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Obedibasa
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E-book159 pagine2 ore

Obedibasa

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Info su questo ebook

Ci sono storie che sembrano trovare origine in una zona crepuscolare, una dimensione di solito celata nelle pieghe del tempo, che ogni tanto invade la realtà portando scompiglio. E' il caso di questi otto racconti, diversi tra loro ma tutti in qualche modo caratterizzati da un elemento misterioso che irrompe nel quotidiano e costringe i personaggi a deviare verso direzioni impreviste, talvolta inquetanti. Obedibasa è un'incursione nell'improbabile, ma non così assurda da non risultare plausibile.
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2019
ISBN9788831653206
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    Anteprima del libro

    Obedibasa - Gherardo Scarpellini

    633/1941.

    PULLMAN

    Guardo l’ombra che mi precede, proiettata di sbieco sul selciato del piazzale, mentre cammino spedito davanti a mia madre e mia sorella. Non vedo l’ora di salire sul pullman. Sono stanco, frastornato e ho le rane nello stomaco per tutta l’acqua mandata giù dopo quel panino di gesso col prosciutto di cartone. Finite le coche e le fante, tutte le riserve idriche prosciugate dall’esercito dei fedeli, non mi restava che attaccarmi alla fontanella dietro la torre, meno male che l’avevo vista passando. Col sole basso la mia ombra è piatta e bislunga come un cartone animato investito da uno schiacciasassi. A usare l’ombra come vela si potrebbe volare quasi rasoterra come in certi sogni, leggeri, veloci e gratis. Un colpo di vento, al massimo una scoreggia per partire e via, tutto un biscione di pellegrini in trasferta tra una basilica e l’altra. Questa la dico ai miei amici, tanto per ridere un po’.

    Quando la mamma ha detto che saremmo venuti in gita ad Assisi ho storto il naso, non mi andava l’idea di fare tutti quei chilometri per visitare una chiesa. In questo sono come papà, che si dichiara ateo. E poi la domenica lui va a suonare, così aveva la scusa buona per non accompagnarci. Mamma invece è credente, dice che bisogna visitare i luoghi della fede. Io le ho chiesto se si può essere un po’ atei e un po’ religiosi, tanto per non scontentare nessuno. Lei mi ha guardato male, ha risposto che con certe cose non si scherza.

    Comunque, adesso che ho visto gli affreschi di Giotto, azzurri e dorati e in fila sulle pareti di quella basilica gigantesca, sono contento che siamo venuti qui e credo di aver scoperto cosa voglio fare nella vita. Raccontano delle storie, quei quadri, con i personaggi messi di sbieco, più grandi delle case dalle linee storte, almeno si vede che sono dipinti a mano e non sembrano delle fotografie. Sono rimasto molto colpito e ho deciso che da grande farò il pittore, o almeno il disegnatore di fumetti. Ho già in mente un personaggio.

    Riconosco da lontano il nostro pullman bianco striato di rosso, parcheggiato in mezzo agli altri. Vedo che ha la portiera aperta, mi metto a correre, lo raggiungo e salgo al volo. È ancora vuoto, mi lancio lungo il corridoio fino ai posti in fondo, i migliori. Si sta larghi e ci si può allungare.

    Sono già disteso, impegnato a roteare le gambe in aria più veloce che posso quando sale mia sorella. Litighiamo subito. Lei dice che a stare dietro le viene da vomitare, io dico che all’andata siamo stati davanti, si fa una volta per uno. Non mi va di dargliela vinta perché è più piccola e bisogna capirla, come dice la mamma, che è appena salita. Lei interviene e mi dà ragione, strano, non me lo aspettavo. Per un po’ la sorellina mi tiene il muso ma poi si rassegna. Facciamo la pace e mi metto a leggerle un Topolino, cosa che le piace da matti e di solito la fa addormentare dopo cinque minuti. In fondo le voglio bene, anche se sa strillare più forte di un’autoambulanza e quando non si lava le puzzano i capelli di pipì.

    Siamo partiti da un quarto d’ora; fuori sta venendo buio, allungo la mano verso l’interruttore sopra di me e accendo una luce dal fascio stretto che si può anche regolare e dirigere. Ci gioco un po’ poi mi stufo e guardo davanti. Adesso tutti i posti sono occupati, molti hanno acceso le loro lucine e chiacchierano, si raccontano quello che hanno visto durante la giornata. Qualcuno ride, soprattutto le donne, che ridono più dei maschi.

    Mi metto in ginocchio al contrario sul sedile, le braccia incrociate e il mento sul poggiatesta. Osservo da dietro il paesaggio che scorre via e mi fisso sul gioco scemo di beccare il momento preciso del passaggio tra il giorno e la notte. Ci ho già provato una volta in treno e non ci sono riuscito, perché dopo un po’ qualcosa mi ha distratto, come adesso mia sorella che si è svegliata e mi sta tirando la manica della felpa. Mi giro per dirgliene quattro, lei sorride e mi porge mezzo limone da succhiare, contro il vomito, dice. Torno a sedermi, do una leccata al limone e arriccio il naso, faccio gli occhi a fessura come un cinese e la bocca da coniglio e la guardo da distanza ravvicinata. Lei cerca di imitarmi, sembra una talpa strabica e spelacchiata. Glielo dico, lei ride, dice che io sembro un topo morto. Passi per il topo, ma morto poi no. Le spiaccico il mezzo limone sul nasino e lei si mette a urlare, chiama la mamma, tutta la solita commedia, insomma.

    Facciamo di nuovo la pace e lei vuole che le racconti una storia, una di quelle inventate al momento. Sa che inventare storie mi piace, furba lei, adesso se ne sta lì accovacciata, vigile e attenta come un segugio di fronte alla scodella della pappa. Io prendo in prestito dalla realtà circostante e comincio a descrivere un’improvvisa crisi di vomito di tutti i passeggeri del pullman e noi due che andiamo in giro a vendere limoni. Poi c’è una frenata brusca dell’autista, e tutti ingoiano il limone che stanno succhiando, glup, quando faccio il gesto mia sorella ride forte e batte le mani.

    «Ancora, ancora!» dice, con gli occhi sgranati e il respiro corto, ma la mia storia è già finita.

    Lei insiste, io sto per mandarla a quel paese quando mi viene in mente il personaggio che ho inventato mentre camminavo sul piazzale. Allora parto con un assalto di terroristi travestiti da pellegrini che si impadroniscono del pullman con tutti i passeggeri a bordo e vogliono dirottarlo verso Genova (la prima città che mi è venuta in mente). Sono incappucciati, vestiti di nero e urlano come se fossero tutti sordi, ordinando alla gente di non muoversi e minacciando di buttare tutti i bambini fuori dal finestrino.

    Raggiungo l’effetto di spaventarla ma non abbastanza da dirmi di smettere. È lì con gli occhioni sempre più dilatati che pende dalle mie labbra, questo è il momento di far entrare in scena il mio personaggio nuovo di zecca. Lo faccio venir fuori a sorpresa dalla porticina della toilette, agile, muscoloso e armato del suo micidiale pennello: Super Giotto! Eccolo che avanza deciso contro i terroristi menando fendenti che tracciano nell’aria strisce di azzurro, di rosso e di giallo. I colori si condensano, prendono vita, per un po’ volteggiano a mezz’aria, poi cominciano a ruotare vorticosamente e si fiondano sui cattivi avvolgendoli come tanti salami colorati. Al loro posto rimangono delle figure dipinte, fissate nelle pose degli affreschi che ho visto oggi, santi con l’aureola, angeli con le ali, mansuete pecorelle che a poco a poco si sgretolano fino a diventare polvere.

    A questo punto mi aspetto un applauso ma mia sorella ha appena fatto uno sbadiglio più grande della sua faccia e sta lottando invano per tenere gli occhi aperti. Sono sicuro che si è persa il finale della storia. Peggio per lei, sta fresca se vuole che gliela racconti di nuovo.

    È già da un’ora che siamo in viaggio. Dai finestrini si vedono solo le scie luminose delle auto che incrociamo e dentro al pullman molte luci sono spente. La gente parla più piano adesso, quasi bisbiglia. La mamma invece si è messa a cantare insieme a due donne grasse che stanno sedute davanti a noi. Ha una bella voce, calda e rotonda, mi è sempre piaciuto ascoltarla cantare ma ho anche voglia di muovermi, di sgranchirmi le gambe.

    Mi alzo in piedi e cammino lentamente tra i sedili, lungo il corridoio, fino quasi alla vetrata anteriore. Mi fermo a guardare il pezzo di strada illuminato dai fanali che ci viene incontro, la linea bianca tratteggiata in mezzo, continua nelle curve. Il pullman si sta ingoiando l’asfalto come un vermone dall’appetito insaziabile. Sbircio in basso, sulla sinistra, dove l’autista è ingabbiato nel suo posto di guida, le mani ferme sul volante enorme. Mi sporgo in avanti per guardare meglio e in quel momento lui si volta verso di me. Incrocio il suo sguardo nella penombra e faccio un salto all’indietro. È stato solo un attimo, si è subito girato di nuovo verso la strada ma quello che ho visto non mi è piaciuto. Ha un faccione strano quello lì, tondo, liscio e pallido come una maschera di porcellana, e i suoi occhi piccoli fanno paura. Torno in fretta al mio posto, forse non gli va che la gente passeggi avanti e indietro sul pullman.

    È stata una giornata faticosa ma non ho per niente sonno. Mi appoggio allo schienale con le mani dietro la nuca; devo trovare qualcosa da fare per passare il tempo. Guardo sopra di me i corrimani di metallo che viaggiano paralleli per tutta la lunghezza del corridoio, fissati ai ripiani per mettere i bagagli, e mi viene un’idea. Mi levo le scarpe e monto in piedi sul sedile. Il contatto delle mani col freddo dell’acciaio è piacevole, e stringo forte. Ci siamo, d’ora in poi saremo in due a pilotare questa astronave.

    Dalla mia postazione posso controllare la strada, non mi resta che aspettare la prima curva per verificare se i comandi rispondono a dovere. Ecco, vedo la curva avvicinarsi, mi basta spostare leggermente il peso a sinistra e il pullman comincia una lenta virata a destra. È così che si fa, basta spostare i pesi. Semplice ma non facile: dev’essere una pressione controllata, un movimento costante, e al momento giusto bisogna raddrizzare, tornare al centro per mantenere stabile la rotta. Fantastico, meglio di quella volta che lo zio Gino mi ha fatto guidare il trattore nel suo campo per un centinaio di metri.

    Mi sento tirare per la manica della felpa. È la mamma. Tutto bene? Si, tutto bene, sto guidando, Ah, bravo, dice lei, stai attento a non cadere e non svegliare tua sorella. Non ci penso neanche. Riprende a cantare con le sue amiche, è una canzone malinconica, quasi triste ma non importa, la sua voce mi tiene compagnia.

    Sto diventando bravo: intuisco le curve, le imposto e le supero. Ho anche assunto il controllo del cambio. Sono molto impegnato a scalare le marce per affrontare le salite e a frenare nelle discese. I più difficili sono i tornanti, finita la superstrada ci siamo immessi nella statale che porta al paese. È il tratto più lungo e anche il più tosto. Devo mantenere la concentrazione, è una grande responsabilità...

    «Basta, ho deciso, la faccio finita.»

    Chi ha parlato? Scruto nella penombra davanti a me alla ricerca di un indizio, un movimento, qualcosa che mi rassicuri, perché quella voce aveva un tono da brividi. Ma oltre alle prove generali, qui vicino, per il prossimo festival di Sanremo, mi arriva il solito bisbigliare tranquillo e un paio di sbadigli, da anticamera del sonno. Nient’altro. Forse ho captato le onde cerebrali di un extraterrestre in ricognizione sopra di noi con il suo aspirapolvere volante.

    «Ma si, chi se ne frega, un bel volo e bum! Fine di tutti problemi. Tanto questi sono buoni e vanno tutti in paradiso.»

    No, voglio dire, stavolta sono sicuro, questa voce risuona forte e chiara e non sta scherzando, si capisce benissimo che fa sul serio. Ma perché fanno tutti finta di niente, possibile che non abbiano sentito? Calma, un bel respiro, ecco, così, adesso un altro. Va bene: è solo suggestione, lo sai che quella voce non esiste, e che comunque una voce non può parlare direttamente nella tua testa, te lo dicono sempre che hai troppa fantasia.

    «Gliela faccio vedere io a quei figli di puttana, marocchini, terroni, politici del cazzo!»

    Eh no, non me lo sto inventando, c’è qualcuno qui che vuole farci del male, se è uno scherzo ditelo, per carità. Scruto ancora disperatamente intorno a me. Non c’è uno, dico uno, che abbia voltato testa o si sia alzato a chiedere cosa succede. Perché nessuno si muove? Un momento, potrebbe essere una trasmissione radiofonica. Però la sento solo io, e non ho mica le cuffie. Non quadra, non ha senso. Ho paura.

    «In fondo basta niente: il piede ben pigiato sull’acceleratore, le mani su dal volante, gli occhi chiusi e via. Alla prima curva siamo fuori.»

    D’impulso acchiappo i due corrimano che avevo lasciato andare per la sorpresa e stringo con tutte le forze. Ho

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