Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Salita Gatto
Salita Gatto
Salita Gatto
E-book246 pagine3 ore

Salita Gatto

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Sfogliando le pagine di questo romanzo, è come se aprissimo una porta e facessimo un salto nel passato. Siamo nel periodo a cavallo della Seconda guerra mondiale e la vita in un piccolo paese della Sicilia scorre lenta e monotona come da sempre, poco toccata dagli eventi bellici. Il paese di pescatori si chiama Villaggio Pace, proprio lungo la costa nord della città di Messina, e qui il tempo scorre lento e monotono e quel poco che accade è fortemente regolato da usi, costumi e tradizioni che condizionano il vivere e il convivere dei suoi abitanti. Il protagonista, Giovanni, descrive quella vita attraverso le vicende della sua famiglia. I cambiamenti tuttavia arrivano, sia pure lentamente, sconvolgendo l’esistenza e le abitudini dei suoi abitanti. Giovanni ci descrive con minuzia di particolari quale era la vita prima della guerra, come è cambiata dopo e gli effetti che ha avuto sulla gioventù di allora, quella gioventù che negli anni Cinquanta si è incamminata verso il Nord, portandosi dietro solo una valigia piena di speranze e di paure. E per la generazione dei figli, e ancor più per quella dei nipoti, è difficile, se non impossibile, immaginare come si viveva allora, ma solo conoscendo il passato si può capire il presente. 
LinguaItaliano
Data di uscita18 nov 2017
ISBN9788856786477
Salita Gatto

Correlato a Salita Gatto

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Salita Gatto

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Salita Gatto - Pino Ferrara

    Kelland)

    Capitolo 1

    Il Paese

    Pace era un piccolo villaggio lungo la costa nord della città di Messina. Il toponimo è dovuto a un’antica chiesa, detta della Madonna della Pace, scomparsa da tempi remoti.

    Il villaggio si estendeva, da sud a nord, per circa cinque chilometri, quasi interamente lungo la Via Consolare Pompea, l’unica strada su cui passava il traffico locale e quello di transito verso Punta Faro (o Capo Peloro) e oltre, dove, doppiato il Capo, la strada girava bruscamente verso ovest e cioè verso i paesi di Spartà e Villafranca e continuava lungo la costa nord della Sicilia verso Palermo.

    La via Consolare Pompea era delimitata da un lato da una fila ininterrotta di case che formavano il villaggio e dall’altro lato da un marciapiede che correva lungo il mare. La strada era circa tre metri sul livello del mare e inizialmente il marciapiede era segnato con aiuole che non avevano mai visto fiori. Il tempo e l’incuria le avevano riempite di sterpaglie e poi erano scomparse del tutto. Si attraversava la strada e si era sul marciapiede protetto da niente. Lunghi tratti di spiaggia si alternavano ad altri dove il mare arrivava fin sotto il muro che sorreggeva la strada. Al largo, a circa venti metri, con grossi massi di cemento, erano state costruite delle dighe per proteggere la strada e la spiaggia dai marosi che erano abbastanza frequenti specialmente d’inverno o quando soffiava lo scirocco.

    La striscia di mare delimitata dai massi sembrava una lunga piscina che d’estate era utilizzata da quelle poche persone che facevano il bagno e d’inverno era piena di alghe che arrivavano con le mareggiate. Alghe che marcivano sulla spiaggia lasciando un forte odore di iodio insieme a un senso di scoramento e di tristezza.

    Lungo la spiaggia non c’erano stabilimenti balneari, non c’erano cabine o casotti. Non c’era proprio niente, tranne i rigagnoli puzzolenti che erano le fogne all’aperto che si riversavano in mare. A Pace allora non c’erano ancora le fogne chiuse e la gente si arrangiava come poteva. Di mattino presto si potevano vedere donne che attraversavano la strada e vuotavano il pitale sulla spiaggia. D’estate gli escrementi restavano dove erano gettati e la puzza era spesso insopportabile. D’inverno ci pensava il mare a portare via tutto, merda e odori. All’alba si potevano vedere uomini accovacciati sotto il muro di sostegno della strada, che cacavano, lasciando sul posto il segno della loro presenza.

    Chi voleva fare il bagno, non aveva bisogno di una cabina per cambiarsi e lasciare i propri indumenti. Semplicemente si cambiava in casa, attraversava la strada, stendeva un telo sulla sabbia e vi posava l’asciugamano che era l’unico oggetto necessario.

    Le donne non mettevano il costume da bagno, ma indossavano una veste intera che non lasciava vedere le gambe e tanto meno la forma del seno.

    Le ragazze non andavano in spiaggia da sole. Erano accompagnate dalle madri il cui compito era quello di sorvegliare le figlie, evitare che si esponessero, e aspettare che uscissero dall’acqua per coprirle immediatamente con l’asciugamano. Il vestito bagnato lasciava intravedere le forme del corpo e non era decoroso che la gente vedesse.

    Finito di bagnarsi, di rado si fermavano in spiaggia a prendere il sole. Subito a casa. Era meglio.

    I ragazzi non indossavano costumi da bagno: bastavano le mutande o un paio di pantaloncini.

    Usando i massi come trampolino, facevano tuffi e capriole per arrivare sul fondo e pescare gli occhi di bue, che chiamavano ricchiaini. Erano delle grosse patelle con il guscio che sembrava fatto di madreperla e stavano attaccate agli scogli.

    Pochi si avventuravano a nuotare oltre i massi perché il mare era più profondo e incuteva un certo timore. Nino Trovato lo faceva regolarmente perché non aveva alcuna paura e tutti lo invidiavano perché negli scogli oltre i massi, i ricchiaini erano più grossi e ce n’erano di più.

    Quando c’era la bassa marea, in certi punti il mare si ritirava molto ed era possibile salire sui massi senza neanche bagnarsi i piedi. Le persone anziane ne approfittavano per andare a pescare con la lenza.

    D’inverno, quando il mare era particolarmente agitato, le onde s’infrangevano con forza, quasi con rabbia, creando un bellissimo spettacolo di spruzzi e di colori. I pescatori se ne stavano a riva a guardare quello spettacolo che per loro non era bello ma nemico, perché non consentiva di uscire a pescare, talvolta per molti giorni.

    Pace era chiuso tra i paesi di Contemplazione a sud e Sant’Agata a nord ed era suddiviso in frazioni: Villa Pace, (la più vicina a Contemplazione), Porticatello, Pace, Grotta, Fortino, Vaccarelle e Fiumara Guardia (la più vicina a S. Agata). Ogni frazione era un mondo a sé e c’erano delle grosse rivalità tra gli abitanti delle varie frazioni.

    Capitolo 2

    Gli abitanti

    I Pacioti erano circa cinquemila e tra di loro esisteva una vera e propria suddivisione per ceto sociale.

    In alto stavano i signori, quelli a cui si dava del Voi durante il fascismo e del Lei dopo, quando il fascismo è caduto. Erano il sindaco, qualche capitano di marina mercantile, i due o tre proprietari terrieri, qualche avvocato.

    Seguiva il ceto medio formato da quelli che avevano un impiego statale o comunale a Messina. Questa categoria includeva anche quelli che lavoravano nei ferribotti con mansioni di responsabilità perché avevano uno stipendio più alto e i marittimi, cioè quelli che navigavano tutto l’anno, con brevi pause a casa. Le loro famiglie erano tra quelle che stavano meglio perché uno stipendio era assicurato per quasi tutto l’anno.

    Più in basso, e cioè in fondo alla scala sociale, stavano i pochi contadini e poi i pescatori che vivevano solo di pesca.

    Tra tutti, i Vaccarioti erano i più bistrattati, o i meno considerati da quelli delle altre frazioni, perché rappresentavano la parte più povera del paese. Infatti, erano quasi tutti pescatori e la loro vita dipendeva dalla pesca. Se faceva cattivo tempo per più di due giorni di seguito e le barche non potevano uscire, erano guai seri, perché nessuno portava soldi a casa e mangiare si doveva comunque. Allora erano costretti a ricorrere al credito del bottegaio, che segnava la spesa su un libretto e veniva pagato quando era possibile.

    La frazione più importante era quella denominata Pace, e chi vi abitava si sentiva socialmente più elevato rispetto agli altri.

    Questa frazione, da cui prendeva il nome tutto il paese, oltre che snodarsi lungo la Via Consolare Pompea, si estendeva verso l’interno formando un agglomerato abitativo, che poteva sembrare quasi un villaggio a sé, con qualche viuzza tra una schiera di case e di baracche e l’altra. Era importante perché vi abitavano alcune famiglie considerate l’elite del paese, ma anche perché c’era la scuola comunale (solo elementare), il cimitero, il panificio, il circolo nautico e il dopolavoro. Al circolo ci andavano i marinai, al dopolavoro – che poi era una specie di bettola – tutti gli altri.

    Al centro di tutto il paese sorgeva la chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, che aveva una lunga storia.

    Voluta dal Viceré di Sicilia Emanuele Filiberto di Savoia, cominciò a essere costruita nel 1622 dall’architetto Simone Gullì, nei pressi di un oratorio cinquecentesco dove si venerava un quadro della Madonna in una grotta. Fu completata nel 1639 ma il viceré non fece in tempo a vederla finita perché era morto nel 1624 durante un’epidemia.

    Distrutta dal terremoto del 1908, fu ricostruita sul modello originale e riaperta al culto nel 1931, con grande pompa fascista e clericale.

    Il Fortino era stato costruito nel XVI secolo su un’antica torre medievale, forse a difesa da attacchi pirateschi. Per secoli inutilizzato, era quasi totalmente in rovina quando, all’inizio dell’800, fu restaurato prima dagli inglesi e poi dai Borboni.

    Dismesso da struttura militare, erano rimasti al suo interno tre vecchi cannoni di cui nessuno si era mai curato. Fino a quando qualcuno decise che facevano parte della storia del paese e che quindi andavano valorizzati. Per questo motivo, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale erano stati rimossi dal loro sito e sistemati in uno spiazzo creato lungo la strada, con le bocche rivolte verso il mare, pronti a sparare contro un improbabile nemico. Servivano solo ai bambini per giocare alla guerra.

    Capitolo 3

    Salita Gatto

    Il villaggio era formato da una fila di case lunga quanto era lungo il paese, con alcune rientranze nelle frazioni di Porticatello, Pace e Fiumara Guardia, dove c’erano degli agglomerati abitativi. Tra Grotta e Fortino, c’era una stradina indicata come Salita Gatto. Più che una via o una strada, era una fiumara che cominciava dalla via Consolare Pompea, saliva per circa un chilometro e finiva nel fondo agricolo dei Rondello, proprietari terrieri che vivevano della rendita dei loro poderi.

    Io abitavo in Salita Gatto – a metà del paese tra Grotta e Fortino – che ha rappresentato l’intero mondo della mia infanzia e della mia giovinezza.

    Nelle interminabili serate di su e giù con i miei amici, non andavamo mai oltre la chiesa, limite sud di Grotta, o oltre il limite nord del Fortino.

    All’inizio della Salita abitavano otto famiglie oltre ai contadini che lavoravano per i Rondello e che formavano un nucleo a parte, all’interno del fondo.

    Don Taninu u scapparu faceva il calzolaio in casa e aveva una moglie, donna Masina, brutta come un cencio strizzato e alta poco più di una persona nana, che urlava sempre alle due figlie.

    Di queste due figlie, una veniva dal primo matrimonio di don Tanino, che era rimasto vedovo e si era risposato, ed era quella che la moglie sgridava di più.

    Don Tanino era anche lui piccolo di statura e - per via della sua professione - era anche un poco gobbo. Stava sempre chino sul suo banchetto di calzolaio e nulla lo distraeva da quello che faceva. Neanche le urla della moglie verso le figlie. Se avesse voluto intervenire per calmarla non avrebbe comunque potuto farlo perché donna Masina non glielo avrebbe permesso.

    Don Tanino era un essere vivente, non una persona.

    Non aveva né amici né contatti e le uniche parole che pronunciava durante la giornata erano quelle poche che scambiava con i clienti che gli portavano le scarpe da risuolare.

    Di clienti ne aveva tanti perché un qualsiasi paio di scarpe, prima di essere smesso o buttato, veniva risuolato almeno tre volte. E lui era l’unico ciabattino del paese.

    Aveva sempre la barba lunga, un ciuffo di capelli color cenere ritto sulla fronte e i calzoni che, all’altezza delle ginocchia, sembravano incerati. E forse lo erano. La cera faceva parte delle materie che usava per rendere lavorabile il filo per cucire le suole alle tomaie delle scarpe. La sua vita la trascorreva al desco e nessuno sapeva o si curava di lui.

    Aveva una sorella, donna Agostina, che viveva anche lei a Pace.

    Donna Agostina, mingherlina come il fratello, era la moglie del signor Pizzo, un omone che faceva il barbiere a domicilio.

    Il signor Pizzo sfoggiava la classica cultura del figaro da strapazzo. Parlava di cose sentite o lette, di fatti veramente accaduti o inventati, chi lo sa, e veniva considerato una persona colta o quasi.

    Tra i suoi clienti aveva il parroco, il sindaco e il fiduciario. Poi si era scoperto che era anche pedofilo perché aveva tentato violenza alla figlia grande di don Tanino, suo cognato.

    La cosa aveva fatto scalpore, ma era stata messa a tacere e la ragazzina era stata accusata di essersi inventato tutto quello che aveva raccontato perché era una sporcacciona e chissà come aveva saputo quelle cose che aveva detto. Semplicemente che u ziu le aveva fatto abbassare le mutandine, l’aveva avvicinata a sé, l’aveva toccata e le aveva dato in mano un coso grosso e molle facendogli muovere la mano avanti e indietro.

    Lui aveva negato tutto, era la sua parola contro quella di una ragazzina esaltata e pazza e quindi la ragione era stata posta dalla sua parte.

    Di donna Masina si può dire che spettegolava molto, litigava di più, picchiava le figlie e mandava avanti la casa. Non era molto ben vista a Pace perché non era Paciota, ma nessuno sapeva da che parte fosse arrivata.

    Nella faccenda della violenza alla figliastra non aveva messo bocca. La figlia non era sua e se era successo qualcosa, sicuramente era perché questa ragazzina aveva preso da sua madre. E non spiegava niente.

    Sopra il calzolaio, al primo piano, abitavano i Maggiu. Questo era il soprannome con cui venivano identificati e pochi conoscevano il loro vero cognome. Erano i Maggiu e basta.

    La loro casa – ma si trattava di un appartamento, a Pace questa parola era forse sconosciuta e nessuno abitava in un appartamento, tutti abitavano in una casa – aveva due entrate: una sulla via Consolare Pompea e una su Salita Gatto.

    Nessuno aveva mai familiarizzato con loro e avevano pochissimi contatti anche con i vicini di casa.

    Don Anselmo, il capo famiglia, faceva il muratore ed era un tipo manesco.

    Era sempre via da casa e quando rientrava il suo sport preferito era quello di picchiare la moglie e la cognata che viveva con loro. Non se ne sapeva il motivo, nessuno lo chiedeva e nessuno interveniva, ma tutti potevano sentire le urla della moglie e della cognata, che spesso per sfuggire a quelle botte scappava fuori, in strada.

    Sua moglie si chiamava Pippina – Pippina a maggiu – ed è tutto quello che si sapeva di lei.

    In un’occasione che don Anselmo era stato più violento del solito, erano arrivati i carabinieri chiamati non si sa da chi, per cercare di calmarlo. Quella volta ci erano riusciti, ma dopo, lui continuò a picchiare moglie e cognata, com’era nel suo stile.

    La cognata, Melina a maggiu, era carina, aveva i capelli molto lunghi, ricci e neri e, quando poteva, parlava della violenza del cognato, della voglia di andarsene da quella casa, anche a costo di andare a fare a buttana in un casinu. Quando Melina sparì dal paese e nessuno sapeva dove fosse andata, si erano fatte tante congetture, ma la cosa era stata presto dimenticata e di lei non si era saputo più nulla.

    I Maggiu avevano dei bambini che piangevano sempre e si potevano sentire quando si passava davanti casa loro. Ma non si vedevano mai in giro e di loro non si sapeva proprio nulla. Così come non si seppe nulla circa la destinazione di tutta la famiglia, quando una mattina fu constatato che la casa era vuota e che di loro non c’era più traccia. Neanche donna Masina a scappara era stata in grado di dire nulla, anche se lei era la vicina di casa più prossima.

    Di fronte ai Maggiu, sulla salita Gatto, abitava la signora Rosalia a Ciumara.

    Forse il suo cognome era Fiumara, ma era conosciuta solo con il soprannome e forse nessuno le aveva mai chiesto quale fosse il suo vero cognome. A che serviva? A Pace la gente s’identificava soprattutto con i soprannomi.

    La signora Rosalia faceva parte di una famiglia numerosa.

    Erano tre sorelle e due fratelli e vivevano tutti nella stessa casa, proprio in Salita Gatto.

    Quando si era sposata, doveva essere avanti negli anni e del fatto se ne era parlato molto, con pettegolezzi lunghi quanto era lungo tutto il paese. Comunque ancora in età da poter avere un figlio. Si diceva che suo marito fosse un capitano della marina mercantile, ma pochi lo avevano mai visto o conosciuto.

    Fatti pochi metri, e dalla parte opposta alla sua casa, c’era quella di suo padre don Tanino Ciumara.

    Don Tanino viveva con le altre due figlie – Maria ed Ermengarda, che tutti chiamavano Erma, e il suo nome non si era mai sentito a Pace e nessuno sapeva perché fosse stata chiamata con quel nome – e con i due figli maschi, che non si vedevano spesso perché navigavano e tornavano a Pace di tanto in tanto. Sicuramente dovevano essere degli ufficiali e si poteva dedurre dal fatto che non avevano amici e non salutavano mai nessuno. Forse i Pacioti erano troppo ignoranti o rozzi per loro che andavano in giro per il mondo.

    Don Tanino era stato anche lui capitano di lungo corso e ora era in pensione. Persona a modo, amabile e gentile con tutti, aveva un grosso paio di baffi bianchi, così come lo erano i suoi capelli ancora folti, e vestiva sempre in modo sobrio ed elegante. Portava sempre la cravatta, cosa che a Pace non faceva quasi nessuno.

    Aveva la reputazione di essere molto ricco, ma era una ricchezza non ostentata, anche se tutti in famiglia se la tiravano un poco e specialmente i due figli maschi.

    Sicuramente se la tirava la signorina Maria che non rivolgeva la parola ad alcuno e, infatti, era rimasta zitella. Non tanto Erma, che era più alla mano. Erma era la più giovane della famiglia, quella che parlava con la gente, che andava a fare la spesa, la più esposta ma anche lei zitella. Dovevano avere tra i trenta e i quaranta anni. E chi si sposava più a quell’età a Pace? Chi superava i venti, ventidue anni senza essersi accasata, era bella e andata. Zitella! L’ultima possibilità era di trasferirsi a Genova da qualche parente, in cerca di fortuna. Cioè di marito.

    Tra Pace e Genova c’era un forte legame.

    Quasi tutte le compagnie di navigazione allora avevano la loro sede a Genova. A Pace una buona parte degli uomini erano marittimi, cioè erano imbarcati e andavano per mare. Molti avevano stabilito casa a Genova cosicché interi nuclei familiari vi si erano trasferiti formando gradualmente una vera e propria comunità di Pacioti.

    Chi non aveva la fortuna di trovare marito a Pace, sperava di trovarlo a Genova, dove i tempi erano più lunghi e dove arrivavano i marittimi che non avevano tempo per cercare una moglie e quindi c’era sempre chi lo faceva per loro. Con tanto di matrimoni combinati.

    Nella mia famiglia c’erano due casi del genere e il primo riguardava una zia di mio padre.

    A Genova lei si era sposata, si era creata una buona posizione economica e possedeva una bella casa dove viveva con la figlia Mimma, con cui mio padre manteneva rapporti.

    Si tenevano in contatto scrivendosi lunghe lettere e mandandosi reciproci saluti ogni volta che qualcuno andava a Genova o tornava a Pace.

    Impossibile spiegare come loro due cugini potessero essere tanto legati visto che mio padre non era mai andato a Genova e che sua cugina era venuta a Pace pochissime volte.

    Il secondo caso riguardava mia cugina Lucia, figlia minore di mia zia Micia, sorella di mio padre.

    Lucia aveva superato i venticinque anni e a Pace non aveva trovato marito. Eppure non era brutta. Anzi era molto carina, anche se piccolina di statura.

    L’unica possibilità che le era rimasta per sposarsi era quella di andare a Genova e lei ci era andata. Qui si era fidanzata

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1