Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La figlia del re
La figlia del re
La figlia del re
E-book364 pagine6 ore

La figlia del re

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Potremmo dire che Anton Giulio Barrili sia stato il prototipo del Libero Muratore del XIX° secolo: fine intellettuale, erudito, idealista, animato da grande curiosità, ma anche uomo d’azione, all’occorrenza sprezzante del pericolo, rivoluzionario e patriota. Laureatosi in Lettere e Filosofia, ha combattuto come volontario nelle Guerre d’Indipendenza e tra le fila del Corpo Volontari Italiani di Giuseppe Garibaldi, restando ferito a Mentana.
Uomo di grande cultura, è stato giornalista, scrittore e docente universitario. La sua produzione letteraria è vastissima: numerosi romanzi, memorie autobiografiche, saggi storici e testi di critica letteraria.
La figlia del re, pubblicato a Roma nel 1894, è uno dei romanzi meno noti di Barrili. Ambientato nella provincia emiliana di un’Italia post-unitaria, in un immaginifico paese chiamato Mercurano, ruota attorno alle intricate vicende di alcuni caratteristici personaggi, delle loro famiglie, sia popolari che aristocratiche, e a una certa storia infantile che riemerge dal passato, La figlia del re, capace di riavvolgere il tempo e i fili del destino.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2023
ISBN9791255043447
La figlia del re

Leggi altro di Anton Giulio Barrili

Autori correlati

Correlato a La figlia del re

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La figlia del re

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La figlia del re - Anton Giulio Barrili

    SIMBOLI & MITI

    ANTON GIULIO BARRILI

    LA FIGLIA DEL RE

    LOGO EDIZIONI AURORA BOREALE

    Edizioni Aurora Boreale

    Titolo: La figlia del re

    Autore: Anton Giulio Barrili

    Collana: Simboli & Miti

    Con prefazione di Nicola Bizzi

    Editing a cura di Nicola Bizzi

    ISBN versione e-book: 979-12-5504-344-7

    Immagine di copertina: Salvatore Marchesi, Parma: l’accesso alla cripta della Certosa, XIX° sec.

    (Collezione privata)

    LOGO EDIZIONI AURORA BOREALE

    Edizioni Aurora Boreale

    © 2022 Edizioni Aurora Boreale

    Via del Fiordaliso 14 - 59100 Prato - Italia

    edizioniauroraboreale@gmail.com

    www.auroraboreale-edizioni.com

    Questa pubblicazione è soggetta a copyright. Tutti i diritti sono riservati, essendo estesi a tutto e a parte del materiale, riguardando specificatamente i diritti di ristampa, riutilizzo delle illustrazioni, citazione, diffusione radiotelevisiva, riproduzione su microfilm o su altro supporto, memorizzazione su banche dati. La duplicazione di questa pubblicazione, intera o di una sua parte, è pertanto permessa solo in conformità alla legge italiana sui diritti d’autore nella sua attuale versione, ed il permesso per il suo utilizzo deve essere sempre ottenuto dall’Editore. Qualsiasi violazione del copyright è soggetta a persecuzione giudiziaria in base alla vigente normativa italiana sui diritti d’autore.

    L’uso in questa pubblicazione di nomi e termini descrittivi generali, nomi registrati, marchi commerciali, etc., non implica, anche in assenza di una specifica dichiarazione, che essi siano esenti da leggi e regolamenti che ne tutelino la protezione e che pertanto siano liberamente disponibili per un loro utilizzo generale.

    ANTON GIULIO BARRILI, IL PROTOTIPO DEL LIBERO MURATORE DEL XIX° SECOLO

    di Nicola Bizzi

    Potremmo dire che Anton Giulio Barrili, nato a Savona il 14 Dicembre del 1836, sia stato il prototipo del Libero Muratore del XIX° secolo: fine intellettuale, erudito, idealista, animato da grande curiosità, ma anche uomo d’azione, all’occorrenza sprezzante del pericolo, rivoluzionario e patriota.

    Il suo vero cognome era Barile. Trascorse l’infanzia a Nizza, all’epoca ancora appartenente al Regno di Sardegna, compì gli studi superiori a Savona, presso gli Scolopi, per poi trasferirsi a Genova, dove si laureò in Lettere e Filosofia. Intraprese una proficua carriera di giornalista, che vide gli esordi con la pubblicazione di un giornaletto ebdomadario, L’Occhialetto, scritto interamente da lui, ma acquistò una discreta fama di scrittore e opinionista soprattutto quando entrò a far parte della redazione del quotidiano fondato nel 1859 e diretto da Nino Bixio, il San Giorgio. Risale a quegli anni la sua amicizia con Giuseppe Revere e Francesco Domenico Guerrazzi, che esercitò sempre su di lui una forte influenza.

    Nel 1859, all’apice delle vicende risorgimentali, si arruolò nel 70° Reggimento Fanteria dell’esercito piemontese, partecipando a numerose azioni di guerra (nel suo romanzo La Montanara edito a Milano nel 1886, racconterà diverse vicende di tali campagne militari). L’anno seguente divenne collaboratore assiduo del quotidiano genovese Il Movimento, fondato nel 1854 da Mauro Macchi, del quale venne presto nominato direttore; in tale veste impresse al giornale un carattere decisamente più battagliero e intransigente, facendone di fatto l’organo ufficioso del movimento garibaldino. Per gli articoli polemici apparsi nelle colonne di quel quotidiano, Barrili ebbe non poche vertenze cavalleresche, e in un duello, avuto con un ufficiale in seguito ai fatti di Aspromonte, riportò una gravissima ferita alla mano destra.

    Lasciata la direzione del Movimento nel 1866, accorse al seguito di Garibaldi in Trentino, dove, nominato ufficiale d’ordinanza dell’8º Reggimento del Corpo Volontari Italiani, combatté valorosamente a Condino e a Montesuello. L’anno successivo combatté e fu ferito nella battaglia di Mentana, quando le truppe garibaldine, nel tentativo di conquistare Roma, furono sconfitte dai francesi di Napoleone III°. La sua esperienza vissuta in prima persona nelle guerre e nelle battaglie risorgimentali fu in seguito narrata in un libro di memorie intitolato Con Garibaldi alle porte di Roma (1895).

    Rientrato a Genova, fondò nel 1875 il quotidiano Il Caffaro, sul quale pubblicò in appendice alcune delle sue opere, che poi l’editore Treves dette alle stampe in volume. A quel tempo diresse anche, con Ruggero Bonghi e Paolo Mantegazza, la Piccola Biblioteca del Popolo Italiano per l’editore Barbera, pubblicandovi il romanzo Se fossi re! (Firenze, 1886).

    Come tanti altri veterani delle guerre risorgimentali e delle battaglie garibaldine, subì il fascino della politica, ma si trattò di un’infatuazione passeggera. Per quanto fosse riuscito ad essere eletto deputato per la Sinistra nel collegio di Albenga alle elezioni del 1876, si dimise dalla carica tre anni dopo, schifato dagli intrighi, dai sotterfugi e dalla corruzione della vita parlamentare.

    Ceduta la direzione del Caffaro a Luigi Arnaldo Vassallo, sul finire del 1884 si trasferì a Roma, dove diresse per qualche tempo la sommarughiana Domenica Letteraria, succedendo a Luigi Lodi.

    Nel frattempo era stato ricevuto in Massoneria nella Loggia Trionfo Ligure di Genova, un’esperienza che ben si conciliò con la sua indole erudita e con la sua inestinguibile sete di conoscenza, e che si rifletté in molte delle sue successive opere letterarie, in primis proprio nel suo capolavoro letterario, il romanzo storico-esoterico Semiramide, racconto babilonese, che Barrili volle dedicare all’amatissimo Fratello Gerolamo Boccardo.

    Sul finire degli anni Ottanta dell’Ottocento, Barrili si dedicò stabilmente – oltre che allo scrivere – all’insegnamento. Dapprima insegnò Storia Marinara alla Scuola Superiore Navale di Genova, e poi, anche se per un breve periodo, Letteratura Italiana presso il Magistero Femminile, sempre nel capoluogo ligure. Nel 1894, grazie ai buoni uffici interposti dall’amico e Fratello massone Giosuè Carducci, che nutriva per lui grande stima e ammirazione, ottenne la cattedra di Letteratura Italiana presso l’Università di Genova, lo stesso ateneo del quale sarebbe poi divenuto, nel 1903, Magnifico Rettore.

    Durante gli anni dell’insegnamento non abbandonò mai la passione per il giornalismo, collaborando con il giornale genovese Colombo, del quale assunse anche la direzione. Fu anche vice-presidente della Società Ligure di Storia Patria, nei cui Atti e Memorie pubblicò vari suoi scritti, tra cui commemorazioni, monografie storiche e i manoscritti, fino a quel tempo inediti, inediti di Goffredo Mameli.

    In età avanzata si ritirò a Villa Maura, la sua residenza estiva di Carcare, in provincia di Savona, dove morì alle ore 22:50 del 14 Agosto 1908, all’età di settantadue anni.

    La sua produzione letteraria è stata vastissima, comprendendo numerosi romanzi (tra cui il già citato Semiramide, Capitan Dodéro, L’olmo e l’edera, I Misteri di Genova, Le confessioni di fra Gualberto, La notte del commendatore, Diana degli Embriaci, Il tesoro di Golconda, Il ritratto del diavolo, L’anello di Salomone, Galatea e Il ponte del Paradiso, ma anche raccolte di novelle (Uomini e bestie, Una notte d’estate e altre novelle), opere teatrali (La legge Oppia, Zio Cesare), memorie autobiografiche, saggi storici e testi di critica letteraria.

    Uomo di una cultura vastissima e buon latinista, Barrili fu anche un apprezzatissimo oratore e conferenziere. Tra i suoi discorsi più noti sono quello pronunciato nella ricorrenza del quarto centenario della scoperta dell’America, quelli per commemorare i martiri della Giovine Italia, Giuseppe Mazzini, Victor Hugo, Goffredo Mameli e, soprattutto, il Discorso in morte di Garibaldi (Genova, 1882).

    La figlia del re, pubblicato a Roma nel 1894, è uno dei romanzi meno noti di Anton Giulio Barrili. Ambientato nella provincia emiliana di un’Italia post-unitaria, in un immaginifico paese chiamato Mercurano, ruota attorno alle intricate vicende di alcuni caratteristici personaggi, delle loro famiglie, sia popolari che aristocratiche, e a una certa storia infantile che riemerge dal passato, La figlia del re, capace di riavvolgere il tempo e i fili del destino.

    Nicola Bizzi,

    Firenze, 18 Maggio 2023.

    Anton Giulio Barrili - Wikipedia

    Anton Giulio Barrili

    CAPITOLO I

    Di nome si chiamava Virginio, e di cognome Lorini; ma in paese gli dicevano Zufoletto, senz’altro. Quello era il soprannome che gli aveva appiccicato il signor Demetrio Bertòla, prendendolo per gran degnazione a bottega. Era un cosino da nulla, alto quanto un soldo di cacio; mingherlino, quasi diafano; sano, per altro, e svelto come un capriolo; ma sottile, Dio buono, tanto sottile da far temere che il vento, alla svolta della prima cantonata, se lo dovesse portar via con un soffio; men che uno zufolo, insomma, uno zufoletto a dirittura; e quel nome gli era rimasto. Zufoletto di qua, Zufoletto di là; ed egli non mostrava di aversene per male; che anzi, ne rideva, mostrando tutti i suoi dentini bianchi e facendo luccicare i suoi occhioni azzurri, di solito velati da un’aria di malinconia precoce, comune ai bambini venuti su senza carezze alle albe grigie della vita. Forse gli pareva, con quel soprannome, di essere un altro, di avere acquistato come un diritto nuovo, di appartenere più intimamente a quella casa, dove era stato sbalestrato dal caso.

    Povero bambino! Era rimasto orfano di madre, nascendo; di padre, poi, a nove anni, quando incominciava a capire che per lui non c’era a sperar niente di buono, con un babbo scioperato, buontempone, senza regola, che non aveva mai saputo cavare un costrutto dalla sua professione di notaio, trascurando lo studio per l’osteria, e lasciando che la casa dei suoi vecchi, spogliandosi d’embrici, si coprisse via via d’ipoteche. Com’era fredda, la casa! E vuota, poi, che faceva compassione a vederla! Poche carabattole, perché il meglio era stato venduto ai cercatori d’anticaglie: non una seggiola che si tenesse ritta, se non era accostata alla parete: il lettuccio, dove il povero Virginio si sentiva morire dal freddo nelle notti invernali, cascava da tutte le bande: era zoppo, sgangherato, e barellava ad ogni movimento di braccia, il tavolino su cui egli faceva il suo compito, allo scarso lume di una candela di sego, sentendosi morir di paura nelle lunghe veglie solitarie, aspettando il ritorno sempre tardissimo e le sgridate inevitabili di un brontolone avvinazzato.

    Quando sopraggiunse la malattia del notaio beone, altri dolori, altre angosce, altre paure, non senza digiuni, al bambino. Morto il babbo, pace all’anima sua, erano venuti gli uomini della carta bollata, sequestrando ogni cosa, perfino i libri del piccino, che non ardì farsi vivo. Quanto a lui, povero innocente, lo avevano raccolto con atti di rumorosa pietà le genti del vicinato, per condurlo, dopo un giorno e mezzo di ospitalità piagnolosa, a Bercignasco, un paesello poco lontano di là, dov’era un suo zio prete, e ricco, come ne correva la voce, anzi meglio, come dimostravano i suoi campi al sole e le sue cedole all’ombra, che gli facevano fare ad ogni principio di semestre un viaggio a Parma ed una visita alla regia tesoreria provinciale. Ma che avaraccio, Dio buono! Non aveva neanche pagato il viaggio a quella povera gente che s’era preso l’incomodo di portargli il ragazzo; il suo sangue, dopo tutto! Fate del bene, e ne sarete ricompensati, rimettendoci ancora dei vostri.

    Nella canonica di Bercignasco, tutta bianca e pulita come un parlatorio di monache, il piccino era stato ricevuto con evidente freddezza. Certo, non si poteva dire che fosse accolto come un cane in chiesa; ma c’era da immaginare che lo vedessero volentieri come il fumo negli occhi. Pure, quello zio prete era il fratello di suo padre, il mio parente più prossimo; ed era inoltre il suo padrino, ed egli ne portava il nome ed il cognome. Ma che cosa ci volete fare? Quello non era un uomo come tutti gli altri. Aveva rinunziato al mondo, alle sue gioie, e per compenso anche alle sue seccature; non avendo fatto famiglia sua, doveva egli prendersi un grattacapo, un fastidio, una scalmana per la famiglia degli altri? Oh, infine, chi li fa se li goda. In verità, non c’era più nessuno per godersi quello: di parenti suoi, a farlo a posta, non restava più che lo zio prete, padrino e ricco. Ricco, poi! Che ricco, che ricco? Era povero, invece, con quattro palmi di terra; le annate erano scarse; i tempi cattivi accennavano a diventare peggiori. E proprio allora ci voleva quell’altra bocca in casa?

    La signora Placidia, serva sinodale e gran bofficiona, che cominciava a soffiar come un mantice quando faceva i venti gradini della canonica ritornando dalla spesa, avrebbe tenuto il bambino per grazia, mettendolo a tutti i piccoli servigi di casa. Ma quel ragazzo non sapeva far nulla. O come era stato allevato? per fare il milionario? Un bel mestiere, certamente; ma ci voleva anzitutto il milione. Quel ragazzo non ne faceva una a dovere; spazzava male, spolverava peggio; non era buono neanche a rigovernare i piatti, e quello che non rompeva sbreccava: che mai sarebbe stato, quando avessero avuto da mandarlo lui alla spesa! Lo zio prete incominciava a rassegnarsi; ma incominciava per contro a perder pazienza la signora Placidia. C’era da perderla, infatti; poiché un giorno, a certe lagnanze di lei, il degno uomo, smettendo di leggere nel suo breviario, aveva pacatamente osservato: «Che ci volete fare, Placidia? Oramai...». E non aveva detto altro: ma un moto della persona, come di tartaruga che volesse nasconder la testa nel guscio, rendeva chiaro il significato della sua reticenza.

    Bisognava dunque adattarsi? Bella prospettiva, che per intanto faceva pensare, e molto, e profondamente, la signora Placidia. Non c’era dunque più verso di levarsi quel ragazzo di torno? E se, avvezzandosi a lui, don Virginio avesse preso a volergli bene? Quell’altro Virginio sarebbe dunque diventato un secondo padrone?

    Ma non c’era pericolo, e la signora Placidia andava certamente oltre il segno. Don Virginio aveva parlato in quel modo per farla finita con uno sfogo di malumore che lo aveva seccato; ma del ragazzo ne era pieno fino agli occhi anche lui: e già da parecchi giorni mulinava un certo disegno, che gli avrebbe fatto intonare, quando fosse riuscito a bene, il «Nunc dimittis» di Simeone.

    Il disegno portava spesa con sé? No, a mala pena quella d’un foglio di carta e d’un francobollo. Infatti non c’erano posti gratuiti? Non c’erano anime caritatevoli, nella provincia, che li spendevano esse, i quattrini, per fare dei preti nuovi, mantenendo ragazzi in seminario? Don Virginio scrisse a chi bisognava scrivere: tre, quattro giorni d’attesa, e la risposta era venuta, favorevole. Sì, «nunc dimittis»; ed anche «venite exultemus»: la Chiesa si sarebbe arricchita di un nuovo don Virginio Lorini; e la signora Placidia, serva sinodale del più vecchio tra i due, avrebbe potuto ridormire finalmente dei sonni conformi al suo nome.

    Ma proprio allora che si cantava vittoria, proprio allora si avvedevano di non aver fatto niente. E come niente, quando si mette il carro avanti ai buoi, non vi pare? Quel ragazzo mingherlino, quasi diafano, alto quanto un soldo di cacio, che pareva non dovesse avere altra volontà che quella dei suoi superiori legittimi, mostrava di averne una, tutta sua, e ben risoluta in contrario. Prete, no; prete, no, era il suo ritornello. E perché lo volevano mandare in seminario per farne un prete, soggiungeva, pestando i piedi come un indemoniato: in seminario, no; non ci voglio andare, in seminario: piuttosto mi butto nel pozzo.

    Lo scoppio era stato così violento, che don Virginio n’era rimasto sconcertato, non trovando lì per lì una parola da rispondere; e la signora Placidia, dal canto suo, aveva levati gli occhi attoniti al soffitto, mentre le mani si giungevano istintivamente in atto d’invocazione alle potenze celesti.

    Ma perché tanta repugnanza? Messo alle strette, tra molte lagrime e singhiozzi, quel povero piccino lo aveva pur detto, il perché. La chiesa era fredda: la sagrestia, col suo odore di muffa, gli faceva male al cuore. Lo sentiva bene, lui, che il ministero di prete non sarebbe mai stato il fatto suo: se n’era persuaso le poche volte che aveva dovuto provarsi a servire la messa allo zio, senza mai venirne a capo, non intendendo una parola di quel latino che gli avevano fatto imparare a memoria, non indovinando mai il momento giusto di andare a prendere le ampolline, né quello di levare il messale da un lato della mensa eucaristica, per portarlo dall’altra. E quella tonaca nera, poi! non si sarebbe mai adattato a portarla, no, mai e poi mai; e meno ancora a trovarsi in un collegio, tra tante tonache nere, tra tante persone fredde, che ad ogni ora del giorno borbottassero parole latine. Non ne sapeva ancor nulla, non avendo mai visto un seminario; ma aveva sentito dalla signora Placidia che quello era un luogo dove si facevano i preti. E forse istintivamente, avendo un’idea delle prime operazioni aritmetiche, moltiplicava lo zio prete per dieci, per venti, per cinquanta, per cento. Dio che processione!

    — Ma è il diavolo! — esclamava la signora Placidia. — È il diavolo che gli ha scaldata la testa. —

    Don Virginio e la sua sinodale fantesca erano già tornati parecchie volte all’assalto, sempre col medesimo frutto. La signora Placidia ansimava; don Virginio usciva a dirittura dei gangheri. Oramai, non c’era più speranza di vincere la resistenza di quel cosettino tant’alto. Avevano perfino tentato il mezzo di fargli leggere nella Storia Sacra il capitolo della vocazione di Abramo, e di commentarglielo: ma invano; quel piccolo refrattario singhiozzava, piangeva, e non si lasciava smuovere: in seminario no, prete no; la vocazione non c’era, non voleva venire.

    — È il diavolo, — conchiuse don Virginio, avvalorando con la sua alta persuasione i sospetti della signora Placidia, — è proprio il diavolo che ci ha messo la coda. —

    Volgendosi allora al caparbio nipote, con aria severa e con accento solenne, gli disse:

    — Vuoi dunque essere del diavolo? Va al diavolo. —

    E c’era andato, il povero bambino, c’era andato il giorno dopo quella dura sentenza; c’era andato, ma con un correttivo apparente nella destinazione, che fu quella di Mercurano, grossa terra del circondario, dove lo mandarono a cercarsi una occupazione più conveniente ai suoi pervicaci istinti di libertà.

    Quel giorno la signora Placidia ebbe un bel moto di cuore. Ficcò uno scudo in un paio di calze, e calze e scudo regalò nobilmente al piccino. Fece anche di più, senza che egli ne sapesse nulla, e forse perciò n’ebbe maggior merito nel cospetto di Dio: recitò una terza parte del rosario perché il poveraccio avesse a trovare un pronto collocamento, e la sua inesperienza fosse guardata da tutte le «male disgrazie».

    Una «mala disgrazia» sarebbe toccata a don Virginio e alla sua sinodale padrona, se si fosse lasciata mano libera al pretore del mandamento, quando venne all’orecchio di quel degno sacerdote di Temi il fatto del povero orfano non ancora decenne, lasciato in mezzo ad una strada dal suo unico parente, uomo facoltoso, e dal suo stesso ministero consigliato, se non forse obbligato, a soccorrere i miseri. Ma non c’era stato bisogno di muovere o di commuovere le autorità competenti. Una donna di cuore, a cui per miracolo era stato indirizzato il piccino, lo aveva condotto al Bottegone, dove il signor Demetrio Bertòla lo aveva preso in prova per suo galoppino, dandogli subito, come per caparra, il soprannome che sapete.

    Si diceva il Bottegone, a Mercurano, come a Firenze, né più né meno. Per altro, a Firenze, il Bottegone era un caffè, dei più antichi e dei più accreditati della città; a Mercurano, invece, nella provincia di Parma, era una bottega più grande dell’altre, cinque o sei volte più grande, e ci si vendeva d’ogni ben di Dio, a prezzi miti ed onesti, viva la faccia sua, che nessuno più ardirebbe di farli, in questi tempi ladri, per paura di distinguersi, o di passare per matto.

    Il Bottegone occupava tutto il pian terreno d’uno stabile abbastanza vistoso e decorato di fresco, a bella prova degli spiriti moderni del suo proprietario come del suo culto per le glorie antiche. La tinta generale del fabbricato era d’un bel verde chiaro, il color della viva speranza: le cornici, lo bozze, i fregi architettonici erano di rosso, il color della carità: dalle cornici del primo piano, su certi piedistalli dipinti tra le finestre, si levavano torreggiando altrettanti grand’uomini, dipinti, ci s’intende, a chiaroscuro: ed erano tre sulla facciata, verso la piazza Vittorio Emanuele, cioè Dante, Galileo, Michelangelo; due sul fianco, verso il corso Garibaldi, cioè il Correggio e il Parmigianino, ambedue in omaggio particolare alle glorie della regione.

    Aveva sette aperture, il Bottegone; quattro sulla piazza Vittorio Emanuele, già detta di San Zenone; tre sul corso Garibaldi, già Contrada Maggiore. Ed era un bel posto, come via e come piazza, il miglior posto del borgo; il miglior uccellare, diceva il signor Demetrio, quando aveva voglia di ridere. Su quella piazza, dov’era anche la chiesa, si teneva nella seconda settimana di luglio la gran fiera del santo titolare, che durava tre giorni; e una piccola fiera, tempo permettendo, si teneva la seconda domenica d’ogni mese. Alle piccole fiere convenivano i villani dei dintorni: alla maggiore calavano di più lontano, intere famiglie, con mandre ed armenti, per barattare o per vendere. La fiera maggiore conservava ancora tutto il suo pregio; le minori avevano dato assai giù da qualche anno; colpa o merito del Bottegone, che bastava da solo ai cento uffizi d’una fiera di campagna, di borgo, e magari di città.

    Il Bottegone non era stato sempre così grande; ma neanche Roma è stata fatta in un giorno. Il signor Demetrio aveva incominciato dal poco, ereditando dai suoi vecchi una modesta bottega da pizzicagnolo, colle sue mezzine di lardo appese alle pareti, coi suoi prosciutti e salami pendenti dal soffitto, i suoi formaggi neri e lucenti negli scaffali, i suoi bariglioni di aringhe affumicate e di acciughe in salamoia, i suoi barattoli di funghi e d’olive sott’olio. A poco alla volta, crescendo gli avventori, s’era allargato, aggiungendo un negozio di droghiere, poi ottenendo l’appalto del sale e dei tabacchi. I tabacchi avevan chiamati i cerini, e i cerini le candele, per casa e per chiesa: le droghe avevano chiamati i confetti e i liquori; i liquori avevano chiamato il vino. Ma questo era stato relegato in cantina, a cui si andava passando dal cortile, per non far confusione; e assaggiassero, là dentro, e bevessero a tutto spiano, senza dar noia alle botteghe di strada. Perché oramai non si trattava più d’una bottega sola, ma di tre, contigue, comunicanti l’una coll’altra.

    Così via via, crescendo il lavoro, cresceva la manìa invaditrice del signor Demetrio; il quale lasciandosi i vini dietro le spalle, col loro ingresso separato dalla banda del cortile, aveva sulla fronte della piazza occupato un quarto stanzone, poi un altro dalla parte della strada, e un altro e un altro ancora, sempre d’anno in anno aggiungendo nuove corde al suo istrumento, nuovi generi al suo traffico, e nuove porte, tutte decorate nel medesimo stile, al suo Bottegone; che ormai con questo nome era conosciuto e salutato da tutti. Fustagni e bordati, cotoni, mezzi cotoni e pannine, biancheria, trine, fettucce, aghi e perline, lana, refe, fazzoletti da naso e di collo, cravatte, fisciù, perfino merletti, erano venuti ad occupare due stanzoni, uno verso la strada, l’altro verso il cortile; un nuovo stanzone accoglieva la cartoleria e la libreria, per grande comodità agli studi elementari e tecnici delle nuove generazioni di Mercurano; nel più recente, che non si poteva ancora dir l’ultimo, sì allogava un bel saggio di oreficeria, senza pregiudizio dei similori, dei princisbecchi, e di tutte le imitazioni dell’oro e dell’argento nella industria moderna.

    La manìa invaditrice del signor Demetrio si capiva benissimo; era più che giustificata dalla noia che gli davano le fiere mensili nella gran piazza, su cui apriva la sua vecchia e modesta bottega di pizzicagnolo. Tutti quei banchi posticci che col beneplacito del comune venivano a piantarglisi davanti, facendogli ombra alla sua mostra e mettendogli l’uggia addosso, meritavano una lezione; e il signor Demetrio l’aveva data da par suo. Studiando le consuetudini che non poteva levarsi subito dagli occhi, osservando quali merciai facessero più affari, e a che prezzi, s’era persuaso della utilità di entrare a poco a poco nell’arte di tutti; aveva preso lui a vendere i bordati e i fustagni, i tappeti da piedi, i fazzoletti da collo, i cappelli a cencio, la carta da scrivere, magari coi suoi cuori trapassati dalle solite frecce, ma più volentieri e meglio con le iniziali incise sulla testata: così, proseguendo di novità in novità, spacciando roba comperata in prima mano e dandola a prezzi onestissimi, si era levato i vociatori più molesti dalle costole, aveva cacciati lui i mercatanti da quella parte della gran piazza. Quanto a cacciarli dal vestibolo del tempio, ci pensasse il signor arciprete di San Zenone, che quello era affar suo.

    Lo stabile, in principio, non era tutto del signor Demetrio. Ma questi, prosperando i suoi negozi, aveva potuto comperar la parte d’un vicino, per raddoppiare il suo covo: poi, prevedendo il futuro e facendo uno sforzo enorme, prima che gli altri aprissero gli occhi e allargassero le loro pretese, comperò tutto il resto del fabbricato, pigliando ad imprestato la somma occorrente. Il colpo gli era andato bene, e in pochi anni s’era anche levato il debito, potendo fare perfino quell’altra spesa di dar tutto un colore alla casa, decorandola di quei cinque grand’uomini. Le porte erano ampie, tutte d’uno stile, come si è detto, con invetriate bellissime, come non si è detto ancora, che le più belle e magnifiche non le aveva neanche la farmacia Spertini, a mal grado del suo serpente d’Esculapio, di legno in altri tempi dorato ed oramai troppo sfaldato, con frequenti mostre di gesso.

    Quando all’edifizio, nel suo complesso architettonico, non ce n’era un altro in tutto il borgo, che gli potesse stare a confronto; neanche la nuova costruzione delle sorelle Cometti, due zitellone che si dicevano le più ricche del borgo. Per trovargli un riscontro vittorioso sarebbe bisognato andar fuori, almeno un chilometro più in là, fino al castello dei Conti Sferralancia. Ma era un castello, bella forza! Qual è la casa che può competere con un castello?

    Del resto, se il castello dei conti Sferralancia era bello dentro, era tale per sé e per i suoi possessori: la casa Bertòla aveva una cosa unica nel suo genere, un portento da mettere in mostra, il suo Bottegone; quel Bottegone, che ben meritava il suo nome, portandolo da parecchi anni gloriosamente, come Virginio Lorini portava umilmente da un giorno il suo soprannome di Zufoletto.

    CAPITOLO II

    Zufoletto si ritrovò là dentro come in un mondo nuovo: nuovo, dico, ma piacevole al sommo per lui, come è naturale che sia ogni cosa nuova ed insolita ai bambini, nei quali la curiosità è istinto di cognizione. I nervi sempre desti lo tenevano pronto ad ogni chiamata, ad ogni cura, ad ogni fatica. Sottile com’era, passava da per tutto, senza far mai cascar nulla, o solamente uscire di riga. Pure, della roba ce n’era, in quel Bottegone, e spesso fuori di squadra, in un mezzo equilibrio, su spigoli di tavole, su spalliere di seggiole, sopra orli di scaffali, come sempre avviene in tutti i magazzini assai frequentati. Saliva, scendeva, correva, strisciava lesto, senza far rumore, quasi senza farsi vedere, come una lepre, come un capriolo, come un ramarro; ed era sempre lì, pronto a tutti i comandi, ritto in qualche angolo di quelle sette botteghe riunite, facendosi piccin piccino, secondo lo spazio, come se ci fosse nato, come se non si fosse mai mosso di lì. Povero cosino! Occupava così poco posto nel mondo!

    In una settimana di soggiorno al Bottegone, era già diventato necessario, come la granata, come lo strofinaccio in cucina. Le pannine, la cartoleria, la drogheria, non sapevano stare senza di lui: perfino la pizzicheria lo voleva, per ispiccare un prosciutto dal gancio, per calar dallo scaffale una forma di cacio, che era più grossa di lui. Zufoletto di qua, Zufoletto di là, serviva a tutti, trovava tempo a far tutto; perfino a dare dai vetri una sbirciatina ai ragazzi della sua età, che giuocavano alle palline sul battuto della piazza maggiore.

    Mingherlino era entrato; mingherlino restava, crescendo di statura. Pure, mangiava tutto il suo bisogno. La signora Giuditta, degna metà del suo Demetrio Bertòla, più specialmente incaricata di vigilare alle pannine, vedeva assai volentieri il ragazzo; e tutti i giorni, dopo il desinare, gli lasciava qualche rilievo di tavola, accortamente nascosto tra due piatti in un angolo della cucina. Questo è un segreto, ed ha mestieri di spiegazione, come tutti i segreti. Il signor Demetrio non passava a Zufoletto che minestra e pane a discrezione. Non già che fosse cattivo uomo, Dio guardi! Ma egli soleva dire che i ragazzi non avevano a diventare ghiottoni; che soltanto la minestra era nutritiva, per la giovane età, e che, dove restasse qualche vuoto nello stomaco, un bel tozzo di pan di casa lo avrebbe facilmente colmato. A buon conto, così e non altrimenti s’era allevato lui, sotto gli occhi ed il governo del signor Zenone Bertòla, buon’anima sua, ed egli non aveva avuto che a lodarsi del buon giudizio del suo signor padre.

    Nondimeno, bisognava dire che le minestre del signor Zenone Bertòla fossero minestroni addirittura, poiché il suo degno figliuolo era diventato un colosso. Bisognava vederlo, seduto nella sua pizzicheria, dove, forse per omaggio ai principii, stava più volentieri che in ogni altra stanza del suo Bottegone: pareva una statua di Mènnone, un Ramsete, una Sfinge. Accanto a lui Zufoletto pareva un icneumone, uno scarabeo, una lucertola.

    Vi ho detto che trovava tempo a far tutto; soggiungerò che ne trovava perfino a trastullare l’unico rampollo dei suoi principali, la piccola Fulvia, una cara tombolina, ritornata da balia pochi giorni dopo ch’egli era entrato in casa Bertòla. Fulvia, un bel nome, non è vero? Quel nome era l’orgoglio della signora Giuditta: lo aveva dato alla sua creaturina, tenendola a battesimo per procura, la nobile Contessa donna Fulvia Sferralancia, la prima dama del paese, anzi l’unica, checché potessero pensare in contrario le zitellone Cometti.

    Quando capitavano donne di Mercurano o dei dintorni al Bottegone, per comperare cinque braccia di tela, un taglio di veste, un rocchettino di cotone da ricamo, od altro di somigliante, volevano tutte veder la bambina; la coprivano di baci; facevano le maraviglie di quell’amorino santo. Baciucchiargliela, sì, quantunque la signora Giuditta temesse sempre che gliela sciupassero un poco; ma guai a chiamargliela coi diminutivi, sebbene fosse manifesta l’intenzione di vezzeggiarla.

    — Che Fulvina! Che Fulvietta| — gridava lei spazientita. — Ci spendete una sillaba di più, senza bisogno; e poi le resterà ancora un nome sformato, che non significa niente. Chiamatela Fulvia, Fulvia, avete capito? Altrimenti ci guasteremo. —

    La piccola Bertòla, a dirvi intiero il sentimento di quella mamma orgogliosa, doveva essere Fulvia, rimaner Fulvia, nient’altro che Fulvia, come la sua madrina illustrissima. La signora Giuditta, aveva ragione, dopo tutto: quando si ha un bel nome, perché rovinarlo coi diminutivi, sotto il pretesto di farlo diventare più bello?

    La bambina cresceva a vista d’occhio, ed era un incanto, un prodigio; bisognava amarla per forza, divorarla coi baci, tanto era graziosa, col suo sennino precoce, con le sue moine infantili, coi suoi capriccetti. Faceva qualche volta disperare il

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1