Gioventù bloccata: Il difficile passaggio dalla scuola al lavoro in Italia
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Alcune delle parole chiave di questo libro possono servire per passare dalla teoria alla pratica. Per cambiare le teste. E cambiare il mondo del lavoro. Proprio a partire dal passaggio più critico, quello della transizione dalla formazione al lavoro.
Dalla prefazione di Eleonora Voltolina, autrice e fondatrice di Repubblicadeglistagisti.it.
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Recensioni su Gioventù bloccata
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Anteprima del libro
Gioventù bloccata - Valentina Magri
Prefazione
di Eleonora Voltolina*
Quando si parla di giovani, in Italia, e del problema della disoccupazione giovanile e dei giovani che non trovano la loro strada e che rimangono eterni Peter Pan a casa con mamma e papà fino a trent’anni e passa, ci sono tre grandi filoni di riflessione e narrazione.
Il primo è piangersi (e pianger loro) addosso, raccontandoli come vittime e selezionando accuratamente le storie più strappalacrime, gonfiando ogni difficoltà affinché acquisti le proporzioni di una tragedia e cercando i protagonisti più arrabbiati e disperati. Questo è un modo drammatico che piace molto ai giornali e in particolare alle televisioni, al «circo mediatico» insomma, perché fa notizia in senso sensazionalistico: anziché raccontare la vera realtà quotidiana di migliaia di giovani – una realtà media, mediamente difficile, con alti e bassi, con difficoltà ma anche storie di successo – fa molto più effetto puntare i riflettori sui casi limite, le storie commoventi, talvolta addirittura tragiche. «Povero ragazzo, ha fatto tredici stage non pagati, ha avuto settantasei contratti a progetto senza un vero progetto, ha tre lauree ma lavora in un call center, guadagna duecento euro al mese e vive ancora con i genitori, i nonni e nove fratelli. Il mondo è stato ingiusto con lui, non vi fa un po’ pena?»
Il secondo è dare la colpa a loro. Dire che se si trovano in questa condizione – poco valorizzati sul mercato del lavoro, poco pagati, bloccati in una eterna condizione di «figli» – è perché non sono abbastanza intraprendenti, non vogliono fare sacrifici e si aspettano di ricevere tutto su un piatto d’argento: «Ah, sapeste all’epoca mia, i fossi per lungo che ho dovuto saltare! E voi invece avete tutto e ancora vi lamentate!». Secondo questo filone colpevolista, se i giovani italiani si dessero una smossa avrebbero magicamente contratti di lavoro buoni, stipendi adeguati, possibilità di carriera appaganti. Ma sono bamboccioni viziati, che non si impegnano abbastanza.
Il terzo filone è, all’estremo opposto, deresponsabilizzarli, come se la loro condizione fosse una tragedia immutabile dovuta esclusivamente a fattori esterni: la situazione economica difficile dell’Italia, le ingiustizie generazionali perpetrate dalla politica negli ultimi quarant’anni, i tagli ai fondi per la pubblica istruzione, e poi le varie crisi economiche che si sono succedute, ora perfino la pandemia. È la visione fatalista in cui i giovani sono passivi, impossibilitati a incidere sul loro futuro se non in maniera marginale e spesso accidentale. «Avete avuto sfortuna, ragazzi, abbiate pazienza. Siete arrivati nel momento sbagliato.»
Il filone drammatico, quello colpevolista e quello fatalista si ritrovano pari pari anche nella narrazione dei problemi legati allo stage, di cui mi occupo da oltre dieci anni con la testata giornalistica che ho fondato, Repubblicadeglistagisti.it, proprio per dare voce ai giovani nel delicato momento di transizione dalla formazione al lavoro e proporre soluzioni per incentivare un utilizzo virtuoso dello strumento dello stage.
Per la cronaca, quando si parla di stage a questi tre filoni se ne aggiunge un quarto: quello negazionista, composto da coloro per cui il fatto che il tirocinio formativo abbia praticamente sostituito qualsiasi altra forma di ingresso nel mondo del lavoro, abbia per molti versi cannibalizzato l’apprendistato, venga troppo spesso abusato prevedendo stage anche per «imparare» mansioni elementari e ripetitive, e rappresenti di fatto un’alternativa immensamente conveniente per i datori di lavoro pubblici e privati rispetto ad assumere veramente, con veri contratti di lavoro, offrendo vere retribuzioni e tutele adeguate, non sarebbe poi così grave. (Fortunatamente i negazionisti non sono così tanti, ma quando ricoprono ruoli di potere, be’, è un bel problema…)
Ma la bella notizia è che c’è la prova provata che le cose possono cambiare: la nostra battaglia contro gli stage gratuiti, combattuta e vinta – anche se solo parzialmente, finora – con l’introduzione in Italia, tra il 2012 e il 2014, di una serie di normative regionali che hanno finalmente vietato la gratuità per i tirocini extracurricolari. La grande ingiustizia degli stage gratis è stata, se non risolta, almeno arginata, e a beneficiarne sono state le circa 350.000 persone all’anno che fanno stage extracurricolari in Italia (parliamo di numeri in anni pre Covid, naturalmente: nel 2020 le opportunità di tirocinio si sono praticamente dimezzate, e non per le buone ragioni, purtroppo). Sono rimasti fuori i circa – nessun organo ufficiale li conta – 150.000-200.000 stagisti curricolari, quelli che fanno uno stage mentre stanno svolgendo un percorso di studi formalmente riconosciuto, come gli studenti universitari o gli allievi di master: per loro la battaglia continua, perché possano avere le stesse garanzie e tutele.
Nei tre filoni a cui ho accennato si tralascia completamente, infatti, un piccolissimo dettaglio: e cioè che le cose, volendo, potrebbero cambiare. Anzi, si potrebbero cambiare. Non è scritto sulla pietra che due terzi della spesa pubblica per il welfare debbano essere spesi per forza in pensioni. Le politiche si possono modificare, anche invertire se necessario. E anche la cultura si può cambiare. La cultura in senso sociologico, ovviamente: quell’insieme concatenato di modi di pensare, sentire e agire appresi e condivisi da una pluralità di persone, in un dato territorio e momento storico. Oggi le famiglie italiane sono chiamate a fungere contemporaneamente da ammortizzatore sociale, centro per l’impiego, servizio per l’infanzia e perfino a dover garantire in banca il mutuo per l’acquisto della casa del pargolo (spesso ultratrentenne), che col suo contratto precario, o con il suo stipendio troppo basso – o entrambi – non offre sufficienti garanzie. Hanno appreso e condiviso questo ruolo, e lo svolgono come meglio possono. È una cultura che ha salvato la situazione per decenni, certo: ma è anche una cultura iniqua, perversa, che blocca l’ascensore sociale e perpetua le posizioni consolidate, condannando chi proviene da famiglie poco abbienti a restare ai margini e avvantaggiando, spesso senza alcun aggancio con il merito, chi invece può contare su una rete familiare privilegiata.
Alcune delle parole chiave di questo libro – «Conoscere per deliberare», innanzitutto – ritengo possano servire per passare dalla teoria alla pratica. Per cambiare le teste. E cambiare il mondo del lavoro. Proprio a partire dal passaggio più critico, quello della transizione dalla formazione al lavoro.
Il pregio del libro è quello di fare una panoramica della situazione senza sconti a nessuno. Viene raccontata la situazione, i fatti snocciolati uno dopo l’altro, perché ciascuno faccia buon uso di queste informazioni. I genitori e gli insegnanti potranno usarle per orientare meglio i propri ragazzi. I politici e gli amministratori pubblici potranno avviare riflessioni su questi dati, e se condividono alcune delle proposte avanzate dagli autori potranno magari provare a realizzarle. Ma la mia speranza è che anche qualche ragazzo senta una sveglia. C’è bisogno di ragazzi più consapevoli. Che sappiano salvare se stessi, certo. Ma che abbiano anche voglia di salvare il mondo (a volte vale la pena di pensare in grande!). Magari cominciando proprio a fare qualcosa in prima persona per cambiare il mondo del lavoro italiano, ancora ben poco accogliente e leale verso le nuove generazioni.
* Giornalista, nata nel 1978, nel 2009 ha fondato la testata online Repubblicadeglistagisti.it, punto di riferimento per i giovani nel momento di passaggio dalla formazione al lavoro. È autrice dei libri La Repubblica degli Stagisti. Come non farsi sfruttare e Se potessi avere mille euro al mese. L’Italia sottopagata, pubblicati da Laterza. Nel 2017 è stata nominata Ashoka Fellow da Ashoka, tra le più importanti ONG al mondo per innovazione e impatto secondo la classifica di NGO Advisor.
Introduzione
C’è chi cerca lavoro, ma non lo trova. C’è chi si è stancato di cercarlo e chi non ci ha mai provato sul serio. C’è chi il lavoro ce l’ha ma non è comunque soddisfatto, perché si tratta di un lavoro precario o perché non possiede le competenze giuste per svolgerlo. Sono giovani, italiani, bloccati in situazioni lavorative spiacevoli, anche (ma non solo) per colpa della crisi innescata dal coronavirus e dall’inflazione.
Questo libro è dedicato principalmente alla gioventù italiana. Ma anche alle famiglie di questa gioventù, che si trovano dinanzi a un mercato del lavoro totalmente diverso rispetto a quello in cui sono entrati gli adulti in giovane età (sebbene non sempre se ne rendano conto).
Ci rivolgiamo inoltre alle scuole e alle imprese, anch’esse protagoniste del passaggio dei giovani dal mondo della scuola a quello del lavoro. Ci concentriamo infine su tutti coloro che desiderano tenersi informati su quello che accade oggi in Italia grazie a un’analisi di fatti e dati priva di pregiudizi: accademici, persone che a vario titolo si occupano delle transizioni scuola-lavoro, gente comune che vuole saperne di più sulla disoccupazione giovanile.
Ci piacerebbe contribuire, pur nel nostro piccolo, al dibattito tra scuole, imprese, politica, famiglie e giovani, sulla transizione dalla scuola al lavoro, al fine di riflettere sulle cause del difficile inserimento occupazionale dei giovani italiani.
Le pagine che seguono daranno voce sia a esperti di fama nazionale e internazionale sul tema del passaggio dalla scuola al lavoro sia ad alcuni dei diretti protagonisti di tale passaggio: giovani disoccupati, inattivi, manager, studenti che hanno partecipato a percorsi di alternanza scuola-lavoro e apprendistato, docenti e imprese che li hanno promossi. Nella redazione di questo saggio per ovvi motivi ci siamo avvalsi dei risultati delle ricerche di diversi autori. Ci scusiamo in anticipo con i lettori se qualcosa ci è sfuggito. Per tutti coloro che volessero approfondire il dibattito sul tema del lavoro per i giovani, a fine libro abbiamo inserito una bibliografia dettagliata con tutte le fonti e gli autori consultati, che cogliamo l’occasione per ringraziare per il loro contributo sul tema.
Il libro è strutturato in dodici capitoli. Nei primi due forniamo una spiegazione circa i problemi lavorativi dei giovani e inquadriamo il problema della transizione scuola-lavoro, specificando i diversi percorsi che la determinano (diploma/laurea/abbandono degli studi universitari), nonché i tempi associati e le percentuali di giovani italiani che seguono ognuno di questi percorsi. Ci soffermiamo inoltre sui tempi necessari per trovare un lavoro e su quello dei successivi passaggi da un lavoro precario a uno stabile, oppure sulla transizione dallo stato di occupazione a quello di disoccupazione o, peggio, di inattività. Nei capitoli successivi esaminiamo le cause della difficile transizione scuola-lavoro strettamente legate alla crisi dovuta al coronavirus (capitolo 3), alla scuola (capitolo 4), alle imprese (capitolo 5), ai giovani e alle loro famiglie (capitolo 6), all’economia italiana (capitolo 7). Nel capitolo 8 passiamo in rassegna i principali provvedimenti adottati dal governo italiano negli ultimi anni per favorire l’occupazione e l’inserimento dei giovani. Il capitolo 9 è dedicato all’analisi delle iniziative promosse da soggetti quali scuole, imprese e fondazioni per favorire l’inserimento o il reinserimento lavorativo dei giovani. Negli ultimi capitoli illustriamo ciò che a nostro avviso il governo e le imprese italiane (capitolo 10), l’Europa (capitolo 11), i giovani e le loro famiglie (capitolo 12) potrebbero fare per migliorare la transizione scuola-lavoro. Nelle Conclusioni riassumiamo i punti salienti del libro.
1
Gioventù bloccata
Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.
Paul Nizan
«Molti giovani non colgono le tante possibilità di lavoro che ci sono o perché stanno bene a casa o perché non hanno ambizione. […] Devono essere più determinati nel trovare il lavoro, perché ci sono molte opportunità, spesso colte da altri, proprio perché loro non hanno voglia di coglierle».
Così si espresse il presidente della FIAT John Elkann, quando nel lontano 14 febbraio 2014 incontrò a Sondrio gli studenti della città per parlare di scuola e lavoro.¹ La sua affermazione innescò un vespaio di polemiche, a partire dai giovani ascoltatori. Quanto c’è di vero nella chiosa di Elkann?
Innanzitutto, non sono solo coloro che «non colgono le possibilità di lavoro», vale a dire gli inattivi, ad avere un problema. Anche i disoccupati, che pure cercano attivamente un lavoro, sono a casa, mentre molti occupati lavorano poco o svolgono occupazioni di bassa qualità. Vediamo perché.
I giovani occupati
Nel 2021, lavorava solo il 28,5% dei giovani italiani di età compresa tra i quindici e i ventiquattro anni, contro il 43,6% di quelli dei ventisette Paesi europei. Andava un po’ meglio per i giovani tra i venticinque e i ventinove anni: lavorava il 40%, contro il 54,8% a livello europeo.² In Italia, quindi, rispetto all’estero, i giovani hanno possibilità lavorative inferiori. Questo già di per sé spiega in parte la fuga dei cervelli.
Confrontiamo ora gli stipendi dei giovani diplomati con quelli dei laureati. Teniamo presente che i secondi sono ancora merce rara: nel 2021, in Italia, erano pari al 26,8% dei trenta-trentaquattrenni, contro una media UE del 41,6%.³ Ancora inferiore è il dato rapportato all’intera popolazione italiana in età lavorativa (venti-sessantaquattro anni): i laureati sono solo il 20%, contro una media del 41% dei Paesi dell’OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, in inglese Organization for economic co-operation and development, da cui la sigla OECD).⁴
Secondo AlmaLaurea, a un anno dal conseguimento della laurea la retribuzione mensile netta nel 2021 è stata in media pari a 1340 euro per i laureati di primo livello e 1407 euro per i laureati di secondo livello (con 1355 euro per i laureati magistrali biennali e 1589 euro per i magistrali a ciclo unico). Cinque anni dopo la laurea, la retribuzione sale a 1554 euro per i laureati di primo livello e 1635 euro per i laureati di secondo livello (con 1618 euro per i laureati magistrali biennali e 1695 euro per i magistrali a ciclo unico).⁵ Per quanto riguarda i diplomati, AlmaDiploma rileva che hanno uno stipendio medio di 729 euro a un anno dal conseguimento del diploma e di 924 euro a tre anni dal titolo.⁶ A essere maggiormente premiati dal mercato del lavoro sono i laureati magistrali, sebbene il differenziale di stipendio rispetto a diplomati e laureati triennali non sia particolarmente eclatante. Nonostante siano merce rara, non sono valorizzati da parte delle imprese. Dunque conviene ancora laurearsi in Italia?
Sì, perché nonostante tutto, il famoso «pezzo di carta» implica una retribuzione superiore rispetto al diploma, come dicono i dati di AlmaLaurea e AlmaDiploma riportati poc’anzi. Il premio salariale è tuttavia ben al di sotto della media OCSE (76% contro il 100% dei Paesi OCSE nel 2021, dove un laureato pertanto guadagna il doppio di un diplomato⁷) ed è diminuito nel corso del tempo (Figura 1.1).
Figura 1.1 Differenziale tra il salario medio di un laureato e un diplomato, per classe di età. Fonte: elaborazione The European House – Ambrosetti su dati OCSE, 2020.Figura 1.1 Differenziale tra il salario medio di un laureato e un diplomato, per classe di età. Fonte: elaborazione The European House – Ambrosetti su dati OCSE, 2020.
Da uno studio di Anelli che ha ricostruito le carriere per tipo di laurea fino ai vent’anni successivi al conseguimento del titolo, emergono poi marcate differenze di stipendio dovute alla facoltà frequentata: quella di economia e management paga di più, anche nel lungo periodo, mentre le facoltà umanistiche offrono minore soddisfazione sotto il profilo salariale. La facoltà di ingegneria offre guadagni alti dopo la laurea, ma col passare del tempo la traiettoria salariale è stabile. I laureati in medicina e legge invece partono con stipendi molto bassi, ma la loro crescita è molto ripida (quasi lineare) nei primi vent’anni dopo la laurea, fino a incrociare quella dei laureati in ingegneria tra il settimo e il dodicesimo anno dal conseguimento del titolo. Chi studia facoltà umanistiche o architettura ha una probabilità del 20% di conseguire un reddito al di sotto della linea di povertà nei primi anni post laurea.⁸
Come mai la laurea è più apprezzata all’estero che nel nostro Paese? Perché alla nostra struttura produttiva servono ancor meno laureati di quei pochi disponibili in Italia. Così spesso essi si ritrovano a fare lavori per cui non occorre neanche la laurea oppure faticano a trovare un impiego, anche più dei diplomati. Ancorché pochi, i laureati sono spesso sovraqualificati rispetto al sistema produttivo italiano, caratterizzato prevalentemente dalla presenza di microimprese con produzioni a basso valore aggiunto. Il divario retributivo e le possibilità lavorative relativamente peggiori sono elementi che in parte spiegano la fuga all’estero, con la laurea in tasca, dei cervelli italiani.
Se analizziamo il contratto con cui sono assunti i giovani italiani, i dati AlmaLaurea e AlmaDiploma attestano che solo il 20,9% dei diplomati ha un contratto a tempo indeterminato a tre anni dal conseguimento del diploma, mentre la quota di chi è stato assunto con contratto a tempo indeterminato a cinque anni dal conseguimento del titolo oscilla tra il 43,9% dei laureati magistrali a ciclo unico e il 65,5% dei laureati triennali.⁹ La diffusione e la persistenza nel tempo dei contratti a termine è prevalentemente dovuta alle riforme a margine del mercato del lavoro, le quali hanno riguardato soprattutto i lavoratori giovani (si pensi, in particolare, alla legge Treu del 1997 e alla legge Biagi del 2003). Peccato che la maggiore flessibilità non sia stata compensata da forme di tutela occupazionale e reddituale, come era originariamente previsto dal modello della cosiddetta flexicurity.¹⁰
«C’è stato inizialmente una sorta di baratto tra la precarietà in ingresso e la stabilità in uscita o fine carriera. Ovvero si è detto: Meglio che la flessibilità si scarichi sui più giovani, per qualche anno, mentre cercano una corretta collocazione
. L’idea era che sarebbe stata una vicenda temporanea. Poi la flessibilità è entrata nelle funzioni di produzione delle imprese ed è diventata una quota fissa della forza lavoro applicata alla produzione. Questa evoluzione implicita è stato il motivo di tanta precarietà», riassume Emiliano Mandrone, primo ricercatore dell’ISTAT e responsabile dell’indagine ISFOL PLUS. A suo avviso, un ruolo importante in questo processo è stato giocato dai sindacati, che l’hanno reso possibile per due motivi: una debolezza in termini di consenso che ha reso difficili rivendicazioni e difese piene di tutti i lavoratori e la scelta di salvaguardare prevalentemente i già iscritti (vecchi occupati e pensionati). Ciò ha fatto emergere con forza le contraddizioni interne di una legislazione rimasta a metà del guado, nella misura in cui è stata attuata solo la componente flex (la flessibilità) e non la security (la sicurezza dell’occupazione). Così, nel corso degli anni, la flessibilità è diventata precarietà. Lo sa bene Alessia Valenti, palermitana, trentadue anni. Laureata in scienze politiche e relazioni internazionali all’Università degli Studi di Palermo, ha il