Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La città di Miriam
La città di Miriam
La città di Miriam
E-book165 pagine2 ore

La città di Miriam

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dev'esserci un motivo se la caducità della natura viene spesso, metaforicamente, accostata a quella dell'amore... In una Trieste autunnale, il giovane istriano Stefano Marcovich è ospite presso la prestigiosa famiglia dei Cohen. La figlia Miriam, destinata a diventare sua moglie, si staglia come un faro di stabilità in mezzo a un mare di avventure erotiche sconclusionate, che trascinano continuamente Stefano nel baratro dell'adulterio. L'amore per – e di – Miriam, tuttavia, è più forte di ogni altra cosa: non è solo complicità, affetto, attrazione fisica. Esso, al contrario, è tutto ciò che può essere la natura umana: necessità di sicurezza, ricerca dell'ignoto, paura e disperazione. Con questo romanzo straordinario, che studia l'amore con disincanto e sensibilità, Fulvio Tomizza trasmette a chi legge una celebrazione senza tempo, tanto sincera quanto vivida, del fenomeno più enigmatico fra tutti.-
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2023
ISBN9788728560419
La città di Miriam

Leggi altro di Fulvio Tomizza

Autori correlati

Correlato a La città di Miriam

Ebook correlati

Narrativa di formazione per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La città di Miriam

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La città di Miriam - Fulvio Tomizza

    La città di Miriam

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright ©1972, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728560419

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    A Niccolò

    I

    È una città autunnale. Non solo guardandola attraverso le coltrine gialle del salottino, ma anche penetrandovi, camminando per le vie ora che è marzo, otto mesi fa che eravamo di luglio, fra dieci che sarà gennaio. Ha appena smesso di piovere, s’infiltra un vento frizzante e la gente compare imbacuccata e un poco trasandata sotto a ferragosto: il cielo tra le cupole della chiesa serbo-ortodossa e le statue di Sant’Antonio è di un azzurro cupo e lontano, appena solcato da graffi bianchi come il mare se visto dall’alto.

    Regolarmente, quando scendiamo dal treno – possiamo provenire da Madrid o da Londra, da Venezia o Milano, possono essere trascorsi un giorno o un mese di assenza – donne sono in attesa col capo avvolto in fazzoletti di seta già svolazzanti. Nel soffio che ci scompiglia i capelli cerchiamo di prenderci a braccetto nonostante i bagagli; senza dirci niente ci scambiamo un bacio che dovrebbe essere l’ultimo e inaugura invece il ritorno nella nostra unica aria.

    Da anni cammino con questa precisa sensazione che covo dentro come una piccola scoperta, e ogni tanto mi fermo a contemplarla: signore alte in maglioni confezionati a mano mi scivolano accanto con sguardi insistenti e malfermi, quasi ubriachi. Ci si conosce un po’ tutti e saluto io per primo con una perentorietà che non consente replica, esattamente il contrario di quanto mi accadeva in gioventù. Sarebbe non troppo difficile, ma per me impossibile, seguirle in uno dei buffet fumanti di salsicce, infervorarsi a freddo sulla birra sapendo entrambi di mentire, per concludere la serata in macchina o forse a letto. Discorrere ogni tanto non mi dispiacerebbe, ma è l’altro che pavento, ed è proprio questo eventuale esito a regolare il mio saluto e lo sguardo, certe volte perfino i passi. Non c’è tuttavia ansia in me, né timore né precipitazione. Semplicemente è lo spedito e un po’ guardingo procedere che si confà a una natura particolare o forse del tutto normale; nel caso in questione, è come fossi io donna mettiamo in un paese del Sud, e sempre meno mi accorgo delle intenzioni degli altri. Oppure se me ne avvedo, ossia se torno un momento indietro a quello che ero, mi capita di sorridere: in fondo io solo so del mio vero stato, come pure del segno distintivo di questa città.

    Sorrido anche per altro, se lungo Ponterosso mi imbatto in un gruppo di jugoslavi stracarichi di pacchi e che pure fermano una delle signore dagli occhi ebbri per chiederle di un vicino negozio, e quella prosegue con un rifiuto che è più brusco, meno urbano, del mio di poco prima a lei. Rispondo io, indifferentemente in sloveno o croato, e inquadro l’intera scena degli scalcagnati che si allontanano urtandosi e della donna di un’eleganza ormai spontanea che si affretta impettita alle loro salsicce. Il groppo di contraddizioni si scioglie quasi allegramente nella mia armonia, mentre lo sguardo si leva spontaneo sui muti palazzi dalle finestre tutte accecate dal tramonto.

    All’angolo di Sant’Antonio mi scontro un giorno in due occhi più azzurri, di una familiarità certo non più attuale ma che con mia stessa sorpresa mi costringe a un gradevole sforzo di memoria. La donna che l’accompagna mi riesce invece del tutto estranea. Sotto i capelli tinti orrendamente di nero, d’improvviso ricordo: sono le gengive ad aiutarmi e soprattutto quella specie di foglietta nel mezzo, di una tenerezza infantile e insieme di una nudità addirittura clamorosa. «Finalmente» commenta, e io balbetto in sloveno come va a Lubiana.

    Che cosa non avrei dato al portiere dell’Evropa perché mi lasciasse portarla nella mia stanza quando ero riuscito a trascinarla su per la scala interna del night sotterraneo. Il custode non mollava perché il collega del turno di notte era sicuramente del partito, e io fremevo avendone sentito l’orgasmo durante il ballo, una scossa rapida e ripetuta dalle mani alle ginocchia che cedettero senza controllo, e a stento evitai una scazzottata con l’accompagnatore, un amico di famiglia perché il marito era in carcere. Ci lasciammo disperati sulla neve davanti all’albergo e la rivedevo solo ora.

    «Ti fermi?» continuo a balbettare, e poi: «Ci vediamo?» solo per dovere di ospitalità. La grossa donna al fianco interviene quasi subito: «Potreste andare al Bàlkan, è un luogo così pulito e non costa caro.»

    Non ho il tempo, come mi piacerebbe, di commentare dentro di me l’intraprendenza dei nuovi commercianti cittadini nel ribattezzare i loro alberghetti e le italianissime botteghe, così come vedendola sorridere un poco imbarazzata alle grossolanità della compagna, timida e fiera dei quattro occhi di madre e fidanzato posati su di lei che lo fa ormai per soldi, mi limito a dirmi: Che creature meravigliose sono le donne, dovrò un giorno scrivere qualcosa di serio sulla donna. Urge invece trovare un pretesto, un malaugurato impegno, dandole il nome di un bar in viale XX Settembre a due passi da casa, perché nell’eventualità assai improbabile che me la senta veramente di saldare quel vecchio debito, possa almeno avere la protezione della moglie o sia addirittura lei a spingermi. Ma nel lasciarla ho la netta sensazione che non ci andrò e so pertanto che lei non mancherà di aspettarmi: a differenza di loro, provo un po’ di pena e di vergogna, non soddisfazione.

    Appena rincasato racconto naturalmente ogni cosa. «E perché non ci vai?» risponde allegra Miriam sedendomisi sulle ginocchia, come sempre incurante della nostra diversità anatomica.

    «Non riuscirei a cavarmela solo al bar e d’altro canto vorrei ricordare quei miei giorni a Lubiana.»

    «Le dici che hai un impegno. Devi essere a casa per la cena.»

    Risposta giusta per noi due e netta ormai anche da parte sua, tuttavia rido: «Che bel maschio pieno d’impegni e che deve cenare con la moglietta. Non sai come usa tra veri uomini?»

    Non lo sa interamente, nonostante i dieci anni con me; a pensarci, è stata proprio questa sua incapacità di saperlo, di raffigurarselo, ad avermi cambiato. «Partita chiusa» stabilisco, «che aspetti.»

    Lei è pronta ad aiutarmi, a tentare di aggiustare come sempre ogni cosa: «Forse non viene.»

    Con sicurezza involontariamente spavalda, avendolo pensato in strada, taglio corto: «Viene, viene; appunto perché io non ci vado.»

    Il tono mi ha rimesso in una luce d’altri tempi e lei scivola un po’ fuori dalla nostra piena intesa col domandarmi: «Devo dunque prepararti la cena?»

    Sono i rari momenti nei quali ancora la picchierei. La riprendo sulle ginocchia. «Come puoi immaginarti, solo immaginarti, che mi possa interessare?» e incontro la sua pelle lucida. La bacio. Al di là di ogni sicurezza, aveva riprovato un residuo di ansia che si scioglie con piccolo schianto per trascinarmi nella liberazione raggiunta. «Ora no» è in piedi, «devo preparare la cena.»

    Di nuovo padrona di sé, tiene ancora a precisare. «Volevo semplicemente dire che non è bello far aspettare la gente.» Se n’è andata e devo gridarle dietro: «Non è bello soprattutto mentire, ipocrita!»

    Dentro la prospettiva della cena, di un po’ di lettura o musica e dell’abbandono finale, riconquisto intimamente il mio spazio vero, la mia felicità. Non la ragazza né il suo orgasmo nel ballo, quanto invece la dolorosa voglia prima di conoscere lei, Miriam, potrà forse affiorare nel nostro dialogo serale a voci sommesse.

    Odo bussare alla porta, non può che trattarsi di uno dei suoi scherzi. Pur prevenendola, rimango per un attimo stordito. Vestita a colori vivaci come immagina sia stata la ragazza dell’incontro, le labbra esageratamente tinte di rosso, avanza disinvolta, apre una borsetta che le regalai col mio primo articolo stampato e lascia cadere un biglietto sul quale è scritto Bàlkan. Le corro dietro nella camera da letto, ridiamo entrambi, divertiti del suo fare le cose a puntino soltanto nel gioco; non so proprio dove abbia pescato quelle calze verdi a rete fin su.

    Ha parodiato tutti, lei timida che stenta a dare il buongiorno e apertamente stona quando è costretta a rispondere col tu a un ragazzo. Mi si è presentata vestita e truccata da baiadera, gitana, geisha, da finta candida e da conquistadora, a seconda delle terre che avevo visitato e delle donne nostrane con le quali avevo avviato i miei miseri approcci. Mi ha scritto lettere in lingue diverse e molto approssimative, con errori ed accentazioni che anche da assai lontano mi restituivano intatte la voce e le sue smorfie né volgari né goffe. Il suo gusto è di graffiare, ma senza unghie, quel che di troppo emerge da un Paese come da un tipo umano atteggiato a impersonare valori superpositivi, quali passionalità irrefrenabile, intransigenza morale, fatalismo, eroismo. Non per niente è una patita di Wagner, osserverebbe freudianamente suo padre, il quale mi raccontava che da piccola imitò gran parte dei direttori saliti sul podio del nostro Comunale e tutte le cantanti (ma e padre e figlia, aggiungo io, rinunciarono al Tristano o al Parsifal perché la televisione presentava quella sera una comica di Chaplin). A chi va indirettamente attribuito il declino della carriera del promettente, ma troppo meridionale Dantò, che da ultimo veniva interrotto durante le prove da risatine ordite dietro le sagome dei violoncelli e invano soffocate fin sullo spartito del violino di spalla. Fedele però alla propria natura che, oltre a osservare spontaneamente la segregazione del suo gruppo dagli altri, ha con maggiore scioltezza accettato la linea di demarcazione tra i due sessi che vige tra gli ebrei, il bersaglio preferito erano e restano le donne. Sua madre, finita la guerra e ricompostasi la famiglia, dovette compiere un’altra rinuncia, quella di mettere da parte le proprie ambizioni di soprano, dopo che i suoi gorgheggi venivano puntualmente pappagalleggiati dalla figlia che anche nel pianto, seguito a un manrovescio, le proponeva per sommi capi un’aria della Butterfly o della Traviata. Una sola volta sono riuscito a trascinarla a un ballo pubblico: pestò i piedi a tutti i miei colleghi che con nostra piena soddisfazione la riportarono al mio tavolo; ma, giunti che fummo a casa, volle esibirsi in un tango argentino con tale abbandono che, non lesto abbastanza a sorreggerla, la lasciai battere il capo sul mobile dell’Enciclopedia britannica.

    Ancora sui dieci anni si temeva avesse ereditato la miopia del padre per l’evidenza perfino penosa con cui in strada non riconosceva le donne della casa di fronte e per lo sforzo che impiegava a scrutarle una volta che veniva fermata. «Peccato» consolavano la madre con una partecipazione in cui la figlia del dottor Cohen non poteva non avvertire il latente godimento. Ed eccola per lunghi pomeriggi a compitare alla finestra della cucina che dà sulla corte, il naso schiacciato sul quaderno e un paio di occhialoni che ne avvilivano il volto. Erano senza lenti e, con la costanza e la cura del dettaglio proprie del timido e quindi della persona che mira al successo incondizionato, lei se li levava e stancamente ne appannava con l’alito gli inesistenti cristalli e li detergeva a lungo col fazzoletto, finché un giorno che si sentiva osservata con particolare insistenza salutò le comari affacciate al poggiolo infilando le dita nei cerchietti vuoti.

    La sola persona di cui non si sia mai presa gioco credo di essere io, l’unico essere che lei si sia proposta di trarre a sé totalmente. Ma d’improvviso mi domando se questa vigile ed estenuante posta con la quale ha atteso la mia piena resa non possa dirsi il suo programma più ambizioso, condotto scientemente o meno con mezzi anche di stile diverso e con quelli che andava via via acquistando nel proprio progredire di donna. E mi chiedo poi se queste sue attitudini più esterne e immediate (parodia, burla, imitazione) non siano state indirizzate ad altri nel solo intento di toccare indirettamente me, per spogliarmi alla fine di tutti gli atteggiamenti accumulati in una giovinezza incontrollata ed avermi integro ed essenziale come il platano difronte a casa nostra che in questo effettivo inizio d’autunno è già svestito di tutte le foglie, ieri lievitanti ancora al suolo dopo un colpo di bora, oggi stampate sul cemento da una fitta pioggia.

    Ho preso le ferie, che quest’anno per la prima volta si è deciso di trascorrere a casa, e sto cercando di ricostruire la storia di questo rapporto ora così accecante da sembrarmi un attimo ininterrotto e che invece ha pur avuto le sue tappe, i suoi sviluppi, come i suoi cedimenti. Gli appunti, i sogni, gli scarabocchi spesso indecifrabili che trovo in una cartella verde della mia scrivania, nonostante tutto parlano a questo riguardo con sufficiente chiarezza.

    È la terza o quarta volta che li scorro o letteralmente me li bevo nel giro di questi due primi giorni, e oggi posso

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1