12x12: Dodici racconti per dodici mesi
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Anteprima del libro
12x12 - Gippo Bignozzi
12 x12
Fra l’Epifania e il Natale ci sta in pratica tutto un anno, con tante storie diverse.
Qui ce n’è una per ogni mese e per vari gusti, per passare il tempo, sorridere e, a volte, meditare.
Epifania
Atolli
Incontro
L’orco
Il Covid è un sogno
Buongiorno a lei
Alcesti
La burrasca d’agosto
Check-in
Distopicovid
Orrore
Un regalo per Babbo Natale
GIPPO
12 x 12
dodici racconti per dodici mesi
12 x 12 - DODICI RACCONTI PER DODICI MESI
© 2023 Gippo Bignozzi
Tutti i diritti riservati all’autore
ISBN 9791221458442
Made by human
gippobignozzi@gmail.com
In copertina: Puertas. Arequipa, Perù 2001
Foto di Matteo Bignozzi - http://www.nonsolo3d.it
Dello stesso autore:
UN FILO D’ODIO
ISBN: 9791221458442
0111 edizioni. 2021
I luoghi e i personaggi di questi racconti, possono avere riferimenti storici precisi, ma sono comunque frutto della fantasia dell’autore.
www.youcanprint.it
info@youcanprint.it
12 x 12
Dodici racconti per dodici mesi
Un anno di racconti, uno al mese. Piccoli viaggi in altre vite e altri momenti, attraverso muri, cortili, tempo e spazio. Qualche racconto è tranquillo e magari allegro e buonista, qualche altro fantascientifico o addirittura distopico, certi trattano argomenti piuttosto crudi e possono indurre a riflessione, altri ci metteranno, forse, un po’ a disagio, ma spero che comunque non annoino e lascino anzi qualcosa, a chi li legge.
Gippo
L’autore.
Gippo, è nato a Ferrara nel febbraio 1945, sotto uno degli ultimi bombardamenti (e pare che la cosa si noti). Ha frequentato Istituto d’arte e Accademia.
Solo verso i 70 anni, ha cominciato a cercare di mettere per iscritto alcune delle fantasie che da sempre gli frullavano per la testa e ha così scoperto il piacere è la fatica della scrittura.
Da molto tempo ha abbandonato le nebbie della pianura e vive a Merano, dove ha ambientato il suo romanzo di esordito: un filo d'odio (0111 ed.), che ha pubblicato a fine giugno del 2021, alla bella età di 76 anni.
In questo 12x12 ci propone, appunto, dodici racconti, dal primo scritto per gioco ad alcuni di quelli più recenti.
EPIFANIA
ἐπιφάνεια, epifàneia: Festa dell’apparizione.
Dio si manifesta e palesa la sua presenza con un segno,
una visione o un sogno.
La massicciata della ferrovia mi sembra alta dieci metri, questa sera.
Faccio una fatica bestia ad arrampicarmi e il freddo è terribile. Sono parecchi gradi sottozero, ma soprattutto c’è un ventaccio teso che trascina il nevischio per traverso e ti entra nel cappotto e su per i pantaloni e giù per il colletto, senza remissione.
Il naso non lo sento più e per fortuna che ho la barba lunga che mi ripara un po’ le guance e il collo.
Sono anche scivolato su questi maledetti sassi, così viscidi per il sottile strato di neve, ma poi sempre aguzzi e taglienti quando ci caschi sopra. Ho battuto il ginocchio che adesso mi fa un male cane e non ce la faccio proprio più.
Spazzolo via alla meglio la neve da un pilastrino che regge il tirante di un qualche contrappeso della linea elettrica e mi siedo un attimo a tirare il fiato.
Non è certo il posto migliore, così esposto al vento, ma non posso fare altrimenti. Nel buio mi tolgo un guanto e allungo la mano a tastarmi la botta: i pantaloni sono strappati e così anche i mutandoni di lana che porto sotto e poi sento il bagnaticcio caldo del sangue sul ginocchio. Ci mancava anche questa, sospiro, proprio un bel regalo per la Befana.
Una vibrazione mi avvisa, ancora prima che ne senta il rombo, che sta arrivando un treno. Meno male che son seduto, sennò sarei magari cascato un’altra volta. Giro le spalle alle rotaie, cerco di avvolgermi al meglio nel mio cappottaccio e mi aggrappo al tirante.
Che anno del cazzo questo: c’è un freddo boia, son pieno di dolori che ormai non riesco più a muovermi e adesso anche la neve e la botta al ginocchio. E per fortuna che siamo appena all’inizio.
Il treno passa in un turbine. Il fracasso è attutito dalla neve, ma lo spostamento d’aria mi squassa e quasi scivolo dal pilastro. Mi rimetto in piedi, biascicando qualche porco e cerco di tirare il fiato. Il vento si è un po’ calmato.
Davanti a me, nell’edificio che si intravede scuro dietro i cespugli a lato della massicciata, s’illumina improvvisa una grande finestra e mi apre la vista su una cucina, accogliente e spaziosa, che dà l’idea di essere anche bella calda.
Che invidia, che nostalgia.
Una donna, forse non più una ragazza, ma ancor giovane e bella, entra e si mette a cucinare e io la guardo e il mio stomaco sussulta per conto suo, vedendole preparare un arrosto, ma io provo una fitta dolorosa al cuore per quella sua femminilità, non curata o esibita come quando si esce, ma naturale, casalinga.
È sola, non deve nascondersi a nessuno né mostrarsi. Ha le maniche corte per il caldo della casa, mentre io fuori gelo e guardo le sue belle braccia tornite e bianche e l’ondeggiare dei capelli e dei suoi fianchi sotto il vestito leggero e piango come un bimbo di fronte alla sua bellezza e non sento più il freddo e il male alle ossa e resto incantato a fissarla.
Sono dieci anni ormai che non ho più una famiglia, né una moglie, né una casa e vivo per strada e dormo, quando riesco a infilarmici, nei treni fermi allo scalo.
Anche stasera dovrò cercare di fare così, prima di congelarmi. Anzi, bisogna che mi muova e smetta di sognare.
Mi alzo e resto a guardarla solo un attimo prima di avviarmi, ma non so come lei ha colto il mio movimento nel buio fuori dalla sua finestra e mi fissa. Forse è spaventata. Restiamo così un lungo istante, poi svelta si copre meglio il seno con le falde del vestito e fa un passo indietro, sempre fissandomi.
Allora mi volto e comincio ad arrampicarmi fino ai binari, piegato dal freddo e dall’artrosi, ma soprattutto dall’amarezza. Ormai alle donne posso solo far ribrezzo o al massimo paura. Mi volto un attimo e mi pare di vederla che si gira ed esce dalla stanza.
Sarà corsa a chiamare il marito o magari la polizia, chissà cosa si immagina e cosa racconterà.
Certo: io sono un ladro. Volevo rubarle un po’ della sua bellezza, ma la bellezza non te la porta via nessuno guardandola e apprezzandola, anzi è così che acquista valore, perché la bellezza è sterile e inutile se nessuno la gode. Però io sono un vecchio barbone schifoso e non mi è più lecito farlo.
A fatica scavalco le rotaie e scendo allo scalo più in basso dove, per fortuna, c’è un treno fermo proprio sul binario vicino. È un ‘passeggeri’ che deve essere stato parcheggiato da poco, perché quando provo la porta dell’ultimo vagone, lo trovo aperto e sento che all’interno c’è ancora caldo. Una bella botta di culo questa: non hanno ancora sbarrato gli sportelli. Quando passeranno a chiudere, io sarò dentro e ci starò tranquillo per tutta la notte.
Però non è così semplice. Il ginocchio ferito non ne vuole sapere di piegarsi abbastanza da arrivare fino al gradino e naturalmente poi cede quando cerco di alzare l’altra gamba. Così, scivolo a terra e resto un po’ lì, sul cumulo di neve morbida, a tirare il fiato, con una mano sul predellino.
La neve mi fa da cuscino e ci starei proprio bene, ma il freddo che penetra attraverso il cappotto mi dice che devo cercare di alzarmi, e presto.
Ancora un attimo, però, mi ci vorrebbe ancora un minimo di riposo, sono sfinito, ma il freddo si fa sentire sempre più forte e allora cerco di tirarmi su.
Mentre mi aggrappo al gradino intravedo un’ombra alle mie spalle e una voce mi apostrofa:
«Senta, lei».
Giro il capo adagio, sempre tenendomi al gradino e vedo che non è un ferroviere o uno della polizia che mi ha apostrofato, ma è lei: la donna della finestra.
Mi sta davanti, stringendosi addosso il soprabito e mi squadra. Dev’essere un tipo incazzoso e ostinato per venirmi dietro fin qui. Coraggiosa anche, ma perché poi se la prende tanto, cosa le ho fatto? Che palle, ho bisogno di sdraiarmi, non ne posso più. Riesco a sedermi sul predellino e la guardo sconsolato, aspettando la sfuriata.
Lei mi fissa per un po’ senza dire niente e io la guardo di rimando in silenzio e, porca vacca, è proprio bella, anche cosi in penombra illuminata a mezzo da un lampione lontano e io sento che mi sto commuovendo.
Infine lei si decide. Il tono è secco, ma le parole mi sorprendono: «Ho visto dalla finestra che zoppicava e faceva fatica a scavalcare i binari e adesso vedo che è ferito al ginocchio e siamo anche sotto zero».
Fa una pausa, mentre continua a esaminarmi con occhio critico, poi continua: «Senta, io non sono la Befana, ma lei (e prego di non sbagliarmi) non sembra una cattiva persona. Non ho nipotini a cui preparare la calza stasera, per cui, se vuole e se non la offende, le offro una doccia, un arrosto con patate, un letto per questa notte e anche una fasciatura al ginocchio. Ma badi: per questa notte sola. È il mio regalo per l’Epifania. Domani chi s’è visto s’è visto. Mi dica se le va bene».
Io non ho parole. Riesco solo a far segno di sì con la testa, ma lei mi ha già preso sottobraccio e mi aiuta ad alzarmi e mi sorregge. Mentre andiamo vuole spiegarmi e lo fa con tono sbrigativo, quasi con noncuranza:
«Mio marito è militare, in Afghanistan. La Befana la sta passando in un avamposto in mezzo alle montagne, cercando di proteggere la base per far passare ai suoi compagni una festa tranquilla. Oggi ha potuto telefonarmi e mi ha detto quanto è brutto stare sotto la neve al freddo, così quando l’ho vista zoppicare in mezzo ai binari ho pensato di fare