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Napoleone. Gloria, Sangue e Lacrime
Napoleone. Gloria, Sangue e Lacrime
Napoleone. Gloria, Sangue e Lacrime
E-book574 pagine7 ore

Napoleone. Gloria, Sangue e Lacrime

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Info su questo ebook

Napoleone Bonaparte è senza dubbio una delle più straordinarie figure politiche e militari che la Storia può vantare e anche un mito dall’incredibile influenza intellettuale. La sua epopea gli ha assegnato una fama incancellabile e lo colloca all’apice della moderna storiografia, nel pieno del fermento culturale e bellico figlio della Rivoluzione francese. In questo appassionante saggio, il giovane autore Matteo Traballoni ripercorre completamente la vita, le gesta, le idee, le imprese militari, le vicissitudini politiche e gli amori del grandioso imperatore francese, il cui nome resta uno dei pochi incisi tra quelli dei Signori della guerra, talmente esperti nel loro ambito da renderne un’arte. 
Approfondendo le vicende di Napoleone e presentando parte della narrazione sotto forma di dialoghi, Matteo Traballoni rende accessibile questo volume ai più giovani ma non solo, proiettandoci in un’epoca affascinante che si snoda tra il 1769 e il 1821, trasmettendoci le emozioni e le ambizioni di un ineguagliabile conquistatore. 

Matteo Traballoni è nato a Fabriano (AN) nel 2007. Il padre è titolare di una piccola azienda di informatica mentre la madre è architetto e insegnante. Dopo aver superato brillantemente la Scuola Secondaria di Primo Grado “Marco Polo”, attualmente è studente presso il Liceo Scientifico “Vito Volterra” di Fabriano.  Fin da piccolo è appassionato di scrittura dei generi storico e fantasy; i suoi hobby sono: la storia (in particolare storia militare), la lettura e il disegno, e, oltre ad avere interessi riguardo allo sport, alla politica e all’attualità, ama viaggiare e scoprire nuove cose. Come sport pratica atletica leggera presso l’Atletica Fabriano.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2023
ISBN9788830682597
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    Anteprima del libro

    Napoleone. Gloria, Sangue e Lacrime - Matteo Traballoni

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una Vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    «Gli uomini di genio sono meteore

    destinate a bruciare per illuminare il loro secolo.»

    Napoleone Bonaparte

    Prefazione

    Napoleone Bonaparte è stato uno dei più grandi e influenti uomini della storia dell’Europa, se non il migliore di tutti. Non è un caso che, secondo uno studio scientificamente rigoroso, pubblicato dalla Cambridge University Press, Napoleone sarebbe la seconda persona più famosa della storia, dopo Gesù Cristo. Non è un caso nemmeno il fatto che alla prima fase dell’età contemporanea, di cui egli è protagonista, un lasso di tempo che va dal 1796 al 1815, ovvero dalla sua ascesa alla sua caduta, sia stato dato il nome di Età Napoleonica.

    Napoleone, prima di diventare il generale che tutti conosciamo, apparteneva a una benestante famiglia corsa. Alla nascita di Napoleone, la Corsica aveva lottato fortemente per diventare indipendente e da appena un mese non era più italiana. La stessa famiglia Buonaparte, il cui cognome sarà poi cambiato da Napoleone stesso per renderlo più adatto alla lingua francese, lotterà legata al pensiero indipendentista dell’isola. Questo pensiero rimarrà inculcato, per molto tempo, in Napoleone, il quale scriverà persino lettere di odio nei confronti del popolo per cui poi si sacrificherà, combattendo fino all’ultimo dei suoi giorni.

    Napoleone, prima di diventare il genio militare che riscrisse le strategie di sacri e intoccabili manufatti militari e le cui restaurazioni sono ancora tutt’oggi negli stessi libri, era un generale che tentò, dopo un lungo e tortuoso percorso agli albori della propria carriera militare, di entrare in Marina. Impensabile da immaginare, oggi, cosa sarebbe potuto accadere. Poi entrerà in artiglieria e, da quel momento, non avrà più uguali.

    Napoleone, prima di diventare l’invincibile imperatore che tenne in pugno l’Europa per un decennio, era un rivoluzionario, un umile ma incontrastabile servitore della Repubblica. Egli assistette alla rivoluzione della Corsica che stava volando su nuovi venti di indipendenza, portati dallo stesso Pasquale Paoli. Quando, poi, si avvicinerà alle idee repubblicane della Francia, diventerà un inarrestabile servitore e combattente della Repubblica, sia durante la stessa, che durante l’Impero. Egli, infatti, con le sue conquiste, pianterà e diffonderà il seme della Rivoluzione in tutta Europa, nonostante le potenze europee, fedeli all’Ancièn Regime, tenteranno di fermarlo tagliando l’albero con la Restaurazione. Quell’albero, ormai, con le radici ferme e forti in tutta Europa, ricrescerà e con i moti che imperverseranno in tutta Europa, dopo la sua caduta, l’albero da lui piantato sfonderà il tetto della serra, costruitagli dalle potenze europee, che vollero contenere con la Santa Alleanza l’esplosione dei moti liberali, ma non vi riusciranno.

    Napoleone, prima di cadere, aveva in pugno tutta l’Europa in un impero sconfinato che controllava tramite parenti e generali. Prima di lui, vi tentò Carlo Magno con il Sacro Romano Impero, che provò a riprendere lo splendore di un altro impero tanto forte e grande che unì tutta l’Europa e in quel caso non solo: l’Impero Romano. Napoleone si ispirerà molto a quello che era stato uno tra i più grandi e potenti imperi della storia.

    Capitolo I

    La nascita

    Era il 15 agosto 1769, poco più di un anno dalla stipula del trattato di Versailles del 15 maggio 1768, con il quale la Repubblica di Genova, stanca delle rivolte d’indipendenza della Corsica, lasciò mano libera alla Francia di impossessarsene e fu per questo che le armate di Luigi XV dilagarono nell’isola. All’arrivo delle truppe francesi sull’isola, i ribelli indipendentisti che venivano catturati, venivano condannati alla ghigliottina. Tra le città indipendentiste della Corsica, si era schierata Ajaccio, principale città dell’isola. Eppure, ben presto anche per le sue strade si udì la marcia cadenzata delle milizie di Luigi XV e a volte si sentiva anche qualche sordo colpo di fucile per sedare i rivoltosi. Tutto ebbe fine il 9 maggio 1769, quando la Corsica entrò ufficialmente a far parte del Regno di Francia. La città, dopo la fine della guerra, veniva comunque pattugliata dalle truppe francesi, perlopiù soldati giovani e inesperti. Nonostante disordini e scompigli vari, quel 15 agosto 1769, alla Cathédrale Notre-Dame-de-l’Assomption di Ajaccio, si celebrava la messa dell’Assunzione. Quella mattina c’era il sole, era caldo, e una leggera brezzolina rendeva piacevole la giornata. Tra i fedeli che si stavano recando alla messa, c’era anche una donna incinta. Ella era amata e stimata da tutta la città, perché aveva combattuto nella guerra d’indipendenza della Corsica contro i francesi e aveva partecipato alla battaglia di Ponte Nuovo, insieme al marito. La sconfitta corsa fu schiacciante e il marito della donna, essendo uno dei tre comandanti còrsi insieme a Carlo Salicetti e Pasquale Paoli, dovette negoziare con il conte di Vaux affinché lui e la sua famiglia fossero risparmiati. Quella donna era Maria Letizia Ramolino, una donna benestante, sposata con Carlo Maria Buonaparte, ramo cadetto della famosa famiglia Buonaparte, agiata famiglia toscana della quale i primi Buonaparte vissero agli inizi del X secolo e uno dei Buona-Parte partecipò addirittura alla prima crociata. Nella seconda metà del XIII secolo, il patrizio fiorentino Guglielmo Buonaparte, dopo aver combattuto la guerra tra Guelfi Neri e Guelfi Bianchi, venne esiliato e andò a vivere a Sarzana, piccola città toscana. Bisognerà aspettare solo il 1529, quando Francesco Buonaparte potette emigrare in Corsica, conservando lo stesso il titolo di patrizi fiorentini. Tornando a Maria Letizia Ramolino, anch’ella appartenente a un’agiata famiglia di principi feudali della Lombardia, anch’essa decaduta; era soprattutto amata e benvoluta dalla città, perché aveva combattuto in battaglia mentre era in attesa del suo secondo figlio – o meglio dire quarto figlio nonostante i primi due della coppia, fossero morti ad appena un anno – e Dio volle che entrambi si salvassero.

    Proprio mentre stava andando a messa, dove si celebrava l’Assunzione, verso le ore 11:00, la donna avvertì forti doglie, le doglie erano tanto forti che dovette tornare a casa trascinandosi alla meglio, con i dolori che aumentavano di passo in passo. Arrivata a casa tentò di raggiungere la camera da letto e con urla di dolore, prima di arrivare a essa, cadde su uno scomodo, stretto e duro divano dalla spalliera dritta. Non potendo più resistere si accasciò, mentre una cameriera udì le urla di dolore della padrona.

    «Cosa succede, mada...», disse arrivando immediatamente; ma non finì la frase che appena la vide, capì che la donna stava per partorire e immediatamente corse da lei e disse.

    «State tranquilla! State tranquilla!» E subito la lasciò.

    Correndo, andò in corridoio e urlò alle altre serve, impegnate nelle altre stanze.

    «Presto, la padrona sta partorendo! Correte!»

    Subito le serve corsero a prendere tutto il necessario per il parto. Quando stavano per entrare nella stanza con tutto l’occorrente, sull’uscio della porta sentirono il pianto di un bambino e si emozionarono ancor prima di entrare e a tutte si stampò un grande sorriso sul volto. Infatti, Maria Letizia Ramolino aveva già partorito. La stanza era colma della commozione dell’unica cameriera che aveva assistito al parto e che teneva il bambino nel panno bianco pulito che portava sempre con se; era colma dello stupore delle altre cameriere e della balia che teneva per la manina il terzogenito – che sarebbe in realtà il primo figlio, dato che gli altri due primi figli della coppia erano morti prematuramente – Giuseppe Buonaparte che ancora non sapeva ben camminare poiché aveva solo 1 anno e mezzo, e non per ultimo della gioia della madre. Tuttavia, Maria Letizia non aveva latte; così, dopo che ella fu rimessa in sesto e che il piccolo fu lavato e avvolto in un panno pulito, presero una balia: Camilla Ilari, che allattò il neonato. Per questo, Napoleone Buonaparte custodirà per sempre un tenero ricordo di lei. Poco dopo arrivò a casa anche il padre del bambino, Carlo Maria Buonaparte. Uomo alto, snello e bello, ricorda di lui Maria Letizia Ramolino: un cavaliere perfetto, galante, allegro, tipo di avvocato chiacchierone, volterriano, autore di empi versi di madrigali, abile procuratore, infaticabile e ostinato sollecitatore, usuale alle soglie dei potenti, uomo piuttosto intelligente ma debole e leggero. Appena arrivò a casa, informato che la moglie stava partorendo, si recò verso la camera, di corsa e trafelato.

    «Maria sta partorendo, dov’è?», disse dall’esterno della camera da letto. Appena varcata la soglia, si lasciò travolgere dalla commozione, dallo stupore e dalla gioia che dominavano la stanza e da quelle emozioni che si provano nel vedere il proprio figlio appena nato, in seno alla balia.

    Maria appena lo vide pronunciò il suo nome.

    «Carlo!»

    Il marito le stava correndo incontro, i due genitori si abbracciarono pieni di commozione. Mentre Napoleone prendeva il latte dal seno della balia, il fratello, ancora piccolo, osservava la scena con i suoi occhietti curiosi, senza sapere che quel bambino, suo fratello, così piccolo e docile, sarebbe diventato uno degli uomini più grandi della storia.

    Capitolo II

    L’infanzia

    A cinque anni, Napoleone venne iscritto in un asilo d’infanzia in Francia, dove studiò con l’abate Recco per quattro anni, durante i quali ricevette educazione anche dallo zio paterno, l’arcidiacono Luciano. Fu grazie al titolo nobiliare ottenuto in Toscana che il padre Carlo poté iscriversi al Libro della nobiltà di Corsica, istituito dai francesi per consolidare la conquista dell’isola. Grazie a tale iscrizione, all’età di nove anni, il giovane Napoleone fu ammesso il 23 aprile 1779, sempre per iniziativa del padre, alla Scuola reale di Brienne-le-Château, nel nord della Francia, dove rimase fino al 17 ottobre 1784. Per migliorare il suo francese e prepararsi alla scuola, frequentò per quattro mesi il collegio di Autun, i suoi studi furono finanziati grazie a una borsa di studio di 2.000 franchi. Napoleone inizialmente non si considerava francese e si sentiva a disagio in un ambiente dove i suoi compagni lo prendevano crudelmente in giro. I primi giorni, al collegio, non furono dei migliori. Appena arrivato, i ragazzini già presenti lo accerchiarono, si trattava di compagni provenienti in massima parte dalle fila dell’aristocrazia transalpina e uno di loro si fece avanti.

    «Come ti chiami?»

    Napoleone rispose con la sua pronuncia corsa: «Napojone.»

    «Come?», chiese quello stranito.

    «Napojone», rispose Napoleone.

    «Ma un nome siffatto non esiste nel calendario», disse un altro.

    «Nel vostro forse no, ma nel nostro sì», spiegò Napoleone.

    Allora un burlone disse: «Napoljone, la paille au nez – la paglia al naso –.»

    «La paille au nez, la paille au nez», cantarono tutti gli altri in coro.

    L’accusa di essere straniero l’avrebbe perseguitato per tutta la vita. Napoleone si sentiva come una pecorella nera. Qui strinse amicizia solo con Louis-Antoine Fauvelet de Bourienne, suo futuro biografo, che a differenza degli altri compagni, non lo prendeva in giro. Nel frattempo, il giovane Napoleone si dedicava con costanza agli studi, riuscendo particolarmente bene in matematica. Seguì le idee ateiste del collegio e a undici anni la sua fede vacillò. Grazie alle sue origini italo(toscane)-corse, mantenne comunque un legame forte con la lingua e la cultura toscana/italiana. Tra i suoi libri più cari, che portava sempre con sé, vi era la versione cesarottiana dei Canti di Ossian, saga poetica del guerriero celtico Ossian.

    Capitolo III

    La perdita del padre

    Era un periodo felice per tutta la famiglia, Carlo Maria Bonaparte riuscì a insediarsi nella nobiltà della Corsica in Francia, e nel 1778 si presentò come rappresentante della Corsica alla corte di Luigi XVI in Francia a Versailles e mantenne l’incarico per diversi anni. Ad Ajaccio erano rimasti ancora la moglie, Giuseppe e i suoi altri cinque figli: Luigi, Luciano di appena un anno, e le tre figlie femmine: Elisa, Paolina e Carolina, la più piccola di tre anni. Mentre Napoleone era a Parigi per effettuare i suoi studi alla Regia Scuola Militare fondata da Luigi XV.

    Il 25 febbraio 1785, mentre Napoleone tentava di passare alla Marina Francese, per la strada che porta ad Ajaccio, una diligenza sfrecciava verso la città e da quella diligenza scese un messaggero, che dopo qualche minuto giunse alla porta di casa Buonaparte e bussando sul battente del portone prese dalla tracolla una lettera bollata. Dopo qualche istante alla porta si presentò, Maria Letizia Ramolino, ormai diventata padrona di casa durante l’assenza del marito.

    Il messaggero gliela consegnò.

    «Salve madame, le consegno questa lettera da Montpellier: riguarda vostro marito...»

    «Grazie», disse Maria Letizia prendendo la lettera.

    Poi, guardando la lettera e girandola fra le mani.

    Mah! Cosa avrà da dirmi Carlo di così importante con una lettera bollata?, pensò fra sé e sé. Osservando meglio la lettera, vide il simbolo reale sulla ceralacca e si insospettì. Aprì la lettera, la lesse, in modo veloce, difficile e angoscioso, allora lo sguardo le si abbassò, le divenne cupo e una lacrima le scese giù dall’occhio destro rigandole tutto il volto, come il solco di un aratro su terra morbida, mentre continuava a leggere. Dopo aver letto le ultime parole, lasciò cadere la lettera e si aggrappò al telaio del portone scoppiando in un pianto malinconico. Il messaggero, allora, cercò di rassicurala e contemporaneamente il figlio più grande, Giuseppe, sentendo il pianto della madre, uscì dal portone, raccolse la lettera da terra e la lesse. Era una lettera inviata direttamente dal re e informava la famiglia sulla morte di suo padre, a causa di un tumore allo stomaco, informava la famiglia della sua prossima sepoltura nella Cappella Imperiale di Ajaccio e che, in base alla linea di successione Giuseppe avrebbe ereditato il ruolo di capofamiglia. Giuseppe che, allora, aveva diciassette anni, strinse in pugno la lettera e cadde in ginocchio piangendo, quando oltre a essere afflitto per la perdita del padre, tutte le responsabilità gli stavano crollando addosso.

    Nel frattempo, Napoleone, a Parigi, alla Regia Scuola Militare, dove aveva tra i suoi insegnanti Gaspard Monge, creatore della geometria descrittiva; alloggiava in una mansarda. In seguito all’annullamento degli esami d’ammissione in Marina, di quell’anno, era desideroso di abbandonare gli studi al più presto per dedicarsi alla carriera militare.

    «Voi siete il nuovo studente, Napoleone Buonaparte, giusto?»

    Disse un ufficiale della Regia Scuola Militare, che gli si avvicinò mentre si trovava in cortile quando non vi era lezione.

    «Sì, signore» rispose Napoleone.

    «Bene, vi cercavo perché stamani è arrivata una lettera dalla vostra famiglia.»

    Quindi, l’ufficiale prese la lettera dalla tasca interna della sua uniforme e gliela consegnò. Napoleone leggendola molto fugacemente rimase allibito e molto afflitto, un peso enorme gli cadde addosso e lo stomaco gli si rivoltò sottosopra, ma lui non versò una lacrima e rimase immobile e impassibile, senza far trapelare nessun sentimento, sensazione, pensiero... Niente, sembrava una statua e chi riesce a leggere i sentimenti e i pensieri di una statua? Allora l’ufficiale, capendo che c’era qualcosa che non andava, cercò di chiedere con tono morbido e calmo.

    «Va tutto bene, ragazzo?»

    «Sì, grazie», rispose egli molto cordialmente sbloccandosi.

    «Bene, allora la saluto», disse l’ufficiale.

    «Bene. Arrivederci, ufficiale, e grazie per la lettera.»

    «Non c’è di ché», disse l’ufficiale prima di andarsene.

    Napoleone, preso dall’angoscia, dalla malinconia e dalla tristezza, corse nella sua mansarda, chiuse la porta e con la schiena alla porta, si accasciò a terra, stringendosi le ginocchia con le braccia e con la lettera nella mano destra a penzoloni, poi non riuscendo più a trattenere le lacrime, scoppiò in un pianto di tristezza e malumore, non dandosi pace fino al giorno dopo.

    Capitolo IV

    Inizio della carriera militare

    Qualche giorno dopo, si recò nella segreteria della scuola e, una volta arrivato, bussò al portone.

    «Avanti» disse una voce che pareva anziana e grave.

    «Buongiorno ufficiale», disse Napoleone entrando.

    «Buongiorno, cosa la porta qui?»

    Era un ufficiale, abbastanza anziano, con i capelli e la barba bianchi.

    «Sono venuto per vedere... Dato che c’è stato l’annullamento degli esami per entrare in Marina di quest’anno... Se ci siano posti disponibili per l’esame di ammissione di un altro reparto», rispose Napoleone.

    «Certo, ditemi il vostro nome e cognome.»

    «Napoleone Buonaparte.»

    «Bene, ora controllo sui tabulati.»

    Quindi il vecchio ufficiale prese i tabulati e tondi occhiali da vista dal cassetto.

    «Allora... Allora... Napoleone Buonaparte...», diceva l’ufficiale scrutando attentamente i tabulati, finché, appena vide un posto libero, disse, anche con un accenno di esclamazione:

    «Ah, ecco... C’è un posto libero in artiglieria le va bene?»

    Napoleone rispose prontamente.

    «Mi va benissimo, mi piace il suono delle cannonate.»

    «Perfetto, allora segno come nuovo iscritto Napoleone Buonaparte...»

    «Grazie ancora, ufficiale, e arrivederci», ringraziò Napoleone.

    «Arrivederci», rispose l’ufficiale cordialmente.

    Per Napoleone quello fu un periodo in cui sentì molte volte il rombo dei cannoni e, proprio in quell’anno, fu distaccato da un reggimento di stanza a La Fère come sottoluogotenente, ma pochi mesi dopo fu distaccato presso un altro reggimento di stanza a Valence. In quei tempi si innamorò di Caroline, figlia di Anna du Colombier e in seguito di Louise-Marie-Adelaide de Saint-Germain, ma fu rifiutato da entrambe. Inoltre, c’è da dire che la sua prima relazione fu con una prostituta.

    Nel 1787 dovette tornare a Parigi, alla Regia Scuola militare.

    In quei giorni, gli venne consegnata una lettera, il cui mittente era sempre la sua famiglia, ma che non aveva avuto tempo di aprire. Quel giorno si trovava nella sua mansarda e, dopo aver preso la busta dal tavolo, si era seduto sul letto e si era messo a leggerla. La missiva non portava buone notizie: a casa Buonaparte erano passati gli esattori, imponendo il doppio della solita cifra – Il Re stava caricando la popolazione di tasse per sfamare e a tenere nel lusso la corte di Versailles, i nobili, il clero, i funzionari, il re e a finanziare le molteplici guerre – e la famiglia, che stava già passando un periodo di povertà e austerità, dalla morte di Carlo Buonaparte, ora, era in serie difficoltà. Napoleone era altamente seccato e infuriato con i francesi e il loro re.

    Questi francesi di merda vogliono rovinare me e la mia famiglia. Pensò tra sé e sé, con rabbia.

    Alzandosi dal letto si diresse verso la scrivania, prese un foglio e scrisse il suo detesto segreto nei confronti dei francesi:

    Francesi, non paghi di averci portato tutto ciò che ci era caro, avete anche corrotto i nostri costumi. La situazione attuale della mia patria, e l’impossibilità di mutarla, sono dunque un motivo per fuggire una terra in cui sono obbligato per dovere, a lodare uomini che per virtù dovrei invece odiare. Quando arriverò nella mia terra che atteggiamento adottare, che linguaggio tenere? Quando la patria non è più, un buon patriota deve morire.

    Capitolo V

    Rivoluzione

    L’aria non era più quella di una volta: era da molto ormai che il popolo soffriva la fame, costretto a pagare le multiple tasse sempre in crescendo che servivano a sfamare e a tenere nel lusso la corte di Versailles, i nobili, il clero, i funzionari, il re e a finanziare le guerre, tra cui c’era quella dei Sette Anni. Eppure, alla fine i ministri e i funzionari si resero conto che le entrate non erano più sufficienti a coprire le spese e perciò il re Luigi XVI per far fronte alle spese, ricoprì lo stato di debiti. La Francia era sull’orlo della bancarotta e il popolo era oppresso dalla fame, alimentata anche da una grande carestia scoppiata nel 1788.

    La mattina di martedì 14 luglio 1789, una folla di insorti attaccarono l’Hôtel des Invalides con l’obiettivo di procurarsi delle armi impossessandosi così di circa ventottomila fucili e qualche cannone, ma non trovarono la polvere da sparo e pertanto, decisero di assaltare la prigione-fortezza della Bastiglia – vista dal popolo come un simbolo del potere monarchico –, nella quale erano tenuti in custodia anche sette detenuti. Gli elevati costi di mantenimento di una fortezza medievale così imponente, adibita all’epoca a una funzione limitata come quella di carcere, avevano portato alla decisione di chiudere i battenti e probabilmente fu per questo motivo che il 14 luglio gli alloggi della prigione erano praticamente vuoti. La guarnigione della fortezza era composta da 82 invalidi, soldati veterani non più idonei a servire in combattimento, ai quali il 7 luglio si aggiunsero 32 guardie svizzere comandate dal luogotenente Ludwig von Flüe. Il governatore della prigione, figlio di un precedente governatore, era il marchese Bernard-René Jourdan de Launay.

    Quella mattina, alla fortezza, de Launay si trovava nel suo ufficio, finché qualcuno bussò alla sua porta.

    «Avanti!»

    Entrò una guardia svizzera con il fiatone e ansimante.

    «Capitano...! Capitano...!»

    «Cosa c’è?», chiese lui insospettito.

    «Capitano...! Una folla di rivoltosi, armati fino ai denti, si dirige verso di noi: sono centinaia.»

    Allora, a quelle parole il capitano si stupì.

    «Cosa?!»

    «Sì...! Urlano Liberté, Fraternité, Égalité e cori contro il re e la monarchia» disse ancora la guardia.

    Allora il capitano, capendo la gravità della situazione, urlò alla guardia.

    «Presto! Tutti gli uomini sugli spalti, blindate tutte le uscite della fortezza e ritirate il ponte levatoio...!»

    «Sissignore!», rispose immediatamente la guardia con un breve saluto, prima di correre a svolgere gli ordini, mentre il capitano corse sulle scale fino ad arrivare agli spalti.

    Da lì, vide l’immensa folla che si avvicinava minacciosa. Visto il presidio circondato, pur avendo la forza per respingere l’attacco, il marchese, dopo aver riflettuto, disse:

    «Sono troppi... Vorrei provare ad appacificarmi con la folla, provando a parlare con una loro delegazione di rappresentanti.»

    Tentò di parlamentare con tre rappresentanti del comitato permanente, provenienti direttamente dall’Hôtel de Ville, e alla fine si arrivò all’accordo di far allontanare i cannoni e far visitare la fortezza a quegli stessi rappresentanti, pur di evitare un bagno di sangue. Tuttavia, a differenza di Sombreuil, che aveva ceduto ai rivoltosi e aperto le porte, de Launay, fedele al regolamento, riconosceva solo gli ordini del re e non aveva alcuna intenzione di fornire alla folla polvere da sparo e cartucce conservati nelle cantine, né tanto meno di aprire le porte e consentire l’occupazione della Bastiglia da parte della milizia borghese, ribadendo con fermezza che avrebbe aperto il fuoco solo se attaccato. Tuttavia, nel frattempo, gli insorti riuscirono a rompere le catene che reggevano il ponte levatoio e si riversarono all’interno della fortezza.

    A questo punto, la guarnigione della Bastiglia, su ordine del comandante, aprì il fuoco sulla folla. De Launay rifiutò il dialogo e fece sparare sulla terza delegazione municipale venuta a parlamentare. Dopo un quarto e ultimo tentativo di mediazione, senza risultato, sia la guarnigione che gli assedianti aprirono il fuoco, causando quasi cento morti e più di sessanta feriti tra la folla esposta, ma solo un morto e tre feriti tra i difensori, che ben protetti, sparavano da scappatoie e merli. La folla scatenata tirò colpi di fucile isolati per circa quattro ore, senza fare alcun danno alle torri. Fin dall’inizio delle trattative, il governatore prendeva tempo, attendendo rinforzi che però non sarebbero mai arrivati. Fu allora che arrivò un gruppo di 61 guardie francesi disertori, comandati dai sottotenenti Pierre-Augustin Hulin e André Jacob Elié, che si trascinarono dietro sei cannoni, presi dalla loro caserma, e cambiarono le sorti dello scontro puntando l’artiglieria contro le porte e i ponti levatoi. Gli uomini del regio esercito, accampati nel vicino Campo di Marte, non intervennero.

    Il marchese si ricompose e, quando ordinò improvvisamente il fuoco eccessivo, la stessa guarnigione lo supplicò di arrendersi, essendo senza fonte di acqua e con solo forniture alimentari limitate all’interno, ma von Flüe si oppose. Il governatore, eccitato, piuttosto che arrendersi e lasciare ai ribelli il custodito arsenale, corse nel suo ufficio e scrisse un biglietto come ultimatum, dicendo che avrebbe acceso i 20.000 chili di polvere da sparo all’interno della fortezza, facendo esplodere sé stesso e tutti gli altri, se l’assedio non fosse stato revocato e la folla non si fosse ritirata. Von Flüe, stupito, cercò di assicurargli che tali estremi non sarebbero stati necessari, mentre seguendo gli ordini, gli svizzeri distribuirono il biglietto attraverso un buco nel ponte levatoio. Fuori la folla respinse le richieste lette da Stanislas-Marie Maillard, urlando di abbassare il ponte levatoio. E quindi la folla decise di perire, piuttosto che sottomettersi, si recò nei sotterranei della torre Liberté con la torcia accesa di uno dei cannonieri sui bastioni, per dare fuoco ai 250 barili di polvere da sparo, seppellendo sotto le sue rovine assediati e difensori. Il marchese, a pochi passi dai barili di polvere da sparo, tremava violentemente. Stava per compiere la detonazione fatale, quando due invalidi, i sottufficiali Ferrand e Biguard, lo fermarono minacciandolo di morte con la baionetta sul petto.

    «Fermatevi...! Fermatevi o l’ammazzeremo!... Non vi lasceremo ammazzarci tutti!»

    «I-Io... I-I-Io... Io Non voglio ammazzare nessuno... Voglio servire il re fino alla morte...!», balbettò il marchese tremolante.

    «Noi non moriremo tutti per quello sciocco e patetico re di merda!», disse Biguard con la baionetta puntata sul petto di de Launay.

    «Io ho giurato di servire il re fino alla morte e così farò!», disse il marchese barcollando con la torcia vicino ai barili.

    «Fermati, bastardo!... O ti pianto una bella pallottola nel petto», disse sempre Biguard.

    Il marchese tentava di raggiungere il suo scopo con pietose suppliche.

    «Vi prego... Lasciatemelo fare! Diventeremo degli eroi...!», continuò: «Fatelo per la Patria e per la famiglia...!» Indietreggiava lentamente verso i barili mentre i due invalidi urlarono.

    «Fermati, bastardo, o ti ammazziamo!»

    In quel momento, alcuni degli Invalidi della guarnigione giunsero nei sotterranei e gli si affollarono intorno, mentre Biguard puntava sempre la baionetta contro il marchese. Allora, capendo che non vi era più speranza, il marchese disse deluso e rassegnato, quasi singhiozzando.

    «Almeno riprendete le torri...!»

    «Mai! Non combatteremo più contro i nostri concittadini!», esclamò uno tra gli Invalidi lì presenti.

    Tutti iniziarono ad annuire e a urlare.

    «Sì, è vero!»

    «Sì, ha ragione!»

    «Sì...! Non combatteremo più contro i nostri concittadini!»

    Allora, un altro urlò: «Io propongo una capitolazione...!»

    «Sì, ha ragione...!»

    «Giusto!»

    «Ha ragione!»

    Non potendo resistere, de Launay fu costretto a permettere agli Invalidi di battere un colloquio, issare una bandiera bianca e vedere se riuscivano a ottenere la promessa che non sarebbero stati massacrati, esigendo dai soldati della Guardia Nazionale unitisi agli insorti, gli onori di guerra per lasciare il forte. Invece, il caporale Guiard e il soldato Perreau, spaventati che il popolo intransigente stesse per usare i cannoni, aprirono da soli la porta e abbassarono il grande ponte levatoio, consegnando la fortezza.

    Così, gli insorti riuscirono a occupare la prigione-fortezza. Le guardie uccise vennero decapitate e le loro teste furono infilzate su delle picche e portate attraverso tutta la città. Il resto della guarnigione venne fatta prigioniera e condotta al Municipio ma, lungo la strada, in piazza de Grève, Launay fu preso dalla folla e linciato. Uno degli insorti lo decapitò e infilzò la testa su una picca.

    Da quel momento, il re, l’aristocrazia e il clero persero di mano la situazione.

    Capitolo VI

    Il ritorno di Pasquale Paoli e i moti indipendentisti della Corsica

    Nel frattempo, Napoleone aveva ottenuto una lunga licenza per tornare in Corsica avendo intuito che rimanere a Parigi per un tenente dell’esercito del Regno di Francia sarebbe stato molto pericoloso. Così, giunto in Corsica si unì al movimento rivoluzionario dell’isola ottenendo in questo modo il grado di tenente colonnello della Guarde National; tuttavia, nel 1792, fu retrocesso al rango di capitano per i suoi continui viaggi in Corsica, superando il tempo di licenza militare, quasi rischiando di essere considerato come disertore e per questa preoccupazione tornò a Parigi nello stesso anno. Nel frattempo, in Corsica infuriava la guerra civile fatta scoppiare verso maggio 1790, quando anche Pasquale Paoli tornò in Corsica, acclamato da tutti i corsi come un condottiero, dopo il lungo esilio impostogli dal re di Francia Luigi XV. Il suo ritorno fece infervorare tutta la popolazione corsa. Infatti, Pasquale Paoli non indugiò a mettersi a capo della popolazione e ricominciare le lotte per l’indipendenza della Corsica, approfittando del momento di instabilità del governo e per questo nelle strade di tutta l’isola si tornò a udire le solite urla della gente come nel periodo della prima lotta d’indipendenza Corsa.

    «È tornato Pasquale Paoli...!»

    «È tornato U Babbu di a Patria...!»

    «È tornato! Il salvatore!»

    «È tornato il patriota!»

    Pasquale Paoli venne accusato di tradimento e in seguito a un mandato di arresto, emesso dalla Convenzione Nazionale il 2 aprile 1793, lo stesso Paoli, ormai messo all’angolo, ruppe gli indugi: il 17 aprile scese in piazza e si appellò direttamente a tutta la popolazione corsa affinché difendesse la propria patria e i propri diritti.

    Tuttavia, la famiglia Buonaparte aveva dei dubbi da quale lato schierarsi. Infatti, a casa Buonaparte si riunì tutta la famiglia tranne Napoleone, impegnato nei suoi studi in Francia. Mentre la famiglia stava pranzando, Giuseppe era più teso del solito e questo insospettì la madre.

    «Giuseppe!»

    «Ehm... Sì, madre?», rispose lui come immerso nei suoi pensieri.

    «Cosa hai, Giuseppe?... Ti vedo teso.»

    «Niente madre... Sono solo un po’ preoccupato se ci dovesse essere una nuova rivolta indipendentista sull’isola...»

    «È vero, Pasquale Paoli sta progettando di riprendersi l’isola e farla diventare indipendente, questa volta fa sul serio, si è appellato a tutta la popolazione corsa», intervenne Luigi.

    Intervenne allora anche Luciano, che disse: «Spero che questa volta almeno riesca a rendere indipendente la Corsica.»

    «Non credo sia una buona cosa», toccò con prudenza e lontananza il discorso, la sorella più grande Elisa.

    «Vostra sorella ha ragione», affermò la madre.

    Luciano, molto legato a Pasquale Paoli, intervenne opponendosi a quanto detto dalla madre e dalla sorella: «Invece Pasquale ha sempre servito la patria e sa cosa è bene per essa.»

    Giuseppe alzandosi da tavola si diresse verso la finestra aperta, guardò fuori con fare guardingo poi la chiuse e chiuse le tendine.

    «Cosa succede, Giuseppe?», chiese la madre insospettita.

    Allora, allontanandosi dalla finestra, Giuseppe si avvicinò al tavolo, si mise dietro la sedia con le mani appoggiate sulla sommità dello schienale.

    «Allora... Con Pasquale Paoli che tenta una nuova guerra per l’indipendenza, bisogna che noi scegliamo il lato con cui schierarci: con o contro Paoli, che sarà supportato anche dall’Inghilterra e dai nemici della Francia, ora che il Regno Unito ha in mano l’isola.»

    Poi aggiunse: «Oppure con o contro la Francia...»

    Seguitò allora Giuseppe: «Credo che per il bene della nostra famiglia noi dovremmo appoggiare i Francesi.»

    A questo punto, prese il sopravvento il giovane Luciano.

    «Cosa?! Vorresti tradire la tua patria, quella per cui nostro padre e nostra madre hanno lottato e molti cittadini come te sono morti per amor della patria?... Non ti riconosco, Giuseppe!... Pensavo che tu ti saresti subito schierato con la tua patria...»

    Dunque Giuseppe, un po’ seccato, esclamò con tono severo, quasi urlando.

    «Allora, Luciano, io sono il capofamiglia! Poi... Sappi che io sono stato un grande amico del fratello di Pasquale, io darei tutta la mia vita per difendere la propria patria, ma sappi anche che dal 9 maggio 1769 la nostra patria è la Francia.»

    «Ascoltate... Io stessa ho combattuto per la mia patria, addirittura tenendo vostro fratello Napoleone in grembo....» disse con tono pacato ma severo la madre, che seguitò dicendo:

    «Ma... Devo ammettere che ha ragione tuo fratello Giuseppe... In Francia ci saranno nuove possibilità di lavoro, vostro fratello Napoleone ci è andato per far carriera lì, la Corsica non riuscirebbe mai a mantenersi da sola anche se riuscisse a diventare indipendente, cosa che comunque, per il momento è un’assurda menzogna...»

    «È vero!», appoggiò Giuseppe alzando il tono. «Paoli pur di ottenere l’appoggio di qualche potenza europea ha venduto la sovranità dell’isola agli Inglesi!... Questa la chiami forse indipendenza...? Amor della Patria? Luciano!?»

    A questo punto, Elisa, avendo capito che il discorso non interessava lei e le sue sorelle disse: «Credo sarebbe meglio che io, Carolina e Paolina andassimo in soggiorno mentre voi discutete.»

    «Già... E sarebbe meglio che andassi anche tu madre e i due nostri fratelli Girolamo e Luigi, che sono ancora troppo piccoli.»

    Luigi sbraitò, infuriato per essere trattato ancora da piccolo, avendo in realtà 15 anni.

    «Come ancora troppo piccolo!?... Ho quindici anni...!»

    «Appunto...! Sei ancora troppo piccolo! Qui parliamo di cose serie: il destino di tutta la famiglia», e aggiunse: «Tra cui, il futuro di Napoleone, il quale ora, che ha intrapreso la carriera militare in Francia, verrà influenzato dalle nostre decisioni, dato che il destino dell’isola ha coinvolto anche le altre potenze, tra cui la Francia e i suoi nemici.»

    «Va bene», disse Luigi anche se seccato e irritato, ma capendo la situazione.

    La madre era abbastanza titubante ed era anche leggermente infastidita dalla richiesta dei figli di non partecipare alla discussione.

    «Quindi siete sicuri che, da soli, riuscirete a trarre una soluzione benevola per la nostra famiglia...?»

    «Certo, madre», risposero in coro i due.

    «E va bene», rispose Maria Letizia che allora si rivolse agli altri suoi figli e aggiunse.

    «Bene, andiamo ragazzi.»

    Nella sala da pranzo ancora apparecchiata rimasero solamente Giuseppe e Luciano.

    Appena rimasero soli, subito Luciano parlò.

    «Comunque, non capisco come tu riesca a tenerti indifferente di fronte alla tua patria che ora ha bisogno di te a prescindere dalle circostanze.»

    «Te l’ho già detto, Luciano, ora la nostra patria è la Francia. Inoltre, non è più questione di amor della Patria o meno...! Come già ho detto, Pasquale Paoli, pur di liberare la propria Patria si è alleato con i nemici della Francia e della Rivoluzione, cedendo la sovranità dell’isola all’Inghilterra», rispose Giuseppe. Riprendendo fiato, Giuseppe sostenne con ancora più foga.

    «E poi: possibile che tu non riesca a capire le infinite possibilità che potremmo avere in Francia? Lo ha capito addirittura nostro padre che era un patriota, anche se non lo si vuole, bisogna farlo, come ha fatto nostro padre e persino nostro fratello Napoleone... Nessuno dei due voleva essere francese, ma lo hanno fatto per tutte le possibilità che ci offre.»

    «Schierarsi con i Francesi, ma rimanere sull’isola, sarà pericoloso!», disse il fratello minore lanciando un’ultima obbiezione.

    «Lo so, ma fino ad altra sistemazione, non abbiamo altra scelta.»

    «E va bene, ma sappi che non mi piacerà», si rassegnò Luciano.

    Allora, Giuseppe annunciò soddisfatto: «Bene, ora mandiamo una lettera a nostro fratello Napoleone per avvertirlo della nostra decisione... Ma, prima, avvertiamo gli altri in soggiorno.»

    Uscendo dalla sala da pranzo, appena vide tutti i suoi fratelli, le sue sorelle e sua madre parlò solennemente.

    «Ascoltate tutti.»

    «Vi annuncio che da oggi la famiglia Buonaparte si schiererà con la Francia.»

    Subito ci fu un sottofondo di voci poco contente e pochi secondi dopo si intromise la madre dicendo: «Io non sarei proprio convinta, però la Francia è ricca di possibilità per una vita migliore, perciò, anche se a malincuore, io approvo la vostra decisione.»

    «Devo ammettere che sarà pericoloso rimanere, ma fino ad altra sistemazione, rimarremo qui», affermò Giuseppe.

    Da quel giorno la famiglia Buonaparte si schierò con la Francia.

    Capitolo VII

    Inizio della carriera militare

    Nel febbraio 1793, Napoleone, ormai colonnello, ma neanche ventiquattrenne, comandava i 350 uomini dell’11° battaglione. Venne inviato sull’isola di La Maddalena, nel nord della Sardegna, che la neonata Repubblica Francese aveva intenzione di conquistare, in quanto importante posizione strategica nel Mediterraneo, oltre all’obiettivo di danneggiare il Regno di Sardegna di Vittorio Amedeo III di Savoia, entrato nella coalizione contro la Francia.

    Era una mattina fredda quella del 22 febbraio 1793, il vento di ponente soffiava moderatamente, come descrivevano le cronache del tempo, quando una flottiglia francese composta da 20 piccole

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