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Pallonate al muro
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E-book164 pagine2 ore

Pallonate al muro

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Info su questo ebook

È il 14 settembre 1980, ultimo giorno di spensierata vacanza a Forte dei Marmi per Niccolò, dodicenne timido e tranquillo. Al rientro a Milano, la sua vita cambierà direzione. L’autore ci dona un grande romanzo di formazione che narra la storia di un ragazzino di buona famiglia e della sua ascesa a bullo, motivata da una violenza subita, e delle bravate compiute insieme agli altri quattro drughi. Seguiamo il quintetto per un intero anno scolastico, il loro “fare cinema” a scuola, le avventure allo stadio, gli incontri alla fermata del tram, le relazioni amorose. Le canzoni citate, gli oggetti, i vestiti, le pubblicità, come anche gli eventi drammatici fanno da cassa di risonanza alle descrizioni dettagliate ed alle atmosfere vivide di quegli anni. Il romanzo non è solo mosso da un sentimento nostalgico ma si coglie lo sguardo vivace e appassionato rivolto al futuro che lo illumina di verità.

Nicola Molignini è nato nel 1968 a Milano. Laureato in Storia presso l’Università degli Studi di Milano, Facoltà di Studi Umanistici, con una tesi di carattere geografico-ambientale riguardante i corsi d’acqua milanesi, particolarmente rivolta all’evento di Expo 2015 e al progetto di riapertura dei Navigli. Vive e lavora a Milano.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2021
ISBN9788830639232
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    Anteprima del libro

    Pallonate al muro - Nicola Molignini

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    Nicola Molignini

    Pallonate al muro

    Foto di Copertina Claudio Silighini ©

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3585-2

    I edizione aprile 2021

    Finito di stampare nel mese di aprile 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Pallonate al muro

    Introduzione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: «Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere».

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi, ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei Santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo. Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre, è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’ editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi, potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Capitolo 1

    Domenica 14 settembre 1980 dopo cena, effettuate le ultime operazioni che si devono a una casa di villeggiatura dopo quasi quattro mesi di militanza estiva, il portone di legno verde si chiudeva alle loro spalle.

    Con un ultimo sguardo, Niccolò e il fratello minore Giovanni tentavano di intercettare il pattìno di famiglia, collocato in salotto al riparo dalle future intemperie invernali. Ormai solo il buio sentiero li separava dalla Opel Ascona 12, pronta sul viale carica di bagagli per il ritorno a Milano. Rimaneva l’illusione di tirare a sé il portone, sperando irrazionalmente fosse accostato, ma esso risultava inequivocabilmente serrato e, una volta gettata la spazzatura, venivano chiusi anche il cancello sul sentiero e le portiere della macchina.

    La giornata era stata lunga e vibrante.

    Al mattino il mare sembrava riprodurre il colore plumbeo del cielo, ma dopo pranzo frequenti raggi di sole bucavano i nuvoloni creando sul mare abbaglianti coni di luce.

    Considerato l’afflusso di famiglie in spiaggia il giorno precedente l’inizio della scuola, non sembrava di trovarsi a fine vacanza se non per lo strisciante velo di malinconia, che si palesava a ogni beneaugurante appuntamento per l’estate successiva. Gentilezze e cordialità non potevano nascondere la tristezza del commiato.

    «Fate un buon inverno».

    «Ci si vede l’anno prossimo».

    Pillole di saggezza venivano dispensate ai bambini in pianti per la dipartita dal mare e dagli amici.

    «Ma via, che un anno passa in fretta».

    «Il tempo di arrivare a Natale e sarà subito estate. Presto ci troveremo ancora qui, vedrai se non ho ragione».

    Il mare increspato, ma non mosso, consentiva uscite in pattìno e barca a vela o di nuotare fino al largo senza pericolo. Bastava prestare attenzione alle noie della corrente.

    Con il montare di un vento sostenuto, i windsurf si erano presi la scena; mariti, mogli e figli adolescenti, giovanotti, anziani ancora aitanti si cimentavano nello sport acquatico più in voga. Quando cadevano in acqua, la vela li seguiva adagiandosi lentamente sulle loro teste gocciolanti come un coperchio che si stesse chiudendo, sempre che l’albero non esitasse qualche istante in verticale per poi rovinare dalla parte opposta. I principianti tribolavano senza provare la soddisfazione di riuscire a sollevare l’albero dall’acqua oppure riuscendo a compiere partenze stentate dopo numerosi tentativi, i virtuosi invece sfrecciavano per lunghi tratti con la schiena in acqua, quindi si rizzavano, afferravano con una mano l’albero, lo tiravano a sé quanto bastasse a crearsi lo spazio sufficiente per passare rapidamente sull’altro lato ed eseguivano la virata che gli consentiva di far cambiare direzione al windsurf. Malgrado fingessero di non sentirsi osservati, la maggior parte di loro tradiva un inconfessabile esibizionismo.

    Le vele colorate trasfigurate dall’opaca luce del cielo spiccavano in ordine sparso sul grigiore del mare come fugaci cartoni animati sopra uno sfondo in bianco e nero; vibrando sotto il vento teso del pomeriggio settembrino univano il loro fruscio al suono metallico dei ganci contro gli alberi delle barche e al tintinnio delle corde contro i pennoni sui quali stavano issate le bandiere. Le pinne tracciavano spumeggianti scie sull’acqua. Il mare rintoccava melodioso a ogni infrangersi dell’onda contro la battigia.

    Un gruppo di ragazzi, gettata nel cestino a metà passerella la carta dei gelati appena acquistati al capanno, azzardava controluce il riconoscimento di qualche surfista al largo. Da tende e ombrelloni gli sguardi si posavano sulle estremità degli alberi, verso le scritte delle vele o su coloro i quali armavano freneticamente il proprio windsurf, vi serravano la deriva a metà scafo, stringevano in un pugno il boma e sotto al braccio opposto la prua per trascinare la tavola in mare.

    Alle cinque del pomeriggio, complice il deflusso dei villeggianti verso le proprie auto e città, veniva meno il divieto di giocare a pallone in spiaggia. Adolescenti si affrettavano a piantare in acqua i remi di un pattìno per improvvisare una porta e dilettarsi in un dentro e fuori di tuffi e pallonate; due di loro erano impegnati in una sorta di lotta greco-romana nella quale chi stava avendo la meglio si rivolgeva con tono perentorio all’avversario immobilizzato sotto al suo corpo.

    «E ora? E ora?»

    Lo sfidante non mollava, tentava di disarcionare l’amico puntando gambe e schiena al terreno mentre spingeva aiutandosi con petto e spalle.

    Loro coetanee, già vestite e pettinate, conversavano sui terrazzini delle cabine. Fasciate in magliette e strette in bermuda si scambiavano confidenze, braccialetti in cuoio di fabbricazione propria, bigliettini con indirizzi scritti a mano per restare in contatto durante l’inverno.

    All’imbrunire, dopo che il cielo coperto aveva negato al tramonto la propria apparizione, Niccolò persisteva nell’ultimo bagno. Dopo ogni tuffo usciva dall’acqua, si voltava per dare l’addio al mare, ma quando il riflusso dell’onda gli scopriva le caviglie realizzava come per nove lunghi mesi non avrebbe provato tale sensazione. Allora si ributtava in mare; a galla sdraiato sul dorso, guardava le proprie gambe abbronzate uscire dal costume blu con ai lati le bianche righe verticali. Agitato, si rimetteva in piedi per osservare le bandiere rosse e quelle bianche sulla riva, gli ombrelloni e le sdraio; sapeva che i bagnini li avrebbero rimossi la mattina successiva dando inizio ai lavori di chiusura e si domandava cosa avrebbe potuto escogitare l’anno dopo affinché l’estate non terminasse così velocemente.

    Mezz’ora più tardi partecipava al malinconico ricovero del pattìno di famiglia, trasportato dalla riva attraverso la spiaggia, il parcheggio del bagno, il viale a mare e il sentiero di casa, per posizionarlo in salotto ovvero nell’unico luogo dove l’ampiezza dell’ingresso ne consentisse il passaggio, appoggiato sopra quattro lastre di marmo, una per ogni punta.

    Quindi, sarebbero avvenute le salutazioni con gli amici dell’estate, quelli che non partivano poiché abitavano sul mare. Divisi dal viale, Niccolò e Giovanni da una parte, Simone e Nicola dall’altra si sbracciavano e continuavano a chiamarsi per nome, urlando saluti fino a quando i primi due sparivano tra le frasche nei pressi di casa.

    Mentre l’auto paterna percorreva viale Italico per raggiungere il casello dell’autostrada, Niccolò, con i gomiti appoggiati al sedile posteriore, scovava figure familiari o qualche luce all’interno dei bagni, sospirando rassegnato alla vista dell’ultimo scorcio di mare laddove esso riappariva in prossimità del pontile al Cinquale.

    In autostrada il magone sembrava affievolirsi, se non altro perché erano cambiati gli argomenti. Giovanni avrebbe iniziato il primo anno di scuola media, Niccolò il secondo e si conversava di inizio lezioni, nuove classi, propositi di completare i compiti estivi oppure se fosse o meno rientrata dalle vacanze la famiglia vicina di pianerottolo.

    Imboccata la Cisa, il traffico era lento ma scorrevole, il buio invadeva l’interno dell’automobile. Salvador Allende, che salutava con tanto di occhiali dall’adesivo de l’Avanti, appiccicato al cruscotto e corredato dalla scritta Allende, Allende, il Cile non si arrende!, veniva illuminato a intermittenza dai fari delle macchine in transito.

    Più innanzi una lunga fila costringeva lentamente l’Ascona a fermarsi. Le macchine si arrampicavano lungo il costone della montagna formando un interminabile serpentone luminoso del quale non si scorgeva la fine neppure a chilometri di distanza tra le vetture avvinte alla cima per curvare e prolungare la coda laddove l’occhio non poteva raggiungerle.

    In quell’obbligato stallo, qualcuno tirava il freno a mano oppure spegneva il motore per risparmiare benzina, altri si incamminavano a piedi lungo la corsia di emergenza consapevoli che i conducenti dei propri veicoli li avrebbero raggiunti non appena fossero riusciti a ripartire. Luci, noia e silenzio la facevano da padroni. Il tempo sembrava non passare mai, così barche e gommoni a rimorchio delle automobili rinvenivano la malinconia. Niccolò avvertiva intenso l’odore della gomma pervenire dal finestrino aperto e pensava al suo pattìno rinchiuso al buio in salotto, lontano dall’acqua al pari di quei gommoni. L’indomani mattina i raggi del sole, filtrando attraverso infissi e persiane chiuse, avrebbero consentito ai ritratti sulle pareti di ricominciare a sorvegliarlo nella penombra.

    Da una macchina poco distante giungevano le note di Luna cantata da Gianni Togni e il motivetto principe dell’estate diveniva epitaffio dei momenti felici.

    Il dodicenne rimestava nel passato recente, quando la scuola cominciava il primo ottobre. A oggi, sarebbero mancati ancora sedici giorni prima di lasciare il mare. Poi andava a ritroso di settant’anni per giungere agli antenati; i

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