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Drabarnì
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E-book420 pagine6 ore

Drabarnì

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Info su questo ebook

La storia che racconta Drabarnì, l’originale opera narrativa di Minea Talarico, parte da lontano, non tanto per l’epoca storica in cui è ambientata, quanto per gli intrecci di vite che la animano, che ripercorrono vissuti difficili, spesso all’insegna del dolore e della sofferenza, ma anche di una profonda condivisione e antica conoscenza. L’opera è un vero e proprio romanzo corale, le cui tante voci si trovano coinvolte in una serie di accadimenti che inevitabilmente congiungerà le loro strade in un percorso di crescita per nulla scontato. Attraverso una prosa incisiva ma allo stesso tempo delicata, Minea Talarico rende, con vivido interesse, sulla pagina scritta, la perfetta polifonia di ogni uomo e le vibranti risonanze dell’essere che lo accompagnano.

Minea Talarico nasce nel 1989 in Germania da madre tedesca e padre italiano. Ha vissuto in Calabria a partire dal primo anno di età, trasferendosi poi in Toscana all’età di dodici anni. Ha conseguito la laurea in Pittura presso l’Accademia delle Belle Arti di Firenze e successivamente la laurea in Psicologia Clinica alla facoltà di Scienze e Tecniche Psicologiche di Firenze. Nel 2017 ha organizzato corsi di gruppo di Arte(e)Terapia presso Cecina, in provincia di Livorno. Nel 2018 ha intrapreso un lungo viaggio in camper, durato otto mesi, nel quale ha sperimentato il percorso di conoscenza intima del “viaggiare da nomade”. Con Europa Edizioni pubblica il suo romanzo d’esordio Drabarnì. Attualmente vive in provincia di Pisa, dove dipinge e lavora al suo secondo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9791220136792
Drabarnì

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    Anteprima del libro

    Drabarnì - Minea Talarico

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    Minea Talarico

    Drabarnì

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-3217-6

    I edizione novembre 2022

    Finito di stampare nel mese di novembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Drabarnì

    Cvava sero po tute

    I kerava

    Jek sano ot mori

    I taha jek jak kon kasta

    Vasu ti baro nebo

    Avi ker

    Kon ovla so mutavia

    Kon ovla

    Ovla kon ascovi

    Me gava palan ladi

    Me gava

    Palan bura ot croiuti

    Fabrizio de André/Ivano Fossati - Khorakhané

    Prologo

    Parigi, settembre 1880 (Licia)

    "On le devine à ses yeux, c’est un amant soucieux, las d’attendre¹".

    Per fortuna non stava più piovendo e sembrava una bella giornata, con il sole era bello cantare e stare all’aria aperta. Ridiscendere il fiume con quel fango però non era facile. «Maledizione!» avevo messo male il piede e le coperte mi erano cadute in mezzo a quella melma appiccicosa «Perfetto, adesso dovrò usare ancora più cenere!».

    Eravamo rimaste in poche a usare la cenere in riva al fiume, la maggioranza delle lavandaie si erano fatte assumere in centro, in quelle grandi lavanderie dove lavano tutte insieme e dove fa un caldo infernale, a me non sono mai piaciute. Era una fortuna che qualche ricco parigino scegliesse ancora noi e non loro, sapevo che non sarebbe durato per molto e che un giorno avrei perso il lavoro.

    Il signor de Bourgeois, che era il mio capo, aveva la buona coscienza di farci venire ogni giorno, così il bucato non si accumulava mai troppo, purtroppo quando pioveva non si poteva fare altro che aspettare le belle giornate come quella. Quando il tempo restava brutto per molto dovevamo lavare alla villa, ma era difficile, l’acqua arrivava piano e non era possibile pulire il bucato come facevamo sul fiume, dove invece scorreva in grandi quantità.

    Finalmente arrivai nel mio angolino preferito e posai la cesta. Avevo scelto quel posto molti anni prima, era circondato da massi di enormi dimensioni, utili per poggiare il bucato, l’acqua scorreva abbastanza limpida. Mi voltai alla mia sinistra «Signore, abbi misericordia di me e di noi tutti!», mi feci il segno della croce sul petto «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

    Era distesa a terra, piena di fango e completamente zuppa di acqua. Portava una divisa da cameriera che riconobbi all’istante, anche i capelli mi sembravano i suoi. Mi feci coraggio e provai a girarle intorno per vederla meglio.

    La testa era piegata di lato, gli occhi erano chiusi. Era bianca, bianchissima. Era lei, era proprio lei, ne ero sicura. «Dio abbi pietà di me!», mi voltai e cominciai a correre per risalire la riva del fiume, ero terrorizzata, urlavo «Eloise! Eloise! È morta! È sul fiume! L’hanno uccisa!».

    Non riuscivo a respirare, inciampavo nel fango.

    Eloise si affacciò: «Cosa? Licia ma cosa dici?».


    1 Emmanuel Chabrier, Chants d’oiseaux, 1862.

    Capitolo 1

    Fontainebleau, settembre 1842 (Gyuli)

    Ero appena entrata nella baracca che avevamo costruito accanto alla carrozza, avevo passato il pomeriggio nella foresta alla ricerca di radici, «Mamma, guarda! Ho trovato queste!», mia madre si voltò e prese in mano le radici che le avevo portato.

    «Bravissima Gyuli! Queste sono radici di tarassaco! Hai fatto un ottimo lavoro», mi accarezzò la testa. «Guarda sul tavolino, c’è della carne, l’abbiamo cotta qualche ora fa, è una parte del cinghiale che hanno cacciato i ragazzi».

    Ero così felice, avevo tantissima fame perché avevo camminato per ore per portare a casa qualche radice per mia madre, come mi aveva chiesto, quello era il suo modo per istruirmi. Mi misi seduta e staccai un morso di carne, tutta la mia gente ha sempre mangiato con le mani. Mia mamma prese il mortaio che aveva costruito lei stessa lavorando delle pietre e cominciò a pestare le radici. Canticchiava sempre, era piacevole mangiare e sentir lei che in sottofondo intonava qualche vecchia melodia zingara. Ruotava il braccio in senso orario, sempre allo stesso modo e sempre nello stesso verso, lo avevo imparato anche io. Avevo otto anni e sapevo già tanto sulle erbe, volevo diventare come mia mamma, lei era amata da tutti al campo, proprio per questa sua capacità, era una drabarnì. Diedi un altro morso alla carne, «Mamma, sai come ho trovato le radici che mi hai chiesto? Ho visto un cerbiatto in lontananza, stava mangiando qualcosa. Così ho pensato di andare in quella direzione, loro mangiano spesso fiorellini prelibati. Quando mi sono avvicinata troppo è scappato. Però in quel momento li ho visti, era pieno di fiori gialli!».

    Mia madre posò il mortaio: «Sei diventata astuta!», mi venne accanto «Gyuli, c’è una cosa che devi imparare, è molto importante».

    «Cosa? Quale altra pianta?» continuavo a masticare mentre la guardavo, ero sempre pronta a dimostrarmi attenta ai suoi insegnamenti.

    Sorrise e mi carezzò la testa: «No Gyuli, non ti parlo di piante. Quando hai visto il cerbiatto hai prestato attenzione e ti sei accorta delle coincidenze. Un cerbiatto che mangia erbe succose, è così che hai trovato le radici!». La guardai perplessa. «Ricorda una cosa, bambina mia, le coincidenze sono sempre importanti nella vita. Quando ci accade qualcosa c’è sempre un motivo del perché accade. Questo ci insegna la natura, e questo è ciò che ti ha insegnato quel cerbiatto. Senza le coincidenze, noi umani non potremmo sopravvivere, le coincidenze ci indicano la via da seguire, capito?» si rialzò e tornò al mortaio. Avevo capito, ma non capivo quali altre coincidenze dovessi osservare, mi sembrava di aver fatto abbastanza trovando il tarassaco.

    Avevo finito la carne. «Mamma, esco, devo fare pipì».

    Fontainbleau, maggio 1844 (Gyuli)

    Un giorno eravamo fuori, stavamo raccogliendo la legna. Era maggio, la primavera era in fiore. Era magnifico quel periodo, con la mamma trovavamo tante erbe, piante commestibili, bacche, funghi, ogni tanto qualche frutto. Non usavamo molto il fuoco nella bella stagione, solo per cucinare e per cuocere le erbe o le piante che servivano per curare la nostra gente. Era un bel periodo anche per la caccia, gli uomini stavano ripulendo quello che avevano preso nella mattina.

    Veniva verso di noi Celine, portava in braccio il piccolo Juan.

    «Ciao Adrien, ciao Gyuli». La mamma si alzò e prese Juan in braccio, aveva solo due anni, lo riempiva di baci e lui rideva, Celine mi venne accanto: «Allora piccola apprendista, come procede?».

    «Bene Celine, la mamma mi ha istruita oggi su alcune erbe che non conoscevo! Non sai quante ne ho già imparate a lavorare! Ed ho solo dieci anni! La mamma dice che lei alla mia età non era avanti come me!».

    «Lo so Gyuli, me l’ha detto, sei molto brava!».

    Mia mamma tornò verso di noi con il piccolo Juan che le restava attaccato alla gonna, sbavava.

    «Allora Celine, ti serve qualcosa?».

    «No, Adrien, grazie. Passavo di qui perché volevo andare a fare due passi nella foresta con il piccolo, è molto agitato, non riesco a farlo stare fermo, continua a correre dal padre, ma quello deve lavorare le bestie, non può stargli dietro!». Risero.

    Io continuavo a mettere apposto la legna, il piccolo Juan mi stava aiutando a modo suo, la spostava da dove la mettevo e io dovevo riprenderla e rimetterla a posto. «Juan! Basta! Così mi farai lavorare il doppio!» mi guardava con degli occhi enormi, lo faceva sempre, era molto tenero, mi era difficile sgridarlo per davvero.

    «Bene, allora buona passeggiata Celine e fai attenzione, siamo quasi al tramonto, non ti allontanare troppo».

    «Certo, stai tranquilla!» prese Juan in braccio e s’inoltrò nel bosco.

    Noi continuammo il lavoro che stavamo facendo.

    Avevamo quasi finito di sistemare la legna quando, in lontananza, sentimmo dei cavalli al trotto. Tanti cavalli! Venivano nella nostra direzione. «Gyuli, corri dentro, nasconditi sotto al lettino, copriti e non muoverti fin quando non te lo dico io!» erano quasi arrivati, erano tanti uomini a cavallo.

    «Soldati!» qualcuno aveva urlato quelle parole dal centro dell’accampamento.

    Io ero ancora lì, ferma impalata, mia mamma si voltò verso di me: «Gyuli, fa come ti dico, vai dentro, nasconditi e non uscire per nessun motivo, qualsiasi cosa accada, tu non uscire! Vai!» stava urlando.

    «Mamma ho paura!».

    Mi venne accanto e mi diede un bacio sulla fronte «Andrà tutto bene, adesso vai Gyuli, fa come ti dico!». Scappai dentro, mi misi sotto al lettino e mi nascosi con una coperta. Avevamo provato tante volte, ero invisibile così!

    I soldati erano nel campo, la nostra gente stava urlando e urlavano anche loro.

    «Tutti fuori! Avete sentito branco di sudici? Fuori da quelle merde!».

    «Fuori! Tu! Vieni di qua!» sentivo urla, grida, pianti. Ero terrorizzata. Non so per quanto durò, ma alla fine sentii la mia gente lontana che urlava e i soldati che urlavano ancora di più. Cominciarono a rovistare nelle baracche e nelle carrozze, passarono anche nella mia, erano due, io restavo ferma immobile, trattenevo il respiro più che potevo. Buttarono a terra tutti i barattoli della mamma, le erbe volarono ovunque, uno dei due si voltò verso l’altro: «Qui non c’è nulla!».

    «Sei sicuro? Niente oro? Niente gioielli?».

    «Niente, guarda, questi fiori e queste erbe puzzolenti!».

    Non puzzavano le nostre erbe, perché dicevano che puzzavano non lo capivo, erano utili le nostre piante. Finalmente uscirono, non mi avevano vista, io avevo visto solo le loro scarpe. A un certo punto urlarono: «Bruciate tutto! Date fuoco a tutto!». Non capivo, cosa dovevano bruciare? Decisi di uscire dal nascondiglio. Levai la coperta e mi avvicinai lentamente all’entrata, sbirciai fuori, degli uomini con delle torce infuocate stavano dando fuoco a tutto, appiccavano il fuoco ai nostri piccoli rifugi. Volevano bruciare le nostre case. Mi voltai, rovistai fra i barattoli che erano a terra, lo trovai, presi il mio preferito, la camomilla. Tornai alla porta e aspettai il momento giusto, nessuno guardava nella mia direzione così andai fuori e scappai sul retro, restai ferma lì per un pochino, poi mi diressi verso il bosco. In quel momento mi resi conto che aver scelto di costruire la baracca al limitare della foresta era stato utile, gli altri dicevano che era meglio nella radura aperta, ma la mamma non era mai stata d’accordo. Mi nascosi dietro un cespuglio. Erano arrivati alla nostra carrozza, gli diedero fuoco, poi buttarono un’altra torcia infuocata anche sulla nostra baracca, restavano sul cavallo e buttavano le torce accese. All’inizio del nostro campo la mia gente era legata l’una all’altra, tutti tenuti insieme da una corda attaccata ai cavalli. Alcuni erano a terra, sparsi nel campo, forse erano morti, non lo capivo. Il campo bruciava tutto. Avevo paura, mi feci la pipì addosso. A un certo punto cominciarono a marciare, la mia gente dietro ai cavalli, i soldati avanti, andavano troppo veloci, qualcuno veniva trascinato. Urlavano tutti. Non riuscivo a vedere la mia mamma, c’era troppo fumo. Avrei voluto seguirli, ma avevo paura. Si allontanarono. Non riuscivo più a vederli, le fiamme erano alte, svanirono pian piano anche le voci e le urla. Il campo continuava a bruciare. Io rimasi lì, ferma, senza lacrime. Non riuscivo a muovermi e non sapevo cosa fare. Mi rannicchiai per terra, abbracciai il barattolo di camomilla e non so dopo quanto, ma mi addormentai.

    Mi risvegliai all’alba e sbirciai da dietro il cespuglio, non c’era nessuno nel campo, era tutto bruciato. Uscii dal mio riparo e cominciai a camminare in mezzo alle macerie e alla cenere, c’erano corpi bruciati, donne, bambini, uomini, tutti morti. Caddi a terra e cominciai a piangere, non riuscivo a smettere e non riuscivo a respirare da quanto piangevo. Aprii il barattolino della camomilla, l’annusai e mi calmai per un attimo, ma piangevo ancora.

    Sentii un grido alle mie spalle «Gyuli!!» mi voltai, era Celine, veniva dalla foresta, corsi nella sua direzione e le saltai alle gambe. Restammo ferme così, ad abbracciarci e piangere per un tempo infinito, anche Juan piangeva.

    Passò una settimana, avevamo camminato molto e ci eravamo nutriti di poco. Non potevamo restare lì, Celine era sicura che sarebbero tornati. Nel tragitto trovammo alcune persone che conoscevamo abbandonate per terra, erano morte. Non ho mai trovato mia mamma fra quei morti.

    «Celine, dov’è la mia mamma?».

    «Non lo so Gyuli, l’hanno portata via. Non so dove sia!». Nessuno sapeva niente. Incontrammo qualcuno del nostro campo lungo la strada, si erano finti morti o erano riusciti a nascondersi nella foresta prima dell’incendio, erano scampati al sequestro. Ci unimmo. Nessuno di noi aveva più una carrozza. Decisero che sarebbe stato meglio arrivare alla grande città, Parigi. Dicevano che lì la vita era più facile e che se un campo si comportava bene non lo toglievano. Dicevano che c’erano tanti posti di poveri, dove non facevano caso ai gitani. Vivemmo camminando per mesi. Io continuavo a sperare di trovare la mia mamma, Celine era stanca e di notte la sentivo piangere e pronunciare il nome di suo marito. Juan era sempre agitato e spesso piangevamo insieme abbracciati, come se il calore dei nostri corpi uniti potesse cancellare il dolore. Non parlavo più molto, facevo poche domande, una delle più frequenti era riferita a mia madre.

    Quando arrivò ottobre, con le prime piogge intense e il freddo, noi arrivammo alle porte della città. Eravamo distrutti, avevamo vissuto di poco e ci eravamo spostati sempre. Da un certo punto di vista eravamo fortunati, avevamo fatto quasi tutto il tragitto nella bella stagione, in estate era più facile dormire all’aperto. Nel punto da cui arrivammo si vedevano tanti palazzi in lontananza, case grandi, non le avevo mai viste. Ero cresciuta nella natura, avevo visto tanto bosco nella mia vita, ma nessuna città.

    Parigi, dal 1846 al 1854 (Gyuli)

    Quando avevo ormai dodici anni ci eravamo stabiliti da molto in un campo nella zona a est di Parigi, era immerso nella campagna. La prima volta che entrai in città rimasi sconvolta. Era tutto grande, c’era tanta gente e poche piante, nessuna delle quali utile come medicinale o da mangiare, erano tutti fiori, belli, ma non servivano. Non c’era il prato a terra. Non mi piaceva. Cercavo di andarci il meno possibile, anche se capii molto presto che se avessi voluto sopravvivere in quel campo avrei dovuto frequentare anche la città, non si poteva cacciare spesso lì intorno, e molti degli uomini che vivevano al campo non lo sapevano fare. Alcuni pescavano, ma era tutto diverso dal bosco. Per vivere, dovevi conoscere Parigi.

    Quando avevo tredici anni mi accorsi che Celine portava sempre uomini alla baracca, ci buttava fuori a me e Juan e lei entrava con quelli. Facevano tanti versi, sembravano stare male. Poi riusciva solo l’uomo e lei ci diceva di rientrare. C’era sempre puzza quando entravamo. Una volta un uomo arrivò con una carrozza distrutta, divenne la nostra nuova casa, Celine era felicissima e anche io e Juan lo eravamo. Juan aveva cinque anni ed era un bambino molto dolce, ma anche molto irrequieto. Celine continuava a portare uomini, adesso nella carrozza. Ne venivano di più da quando aveva quella. Lavorava il giorno e la sera, la notte dormivamo insieme. Un pomeriggio di luglio ci mise a costruire una baracca, «Questa sarà per te e Juan, quando dovrò farvi uscire dalla carrozza, potrete stare qui». Dal tono di voce e dall’espressione del suo volto capii che si vergognava.

    «Va bene Celine». Non parlavo molto con lei, avevo cominciato a riprendere lo studio delle erbe, lo facevo da sola. Uscivo con Juan e andavamo nelle campagne., cercavo tutto quello che mia mamma mi aveva insegnato a riconoscere, lo lavoravo come mi aveva detto. Mi ero creata la mia collezione.

    Quando avevo quindici anni Celine venne da me «Gyuli, senti, la tua mamma ti ha insegnato quali erbe fanno sparire i bambini?». La guardai perplessa. «Gyuli, sono incinta, devo farlo sparire, non potrò più lavorare se sono incinta, non mi vorranno con la pancia grossa e gonfia, devo farlo sparire!».

    «Devi ucciderlo, non farlo sparire. Quelle piante lo uccidono, non lo fanno sparire!» mi voltai, presi Juan per mano e mi incamminai verso i campi. Non volevo dargliele, non era giusto. Le davo la colpa di tutto. Tornammo al tramonto, lei era nella carrozza, noi entrammo nella nostra baracca, ci addormentammo abbracciati come sempre, nascosti sotto una panca, avevamo costruito un lettino protetto e riparato nel caso in cui qualcuno fosse entrato, come mi aveva insegnato mia madre. Mi svegliai in piena notte, qualcuno stava piangendo, uscii dalla baracca. Celine era seduta fuori dalla sua carrozza, le andai accanto e le misi una mano sulla spalla, lei si voltò a guardarmi, l’avevano picchiata. Piansi con lei. La mattina dopo preparai l’impasto. Avevo capito, non era colpa sua, stava cercando di fare quello che poteva per crescere suo figlio e la figlia di una sua amica, non aveva colpe, Parigi la stava rovinando. Quel lavoro non era semplice e tanto meno sano, ma ci aveva permesso di sopravvivere.

    Tornai da lei «Celine, eccole. Puoi prenderle, ma devi stare a riposo fin quando non vedrai il sangue. Non puoi lavorare se hai preso queste erbe. Sono molto forti».

    «Cosa sono?».

    «Non posso dirti tutta la ricetta. Però c’è origano, iperico, salvia, tanaceto e un’altra segreta. Devi prendere questo impasto con tanta acqua calda, per tre volte al giorno. Se non funziona torna da me. Ma penso che funzionerà». Mi è sempre piaciuto mantenere qualche segreto sulle mie ricette, è un ottimo modo per far sì che le persone non provino a rifarle rischiando di sbagliare tutto.

    «Oh Gyuli, sei proprio come tua madre!» sorrisi, ero felice per quel complimento, era il mio sogno diventare come mia madre. Rimase nella carrozza per due giorni interi, tornò da me con un dolcetto in mano, un avanzo di qualche posto. «Gyuli, ha funzionato! Ci sei riuscita!». Mangiai il dolcetto e ne portai una parte a Juan. Quel giorno decisi che sarei diventata come mia mamma. Cominciai a piantare alcune erbe dietro alle baracche, in base alla stagione.

    Quando raggiunsi i diciotto anni ero ormai conosciuta da tutti come Gyuli delle erbe. Finalmente anche io ero una drabarnì. Iniziai ad ascoltare le persone, mi pagavano o mi davano avanzi di cibo o vestiti, ognuno mi dava ciò che poteva.

    Juan aveva dieci anni, mi veniva dietro, giravamo tutti i campi e io parlavo con tutte le gitane anziane, cercavo donne che leggessero la mano, i fiori, gli occhi della gente e anche le pietre. Conobbi tanta bella gente, ma anche tante truffatrici, persone che si facevano pagare ma non aiutavano nessuno. Io imparavo, ero decisa, tenace, sicura.

    Ero cresciuta nelle foreste e ora stavo cercando di adattare la mia vita alla città. Juan ci era praticamente cresciuto, per lui era tutto normale, per me c’erano ancora troppe cose difficili da accettare. Non ho più ritrovato la mia mamma, ma sono sicura che fosse morta, non avrebbero risparmiato la vita a nessuno. Da alcuni racconti venni a sapere che funzionava così, la camminata a cavallo era una scusa, non tornavano mai a Parigi con dei carcerati, morivano tutti lungo la strada, forse non erano nemmeno soldati. Alcuni mi dissero che derubavano la gente come noi, che pensavano che avessimo oro e gioielli. La verità è che non ho mai capito quello che ci era successo e nessuno sapeva niente.

    All’età di vent’anni ero una donna, esperta di erbe, lettura della mano e degli occhi. Mi apprezzavano tutti. Devo essere sincera, noi zingari molto spesso non crediamo alla buona ventura, chi ci consulta invece o ci crede o ci considera dei truffatori. Io ci ho sempre creduto. Sono convinta di avere un dono e, anche se può sembrare tutto un trucco, io avevo come obiettivo quello di aiutare davvero le persone.

    Una sera Celine venne da me, era dimagrita molto negli anni, aveva sempre gli occhi cerchiati di nero e sembrava malata, stanca e confusa. «Gyuli, senti, ascoltami. Ho scoperto da alcune ragazze che se vado la notte in città lavoro di più. Devo stare nelle strade povere, dove ci sono locande e osterie. Lì gli uomini hanno tanto bisogno delle donne, pagano subito e finiscono velocemente. Non dovrete più dormire nella baracca tu e Juan, potrete stare nella carrozza».

    Cosa avrei dovuto dirle?

    «Va bene Celine, ma non è pericoloso?».

    «No, non ti preoccupare, andrà tutto bene!».

    Quella sera preparai delle erbe che avevo raccolto nei campi con qualche patata per Juan, fu una bella cena, perché l’avevo fatta io e perché eravamo nella carrozza. Ci addormentammo sazi e felici. Celine non tornò mai più. Nessuno sapeva che fine avesse fatto, la cercai ovunque. Dopo circa un mese che era sparita Juan venne da me, aveva dodici anni, «Gyuli, la mia mamma è morta vero?». Lo guardai, ero tristissima per lui, lo avevo tenuto più io di sua madre negli ultimi dieci anni, e adesso, lo avrei fatto per sempre «Juan, non lo so, ma sono sicura che non tornerà. Mi dispiace tanto». Piangemmo insieme.

    Io e Juan ci adattammo alla vita di Parigi. Ero cresciuta nelle foreste, la vita era più bella lì, tutto era pulito dalla natura. La città era sporca, confusa e pericolosa, c’era troppa gente. Avevo trovato il mio spazio a Parigi, ma rimpiangevo sempre i migliori anni della mia vita, la libertà dei boschi e il profumo di fresco.

    Capitolo 2

    Parigi, dal 1880 al 1904 (Cléopatre)

    Mi chiamo Cléopatre Dupuas, sono nata a Parigi il 14 luglio 1880, il mio nome è troppo pomposo e pieno di pretese, almeno questo è ciò che pensava mio nonno. La mia nascita non è avvenuta come tutte le grandi attese, sono una figlia illegittima. Il mio cognome, Dupuas, è quello di mia madre, Angeline Dupuas. Quando aveva diciannove anni rimase incinta e da quel momento la famiglia decise che non meritava più di essere una figlia degna di essere amata. Il mio nonno, Ernest Dupuas, era un falegname e la nonna, Catherine Noel Dupuas, era morta quando mia madre aveva all’incirca diciotto anni, di un male incurabile che nemmeno il medico di famiglia sapeva a cosa attribuire. Aveva lasciato un marito e due figlie, mia mamma e mia zia, più grande di lei di due anni, Anne Dupuas.

    Quando mia nonna morì, mio nonno decise di svolgere velocemente il compito che un bravo padre ha verso le proprie figlie, doveva trovargli un marito adeguato. In realtà per mia zia Anne era già stato deciso con la nonna, quindi le andò bene, perché era innamorata del figlio del pasticcere, scelto accuratamente da Catherine quando era ancora in vita, invece, mia madre, avrebbe dovuto sposare il figlio di un panettiere che non poteva guardare nemmeno da lontano senza provare un profondo senso di ribrezzo. Com’era stato scelto il figlio del panettiere? Molto casualmente, mio nonno conosceva bene il padre e sapeva che questi aveva un figlio in cerca di moglie e con la giusta età, per cui, in virtù di un’amicizia di lunga data non si prese la briga di controllarne le referenze, averlo visto in panetteria a lavorare gli era sufficiente per definirlo un buon partito. Se avesse deciso mia nonna, da donna, avrebbe sicuramente valutato bene quel giovanotto silenzioso e all’apparenza calmo. Le donne non avevano, e anche oggi purtroppo si reitera con questa antiquata etichetta, l’onore di scegliere il marito con cui avrebbero voluto condividere la loro esistenza, e a poche capitava di sposarsi anche per amore, soprattutto quando si proveniva da una famiglia se non ricca ma, come la nostra, benestante.

    Quando mia madre si presentò da mio nonno per informarlo della sua gravidanza, lui prese la decisione che riteneva adeguata al suo compito di padre: diseredarla, non avrebbe più dovuto far parte della famiglia, non avrebbe più dovuto mettere piede in casa, per lui Angeline era morta. Mia zia Anne, in virtù di una solidarietà femminile, investì i suoi risparmi e chiese aiuto al suo futuro marito per prendere un piccolo locale in affitto, così mia madre avrebbe potuto concludere la gravidanza. Provò a convincere mio nonno a non diseredare anche me, gli spiegò che io non aveva colpe per ciò che aveva commesso mia madre, gli disse che lei si sarebbe presa cura di me, nessuno avrebbe guardato allo scandalo se a prendersene cura sarebbe stata la zia. Ovviamente l’orgoglio di Ernest era troppo grande per accettare anche un solo consiglio da una donna. Così Angeline e Anne fecero un accordo, decisero che quando mia madre sarebbe stata al lavoro, faceva la prima cameriera in casa di un nobile parigino, mia zia si sarebbe occupata di me, ma mia madre avrebbe dovuto provvedere a tutte le spese.

    Mia zia mi ha raccontato che il giorno della mia nascita, quando mia madre mi prese in braccio, le disse «Mia figlia avrà un nome importante, avrà un nome che le permetterà di farsi strada nel mondo, il nome di una donna che riusciva a farsi obbedire dai più potenti uomini della storia, mia figlia si chiamerà Cléopatre». E con queste buone speranze, in quella stanza che fungeva da cucina, camera da letto, soggiorno e bagno, mia madre mi strinse tra le braccia e mi attaccò al seno. Quando il nonno venne a conoscenza del nome che aveva scelto per me, disse che quel nome mi avrebbe resa famosa solo come concubina, come lo era sua figlia.

    Di mio padre non conosco neanche il nome, Angeline si era sempre rifiutata di dirlo a chiunque, persino ad Anne non lo aveva mai confidato. Questo particolare ci ha sempre fatto pensare che vi dovesse essere qualcosa di molto doloroso dietro alla mia nascita, perché, a quanto mi ha detto la zia, loro avevano un ottimo rapporto e il fatto che la mamma si rifiutasse assolutamente di parlare dell’uomo con cui mi aveva concepita, le faceva credere che forse era stata violata. Ma anche questa ipotesi venne presto liquidata da Angeline «Se fossi stata violentata, mia figlia non sarebbe mai nata!». L’altra possibilità, in voga da sempre, è che lui dopo aver saputo della gravidanza fosse fuggito e quindi, per il dolore e l’abbandono, mia madre avesse deciso di cancellarlo dalla sua memoria.

    Quando avevo da poco compiuto due mesi di vita, mia madre sparì. Una mattina, come di consueto, si era recata dalla zia per lasciare me e andare al lavoro. La sera, alla solita ora, non fece rientro a casa, e così nemmeno il giorno seguente e quelli a venire. Non è mai più tornata e nessuno ha mai scoperto che fine avesse fatto. Anne si recò dal suo datore di lavoro, il quale le disse che era uscita dalla villa nel pomeriggio e non era più rientrata. Si recò al commissariato, dove le dissero che sicuramente era fuggita col padre della figlia abbandonandola, dicevano che una donna che resta incinta fuori dal matrimonio sicuramente prende decisioni sbagliate e che quindi la cosa migliore da fare sarebbe stata quella di dimenticarla. Nessuno si prese la briga di cercarla eccetto zia Anne, nessuno si interessò a lei, e il nonno non fece una piega quando andai da lui a dirgli che Angeline era scomparsa. A volte ho sperato che si fosse rifatta una bella vita e che un giorno sarebbe venuta a cercarmi, altre volte invece, ho pensato tristemente che forse era morta di qualche male o che era stata vittima di qualche bruto.

    Mia zia mi ha cresciuta con grande amore e devozione, ha sempre rivisto in me gli occhi della sorella e non le ha mai condannato nessuna decisione e nessuno sbaglio. Ha avuto sempre l’accortezza di parlare dolcemente di mia madre e darmi il massimo di ciò che poteva. Il marito, mio zio, Lion Giraud, con il quale mia zia è divenuta Anne Giraud, non ha mai voluto che io avessi il suo di cognome, nonostante questo ha sempre provato grande affetto nei miei confronti. Quando il nonno morì lasciò tutto in eredità a mia zia Anne, la sua casa e la bottega, la zia affittò tutto, ricavando mensilmente dei soldi che utilizzava solo per me e per il mio fondo privato.

    La zia e lo zio non hanno avuto figli propri, nessuno ne ha mai capito il motivo, l’unica cosa di cui sono certa è che non era una scelta, quanto piuttosto qualcosa legato a problemi di salute. Questo l’ha spinta a riversare su di me tutto l’amore materno che portava in corpo e a decidere di lasciarmi in eredità la casa del nonno e la sua bottega di falegnameria, eredità che adesso, mi permette di vivere. Sono cresciuta bene con loro, sono stata felice e sono stata amata. Ho dei bellissimi ricordi di lei e di mio zio, della mia gioventù e della mia adolescenza. Sono stata trattata con ogni dovuto rispetto, ho potuto studiare in una scuola di Arte, ho imparato a leggere grazie alla zia e ho creato la mia dimensione di donna.

    Non ho sofferto l’assenza di cure materne, ma ho sofferto profondamente quando la zia si è ammalata di tubercolosi, prima era toccata allo zio. Quando mia zia Anne morì, fu uno dei momenti più dolorosi della mia esistenza, erano l’unica famiglia che mi restava, ed entrambi avevano perso la vita a pochi mesi l’uno dall’altra.

    Quando erano ancora in vita lo zio aveva provato ad accennare a mia zia di muoversi per trovarmi un marito che mi avrebbe mantenuta, si era già ammalato, quindi era consapevole che sarebbe morto presto e non voleva assolutamente che io restassi senza la protezione di un uomo. La zia, una mattina, quando avevo vent’anni, era entrata nella mia stanza «Mia cara Cléopatre, dovrei cercarti un marito, ma io non sono adatta a questo compito. Hai forse qualcuno di tuo interesse?».

    Ricordo che la fissai perplessa: «No zia Anne, non ho in mente nessun giovane».

    «Ebbene mia cara, fingeremo con tuo zio che ci stiamo guardando intorno, però devi promettermi una cosa. Tu ti sposerai solo per amore, non voglio vederti fare la fine di tua madre, io voglio che tu sia pronta, io voglio che tu sia felice! Abbiamo già perso troppe persone in questa famiglia!». Due anni dopo mia zia morì, avevo quasi ventidue anni e se non fosse stato per Elisabeth, che si prese cura di me durante tutto il periodo del lutto, non so cosa avrei fatto.

    Elisabeth è la mia migliore amica, a dirla tutta è l’unica vera amica che ho e la sua famiglia è l’unico legame stretto che mi rimane al mondo. È stata la zia Anne a introdurmi alla lettura e grazie a questo ho avuto modo di conoscere la famiglia Picard.

    All’età di otto anni, una mattina, durante la colazione, mia zia mi guardò: «Mia cara Cléopatre, questa mattina andremo nella libreria dove mi rifornisco di libri da molti anni e potrai tu stessa scegliere qualcosa per te! Sarà il tuo primo libro!».

    In genere era lei a sceglierli per me, io li leggevo con grande foga e passione e ne trovavo conforto e giovamento. Quella mattina mi chiese di scegliere qualcosa di piacevole da indossare e ci recammo alla libreria. Quando arrivammo dinnanzi al negozio, notai con mio grande stupore che dall’esterno appariva molto piccolo, vi era una sola vetrina che affacciava sulla strada, sulla quale erano esposti con molta cura alcuni dei titoli del momento. Quando entrammo ci accolse con grande affetto un signore il cui nome è Dominic Picard, ed è il padre di Elisabeth. Dietro il grande bancone invece, era seduta una bambina dai lunghi capelli castani che alzò gli occhi dal libro che teneva in mano per salutarci a sua volta e venne verso di me: «Buongiorno, io mi chiamo Elisabeth, come la regina Elisabeth I di Inghilterra, il mio nome lo ha scelto mio padre dopo averlo letto in un libro!» la fissai con gli occhi sbarrati, mentre la zia e Dominic si recavano a visionare qualche romanzo, e le risposi: «Buongiorno, io mi chiamo Cléopatre, come la

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