restare in Italia ancora qualche mese. Ma l’ellenico richiamo non potevo cancellarlo dal mio cuore. E la musica rebetika , che risuona in questa nave, mi fa sentire di nuovo a casa. Sono tre anni che alterno il mio sostare: tre mesi in Italia e nove in Grecia. Non mi va di svernare lì. Preferisco godermi la stagione dei bagni e il profumo del basilico.
La prima volta che sono arrivata in Grecia per restare è stata sulla spinta di un grande dolore. Di una conseguente necessità di cambiamento. Di desiderio di voltare pagina. Di trovare, lì davanti a quel mare, quell’isola interiore che mi avrebbe permesso di tornare a vedere l’orizzonte. Di riconnettermi con la vita e ridare valore alla mia identità. Avevo seguito un impulso, e avevo fatto bene. Nulla come quel mare è riuscito a ricostruire la mia vita.
E ora sono qui, pronta a partire con Massimo, mio marito. Lui ha già legato la moto alle funi, per assecondare il beccheggio della nave e impedire che si rovesci. Non si annuncia burrasca durante il viaggio. Né mare troppo mosso. Sarà una traversata tranquilla.
Ho già svuotato la Toyota: fra bagagli, vettovaglie italiane, avanzi che avevo in frigo, computer, libri, varie amenità, non ci stava più neppure uno spillo. Non c’era posto neppure per Massimo, che è arrivato in moto. L’intero bagagliaio è riservato alle ragazze
: Vanda, boxer, di professione amica inseparabile, e le tre gatte, che viaggiano nei rispettivi trasportini. Kiki, passaporto francese ma origini campagnole, piccola, grigia e selvatica quanto basta. Ci vogliamo bene, ma lei deve avere sempre l’ultima parola. Io mi adeguo. Olga, la mia preferita, un padre norvegese e buffi peli che le sbucano dalle orecchie, bianca e nera, pelo lungo, trovata a vagare per le colline trevigiane assieme alla sorellina tutta nera. Segni particolari: buonissima, calmissima, forse autistica dice Massimo. Un po’ ci assomigliamo ma ancora non riesco a dormire 20 ore su 24 come fa lei. Anche se in ogni viaggio in nave sarei tentata di farlo. Eppoi c’è l’ arrivatella : Morbido è un nome maschile che le ho dato ma è una femmina tricolore, apparsa per caso qualche mese fa alla porta della mia cucina. Gatta non trovata, appunto, ma arrivata. Magra e affamata. Fusa rumorose. Occhi verdissimi. Abbandonata al suo destino in aperta campagna, questo è certo, visto che era già stata sterilizzata. È entrata in casa e se l’è fatta sua. Questo per lei è il primo viaggio in Grecia. Vanda, Olga e Kiki sono ormai veterane e sopportano a modo loro. Per difficoltà logistiche lascio a casa tartarughe, calopsite, cavalle e asina. Un esercito bestiale tutto declinato al femminile che nei miei mesi greci sarà in buone mani.
Ogni viaggio è quasi una transumanza dalla riva sabbiosa dell’Adriatico veneziano agli scogli dell’Egeo. E viceversa. Una transumanza complicata. Con Kiki che cerca di fuggire dalla cabina appena vede uno spiraglio, Olga che frigna per tutto il viaggio in auto, Vanda in ansia perché trova che una nave tutta di ferro e senza un prato sia un luogo insopportabile che le inibisce cacca e pipì. Morbido si vedrà.
Arriveremo a Igoumenitsa domani nel primo pomeriggio. Poi avremo ancora cinque ore di auto, via Patrasso , Corinto e Atene e arrivo a casa a Vouliagmeni, 20 chilometri a est dalla capitale, prima che faccia notte.
Uscire dal porto di Venezia è sempre un colpo al cuore, anche per una lagunare come me. Mi lascio a sinistra le peocere dove per anni, con i bambini piccoli, andavamo in barca a fare il bagno. Con l’acqua del mare che entrava dalla bocca di porto e la laguna che diventava più salata. Mille estati felici.
Mi ritrovo in Adriatico dopo che la nave ha percorso il lungo canale dei Petroli, attraversato la bocca di porto di Malamocco e salutato il faro della diga degli Alberoni. Di là delle grosse pietre, le grandi dune di sabbia. Quante discese ardite. Quante galoppate. Quanta libertà del tempo adolescente. Quanti amori irrisolti. Qui, in questo punto esatto, ho consegnato al mare l’anima di un uomo, un amico, un compagno molto amato. Era tanti anni fa. Ma è come se il tempo non fosse mai passato.
La nave lascia a nord il Lido, a sud San Piero in Volta e Pellestrina. Esce in mare aperto e aumenta la velocità. I motori ruggiscono. In poco tempo l’orizzonte resta senza confini, e solo nel cuore abita il miraggio di un’altra terra, al di là dall’acqua.
Siamo in pochi su questa nave. Qualche anziana coppia come noi, sulla via della pensione, e camionisti greci. In ogni angolo c’è un dispenser per disinfettarsi le mani. Ne approfitto e a ogni passaggio rubo qualche goccia appiccicosa da strofinare con forza. Trentatré ore passeranno in un lampo. Con Olga accoccolata sui miei piedi, Morbido nascosta sotto le coperte, Kiki che guarda fuori dall’oblò. Massimo dorme e Vanda sospira. Io resto distesa in cuccetta a leggere un libro improbabile che mi sta prendendo moltissimo: La biologia delle credenze.
Backgammon
10 marzo - Pochi giorni prima, esattamente l’8