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Elena e Bubi
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E-book145 pagine1 ora

Elena e Bubi

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Info su questo ebook

Durante una vacanza estiva sulle rive del lago Maggiore, Elena incontra Bubi, un meticcio, e decide di adottarlo. Sarà proprio grazie al cucciolo che Elena troverà casualmente una valigia contenente dei vecchi scritti della madre e alcune fotografie, scoprendo un volto inedito della donna. La rivelazione porterà Elena a riflettere sul difficile rapporto con la figlia, Alba, e a mettersi in discussione per cercare di appianare le incomprensioni una volta per tutte.
LinguaItaliano
EditoreNextBook
Data di uscita29 mag 2020
ISBN9788885949171
Elena e Bubi

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    Anteprima del libro

    Elena e Bubi - Angela Civera

    Capitolo 1

    I libri che ho portato con me già mi annoiano. Avevo voglia di mettermi addosso qualcosa di comodo questa mattina, ma ho scelto un abitino turchese. Mi sta proprio bene: imparerò a vestirmi con colori sgargianti, non l’ho mai fatto ma mi donano. Con le spalle alla finestra sposto lo sguardo al letto disfatto, alla porta dell’armadio, dicendomi che sono pentita di essere qui. Me lo sto ripetendo da una settimana. Il silenzio pesante di questo luogo mi si sta richiudendo intorno, neppure fossi una creatura inghiottita da un mostro.

    Sento dei passi lungo il vialetto che conduce al portico di casa. Un attimo fa si è spento un motore e una portiera è stata sbattuta. Scosto le tende. È il garzone del panettiere.

    «Signora Dafini.»

    Guardando dai pochi gradini verso il ghiaietto del sentiero, lo accolgo in veranda.

    «C’era il cancelletto aperto, così sono entrato» spiega.

    «L’ho spalancato per lei.»

    «Grazie al cielo l’ho trovata in casa.»

    «Non esco praticamente mai.»

    Mi soppesa con lo sguardo. Mi rendo conto di essere aggrappata al corrimano. Disserro le dita e frugo in tasca.

    Porgendomi il sacchetto con pane e grissini, cambia argomento.

    «Ecco quello che ha ordinato. Se le serve dell’altro, chiami pure il negozio.»

    «Queste scorte mi basteranno per una settimana.»

    Ferma, pallida e dritta, gli allungo la mancia e sto per rientrare, quando mi chiede:

    «Si fermerà tutta l’estate al lago?»

    «Valuterò.»

    In garage c’è la macchina pronta per portarmi via, di nuovo nella mia città o da qualche altra parte, magari al mare. I bagagli, che mi hanno lasciato senza fiato nel trasporto da tanti erano i libri, sono stati svuotati, ma non sono ancora stati riposti. In un attimo posso riempire la valigia con i soli vestiti e andarmene da qui, da questo che immaginavo essere una specie di eremo in cui restare sola con i miei pensieri.

    «È da tanto che non si vedeva più aperta la sua casa. Molti credevano l’aveste messa in vendita, poi sono arrivati a sistemare il giardino e gli addetti dell’impresa di pulizia…»

    «Non avrei mai potuto vendere la casa di mia madre e che mio padre ha sempre sognato.»

    Il garzone mi fissa e percepisco un guizzo di perplessità.

    «Oh, lasci perdere!» esclamo con un gesto di mano, come se volessi scacciare una mosca, pentita di essermi lasciata andare con uno sconosciuto.

    «È tardi. Ho altre consegne. Arrivederci.»

    Ricambio il saluto con un sorriso e con passo fermo riattraverso il portico, ma mi scombussola rincasare. Sarà terribile rimanere qui sola in questa zona con poche abitazioni, separate una dall’altra da boschi privati. Questa era la nostra casa di vacanze, quando da Milano ci spostavamo al lago.

    «Stare qui è un toccasana» era l’affermazione compiaciuta di papà, appena con le chiavi in mano metteva piede sul viottolo verso la porta. «L’aria è frizzante, non c’è smog e si sta in mezzo alla natura, lontano dai rumori.»

    Per i fine settimana e per le vacanze arrivavamo al lago Maggiore in poco più di mezz’ora, quando non c’era coda.

    Ogni giorno, dalla collinetta sovrastante il lago, scendevamo nella cittadina per passeggiare.

    Si stava bene in questo posto, ma erano altri tempi.

    Ecco. È l’isolamento del luogo che mi disturba. Di notte il bosco intorno diventa opprimente. Ho un’impressione di rumori e di movimenti. Se dovessi gridare in cerca di aiuto, non arriverebbe nessuno. Ha un bel dire chi sostiene che ovunque è così e che ci si fortifica soltanto con la saldezza.

    Mezz’ora fa ho collocato un tavolino in veranda, per la colazione, il pranzo e la cena. Chissà che tutto non mostri un altro volto, quando me ne starò seduta all’aperto alla luce del giorno o a quella del crepuscolo estivo. Per cena potrei accendere un paio di candele e rimanere fino a tardi a sorseggiare del buon vino, restando in silenzio ad ascoltare i grilli e godendo del profumo della terra.

    Per la siesta pomeridiana va bene la terrazza, sotto le fronde del tiglio che si protendono e fanno ombra.

    Godrò di questi riti con sottile piacere, come in un buon albergo, perché ho un gran bisogno di eliminare le asperità della vita e accarezzare desideri nuovi.

    Mi guardo intorno pensosa con il sacchetto del pane fra le mani, osservo le unghie annerite dai lavori nel bosco e d’istinto interrompo l’assalto dei rincuoranti pensieri. Mi riscuoto bruscamente dal torpore. Mi sto ingannando: il piacere perverso dei sogni diventa spesso un’insidia.

    Che pena queste unghie. Vanno tagliate e limate mi dico.

    In questi giorni nel bosco ho strappato erbacce, affondato le mani nel terriccio, sviscerato il terreno intorno ad alcuni alberi, ma alla fine mi sono arresa all’evidenza che non è il mio mestiere e di quel passo ci avrei impiegato una vita.

    Ingaggerò un giardiniere e pazienza se mi costerà una cifra.

    Certo non succedeva così una volta; ai tempi il bosco veniva regolarmente fatto ripulire.

    Sabato, quando sono giunta, una volta aperti i bagagli, come seconda cosa, curiosa, mi sono inoltrata nel bosco in esplorazione. Il cuore mi batteva velocemente per l’emozione. Tra quegli alberi ho giocato da bambina con Agnes, la figlia degli olandesi della casa più vicina. Ogni estate arrivava anche lei in vacanza. Da piccole là dentro ci siamo rincorse sotto la cupola verde delle foglie e da grandicelle abbiamo passeggiato, chiacchierando a volte fino al tramonto, smaniose di confidarci. Eravamo molto giovani, piene di stupore e non c’era ancora accaduto quasi niente. Io non avevo ancora concluso gli studi e neppure avevo iniziato il mio apprendistato, arrangiandomi con lavoretti, prima di approdare in banca come funzionario, occupando di fatto il posto di mio padre ormai in pensione.

    Volitiva di carattere, di esperienza professionale nel tempo ne ho accumulata a sufficienza per camminare con le mie gambe. Alba, mia figlia, non mi somiglia, è più inflessibile e non tollera di ricevere ordini da chicchessia, per questo si è calata nel ruolo d’insegnante e conduce una vita perlopiù piatta, priva di scossoni. È sempre stata così, non ha preso né da me, né da Ezio, il padre, che ai tempi di Agnes non esisteva nella mia vita.

    All’epoca, alla mia amica confidavo i primi filarini con ragazzi, che immaginavo l’amore di tutta l’esistenza, ma sono durati un soffio e non li ho più rivisti. In realtà, dopo che mi sono sposata, non ho più rivisto neppure Agnes, né ho chiesto sue notizie. Lei ha fatto altrettanto. Ognuna ha la sua strada e la percorre a modo suo.

    Sospiro nella veranda, infastidita dall’urgere del passato e dall’affollarsi dei ricordi.

    Non scenderò nel bosco, finché non sarà stato ripulito. È tutto sterpaglia e si rischia di rimanere uncinati alle spine, meglio occuparsi del garage. Inizierò a riordinare quello mi esorto.

    Poso il pane sul tavolo e vado oltre con i pensieri, mentre mi avvio a chiudere il cancelletto d’ingresso. Andrebbe ridipinto, perché è tutto arrugginito. Me ne occuperò personalmente in questi giorni, se resterò. Deciderò con calma. Ho a disposizione tre mesi completamente liberi. Per problemi con la riduzione del personale, in banca, è stato chiesto ai dipendenti di usufruire di tutti i permessi e di tutte le ferie non godute. Io ne ho approfittato.

    La luce è accecante. Proseguo strizzando gli occhi, quando qualcosa si staglia all’inizio del vialetto. Facendomi scudo con la mano, aguzzo la vista. In controluce riesco a scorgere una sagoma: un cucciolo di cane è seduto a terra sulle zampe posteriori, come in attesa.

    «Che cosa ci fai lì?» lo apostrofo da lontano. Lui resta immobile.

    Mi avvicino irritata, ma il cucciolo mi scruta con il musetto serio e non mi dà troppa importanza.

    «Vattene. Non puoi rimanere. Torna dai tuoi padroni.»

    Con i piedi smuovo rumorosamente la ghiaia, per disturbarlo, più che per spaventarlo. Nulla succede. Il cane, infatti, inclina la testa con aria perplessa, però non si sposta.

    Decisa, mi chino su lui che continua a fissarmi pigro e passo decisa alla fase successiva.

    «Sei proprio duro, allora.»

    Affondo le mani nel morbido pelo del suo dorso e tento di spingerlo fuori, nonostante opponga resistenza. È piccolo, ma forte. Continuo a spingere sebbene rinculi e finalmente riesco a piazzarlo oltre il cancello, che chiudo all’istante.

    Fa caldo e sono sudata per lo sforzo, asciugo la fronte con il palmo e mi avvio a riporre parte del pane nel congelatore.

    Sarà scappato da qualche abitazione qua attorno penso.

    Con questa considerazione liquido il pensiero del cane. Lui, dalla strada, neppure si fa sentire o abbaia.

    Capitolo 2

    Che necessità ho di restare in questo luogo?

    Gli ultimi anni i miei li hanno vissuti qui: due fantasmi diversi fra loro, ma comunque amalgamati. Mamma è rimasta fino all’ultimo una bella donna, curata, dritta, una signora. Papà sembrava avesse deciso di seppellirsi in questo posto per il desiderio di nascondersi; era sempre stato solitario nella vita. Solitario, ma per niente remissivo. Stare al lago era importante per lui e anche prima di stabilirvisi in via definitiva, tutti i sabati ci portava qui. Gli piacevano la casa, l’orto, il giardino, il bosco. Li guardava incantato.

    Certe mattine in veranda, si voltava e incontrava il mio sguardo di bambina.

    «Senti l’odore dell’acqua che sale?» chiedeva, assaporando l’aria, nonostante il lago sia più a valle. Si riesce a malapena a scorgerlo.

    «Lo sento» fingevo per farlo contento.

    Lo sbirciavo e lo vedevo sorridere.

    «In questo luogo è tutto diverso, Elena.»

    Non lo capivo, ma

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