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Novelle toscane
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E-book200 pagine3 ore

Novelle toscane

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Info su questo ebook

Una vita relativamente breve, ma decisamente intensa quella di Ferdinardo Paolieri, nato a Firenze il 2 Maggio 1878. Artista, scrittore, giornalista, romanziere, libero muratore, si occupò anche di teatro e di librettistica d’opera. Fin da giovanissimo si dedicò con successo e passione alla pittura, sulla scia dei macchiaioli toscani. Prevalse in seguito l’ardore per la scrittura, che non avrebbe mai abbandonato. Restando sempre estraneo alle mode letterarie dell’epoca, preferì mantenersi, nell’ambito della letteratura regionalistica, tradizionale e popolare, sul solco tracciato dal grande Renato Fucini. Animato da una creatività letteraria genuina e decisamente fuori dal comune e dagli schemi, fu, al pari dell’amico Luigi Ugolini, tra gli ultimi cantori di una Toscana d’altri tempi, delle sue più pure tradizioni, di una Maremma, allora selvaggia, abitata da butteri, cacciatori, briganti, coperta di boschi intricati e di paludi e canneti, infestata dalla malaria.
Novelle Toscane è una delle sue opere più belle, un condensato di storie semplici ma profonde, un atto di amore per la sua terra, per le sue tradizioni, per la sua umanità.
Con prefazione di Nicola Bizzi.
LinguaItaliano
Data di uscita6 set 2022
ISBN9791280130594

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    Novelle toscane - Ferdinando Paolieri

    SIMBOLI & MITI

    FERDINANDO PAOLIERI

    NOVELLE TOSCANE

    LOGO EDIZIONI AURORA BOREALE

    Edizioni Aurora Boreale

    Titolo: Novelle Toscane

    Autore: Ferdinando Paolieri

    Collana: Simboli & Miti

    Con prefazione di Nicola Bizzi

    Editing a cura di Nicola Bizzi

    ISBN versione e-book: 979-12-80130-59-4

    Immagine di copertina: Giovanni Fattori: Mandrie maremmane, 1893

    (Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori)

    LOGO EDIZIONI AURORA BOREALE

    Edizioni Aurora Boreale

    © 2022 Edizioni Aurora Boreale

    Via del Fiordaliso 14 - 59100 Prato - Italia

    edizioniauroraboreale@gmail.com

    www.auroraboreale-edizioni.com

    Questa pubblicazione è soggetta a copyright. Tutti i diritti sono riservati, essendo estesi a tutto e a parte del materiale, riguardando specificatamente i diritti di ristampa, riutilizzo delle illustrazioni, citazione, diffusione radiotelevisiva, riproduzione su microfilm o su altro supporto, memorizzazione su banche dati. La duplicazione di questa pubblicazione, intera o di una sua parte, è pertanto permessa solo in conformità alla legge italiana sui diritti d’autore nella sua attuale versione, ed il permesso per il suo utilizzo deve essere sempre ottenuto dall’Editore. Qualsiasi violazione del copyright è soggetta a persecuzione giudiziaria in base alla vigente normativa italiana sui diritti d’autore.

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    FERDINANDO PAOLIERI E L’ANIMA DELLA TOSCANA

    di Nicola Bizzi

    Non ho mai conosciuto personalmente, per ovvie ragioni anagrafiche, Ferdinando Paolieri, ma per me, in un certo senso, è sempre stato come uno di famiglia, una figura legata indissolubilmente ai miei ricordi giovanili. Egli fu infatti grande amico e compagno di battute di caccia del mio bisnonno materno, lo scrittore fiorentino Luigi Ugolini. Entrambi condivisero, oltre alla passione per l’arte venatoria, uno sconfinato amore per la Toscana, per la sua storia, per le sue tradizioni popolari, per la sua cucina, per la sua natura selvaggia e incontaminata di un tempo che fu. Entrambi si sentivano etruschi e amavano dipingere la loro Toscana, in particolare i magici e rurali paesaggi della Maremma, raffigurandoli sulle loro tele in squisito stile macchiaiolo e, soprattutto, entrambi erano accumunati dal giornalismo e dall’amore per lo scrivere, da una creatività letteraria genuina e decisamente fuori dal comune e fuori dagli schemi. Furono, di fatto, gli ultimi cantori di una Toscana d’altri tempi, delle sue più pure tradizioni, di una Maremma, allora selvaggia, abitata da butteri, cacciatori, briganti, coperta di boschi intricati e di paludi e canneti, infestata dalla malaria.

    Il mio bisnonno si spense nel 1980, a quasi novant’anni di età. Scrisse oltre centocinquanta tra saggi e romanzi, alcuni dei quali (in particolare Selvaggia, Giuliano de’ Medici, Musoduro e Il Nido di Falasco) ebbero anche trasposizione cinematografica. Fece parte del gruppo di Nuova Antologia insieme con Giovanni Papini e scrisse per tanti anni sul quotidiano fiorentino La Nazione. Celebri furono i suoi articoli sulla terza pagina, un tempo riservata alla cultura e alla critica letteraria. Ferdinando Paolieri, invece, ebbe la sventura di morire giovane. Si spense infatti a Firenze il 4 Maggio 1928. Aveva compiuto cinquant’anni da due giorni e chissà quanti altri capolavori letterari ci avrebbe riservato se il destino per lui avesse deciso diversamente. Ma la Moira fatale aveva deciso di rapirlo, di sottrarlo all’affetto dei suoi cari, dei suoi amici e dei suoi lettori.

    Una vita relativamente breve, sì, ma decisamente intensa quella di Ferdinardo Paolieri. Fin da giovanissimo si dedicò con passione alla pittura, sulla scia dei macchiaioli toscani. Fece diverse mostre di pittura, sia in Italia che all’estero, arrivando a esporre le sue opere fino a Berlino. Prevalse in seguito l’ardore per la scrittura, che non avrebbe mai abbandonato, rimanendo – al pari dell’amico Ugolini – sempre estraneo alle mode letterarie dell’epoca, preferendo mantenersi, nell’ambito della letteratura regionalistica, tradizionale e popolare, sul solco tracciato dal grande Renato Fucini. Rifiutò, sostanzialmente, di apportare al suo scrivere tutta quelle innovazioni promosse e sperimentate da autori come Giovanni Papini o Curzio Malaparte.

    Appassionato cacciatore, percorse in lungo e in largo la campagna toscana e la Maremma, da cui trasse spesso argomenti per i suoi racconti e ispirazione per le sue tele: l’isola del Giglio e l’Impruneta, alle porte di Firenze, ove passava di solito le vacanze, furono i suoi luoghi preferiti.

    Il 31 Agosto 1905, dopo poco tempo che si era compiuta la fusione tra il Grande Oriente di Milano e quello di Palazzo Giustiniani, fu iniziato in Massoneria nella Loggia Lucifero di Firenze, la stessa le cui Colonne magnificamente ornò il sommo Arturo Reghini, che ne fu del resto uno dei fondatori. Venne poi elevato Compagno il 13 Marzo dell’anno successivo.

    Partì politicamente da posizioni anticlericali, per poi si avvicinarsi al cattolicesimo tradizionalista, fondando a Siena nel 1913, insieme a Federigo Tozzi e a Domenico Giuliotti, il settimanale d’ispirazione cattolica La Torre. Combatté durante la Prima Guerra Mondiale, ritornandone fortunatamente illeso.

    Esordì come scrittore lavorando per la casa editrice Nerbini, per la quale realizzò diversi romanzi a sfondo erotico dietro lo pseudonimo Leon Delmar, comparendo però soltanto in veste di traduttore.

    Per lunghi anni tenne una rubrica di lettere e di arte sul quotidiano La Nazione. Fu anche un apprezzato autore teatrale, sia in lingua Italiana che in dialetto fiorentino, talvolta in collaborazione con Giovacchino Forzano, e un librettista di operette, nonché autore di racconti per ragazzi.

    L’arte narrativa di Paolieri si riallaccia fondamentalmente alla letteratura toscana d’ispirazione regionale. Più colorita e meno sobria di quella di Renato Fucini, ha tuttavia, specie nelle descrizioni paesistiche, una notevole immediatezza. Fu uno scrittore d’istinto, riuscendo a descrivere con efficacia e a rendere con appropriati colori e felicità d’invenzione alcuni tipi e figure caratteristici delle campagne toscane, specie della sua amata Maremma. Talora, come nelle estrose ottave del poemetto Venere agreste, ricorda la Nencia del Magnifico, senza l’asciuttezza nervosa di questo; altre volte, come nelle Novelle toscane e in Uomini e bestie, può ricordare il Fucini, del quale non ha però l’arguzia sorridente e patetica; e certo le sue pagine migliori sono alcune iresche e vive pitture di paesi e campagne, sulla linea della migliore tradizione naturalistica italiana.

    Mio nonno materno, Ugolino Ugolini, figlio dello scrittore Luigi, con il quale sono di fatto cresciuto, era solito raccontarmi numerosi aneddoti sulla vita di Paolieri, che egli da ragazzo aveva ben conosciuto, essendo questi un assiduo frequentatore della sua casa. Non solo: spesso, prima di dormire, aveva l’abitudine di leggermi ad alta voce vari libri, alternando con sapiente disinvoltura classici greci e latini ad opere di scrittori toscani. Ricordo che tre di quei libri, che oggi ancora gelosamente conservo nella mia affollata biblioteca, mi avevano affascinato e suggestionato tantissimo. Si trattava delle prime edizioni delle Leggende della Maremma, scritte dal mio avo, delle Veglie di Neri di Renato Fucini e delle Novelle toscane di Paolieri, che vennero pubblicate a Torino nel 1913.

    Conservo anche, nel soggiorno di casa mia, un pregevole dipinto ad olio su tavola di Ferdinando Paolieri, che egli regalò al mio bisnonno e che io ho poi ereditato. Si tratta di un bellissimo uliveto toscano, con in primo piano un ulivo imponente, pluricentenario, che con il suo maestoso tronco e le sue intricate radici sembra che voglia narrare, a chi sa recepire la sua flebile voce, le tante storie e vicende di cui nel tempo è stato muto testimone. E mi ricordo anche di un aneddoto su Paolieri, che raccontava sempre in casa mio nonno. Un aneddoto relativo ad una seduta spiritica che Luigi Ugolini volle tenere un giorno in casa sua per cercare di comunicare con l’amico appena scomparso. Mio nonno, allora un ragazzo di tredici anni, si ricordava sempre l’inaspettato esito di quell’evento e lo stupore di tutti i presenti, quando il medium, caduto in un profondo stato di trance, iniziò, con una penna, a scrivere rapidamente su un foglio dei versi poetici in rima con l’inconfondibile calligrafia di Paolieri. Sì, si trattava proprio di una poesia, non priva di un certo humor, che Paolieri, ormai trapassato, volle dedicare all’amico, collega e compagno di tante battute di caccia in quel di Maremma. Per quanto la storia mi sia stata raccontata svariate volte, non ricordo tutti i versi, ma solo la strofa finale: «Sì, son morto l’altro ieri. Ferdinando Paolieri».

    Curando oggi l’editing e l’impaginazione di questa nuova edizione della raccolta delle Novelle toscane, mi tornano alla mente tanti ricordi di gioventù e tanti passi stessi del libro, che evidentemente la mia mente di ragazzo aveva allora recepito, assimilato e custodito nel più profondo dei cassetti della memoria. Passi come, ad esempio, questo della novella Il fico: «— Il nostro fico, Agenore; te ne ricordi? — Si ricorda del fico! — balbettò Agenore, singhiozzando più forte; e nella folla corse un frèmito d’ammirazione e di pietà. Tutti ripetevano piano piano fra loro: — Si è ricordato del fico! — Ha riconosciuto il posto! — È corso subito lì. — Povero sor Antonio! —». Oppure questo, della novella L’Aquila: «Un’aquila egiziana od assira non somiglia mica all’aquile di terracotta che starnazzano sui cancelli di certe ville! Eppure si tratta dello stesso animale! Vedi, io voglio dipingere un’aquila; ma ho bisogno di studiarla da vicino, di penetrare nella sua grandezza istintiva, di osservare, minutamente, la ferocia aristocratica di questa bestia che si solleva sul volgo degli altri animali. Voglio, insomma, comprendere i caratteri essenziali della bestia più nobile del creato...».

    Ho veramente amato, in gioventù, libri come Novelle Toscane, Storia di un orso e di una gatta, Uomini e bestie o Novelle incredibili. Libri che hanno sicuramente contribuito a farmi amare la mia terra, le sue tradizioni, la sua natura, la sua profonda umanità.

    Quando l’idea di diventare un editore era ancora per me soltanto un sogno giovanile nel cassetto, mi accarezzava l’idea di poter ridare un giorno alle stampe queste opere di Fedinando Paolieri – un autore di grande spessore e ingiustamente oggi quasi dimenticato – per farle conoscere alle nuove generazioni. E, a volte, capita che i sogni si realizzano, si concretizzano. Oggi è finalmente giunto quel fatidico momento e mi accingo a ripubblicare, come editore, i libri più belli di Ferdinando Paolieri, augurandomi che possano trasmettere a tanti lettori quello che un tempo hanno insegnato e trasmesso a me.

    Buona lettura!

    Nicola Bizzi,

    Firenze, 5 Settembre 2022.

    Ferdinando Paolieri

    LA VILLA DEGLI SPIRITI

    Foffo, il mio compagno indivisibile di caccia, il bracconiere esperto d’ogni abitudine delle lepri l’allevatore scrupoloso di cani, mi aveva messo alla posta in cima a un colletto, dicendomi, con l’aria di chi è sicuro del fatto suo:

    — Piantatevi costì; non muovetevi, e fra cinque minuti la Diana vi manderà su l’animale! —

    E guardava con gli occhi lucidi di commozione, la canina rossiccia, che frugava le macchie), le ginestre, i talli delle scope, gettando ogni poco un guaito acuto, che avrebbe lacerato i timpani a un sordo.

    Per Foffo quella cagna costituiva una specie di essere sacro.

    — Se non ho preso moglie, — mi diceva spesso, — credete a me, l’ho fatto per via della Diana!... Capirà che delle donne c’è poco da fidarsi; hanno a noia le bestie; e non avrei voluto (che me la facesse trovar distesa! —

    Era, in verità, una bestia di rara intelligenza: una cagna da lepre capace di star sotto, come si dice in gergo venatorio, e di far tirare alla lepre quando schizza, non si trova dovunque, Egli è che Foffo regolarmente mancava il colpo; ma il bracconiere, senza sgomentarsi correva a perdifiato alla posta più vicina e lì aspettava che la canizza gli ci respingesse la lepre, la quale, finalmente, riceveva la immeritata morte.

    E così avvenne anche quella sera.

    La Diana a un tratto scovò l’animale, gli dette come suoi dirsi, con una serie d’urli disperati vidi in un prato di paleo un grande abbaruffio di pelo rossastro; si sentì una fucilata, poi non raccapezzai più nulla, e solo mi giunse, nel silenzio afoso del pomeriggio settembrino, un lungo, misurato scagnare, che si andava allontanando, per poi ritornare, vicino, vicinissimo, a rintronarmi le orecchie: segno che la lepre era respinta per i viottoli, verso i cacciatori.

    E la lepre venne; ma non a me; per il filo del borro passò davanti a Foffo, il quale, essendo corso, come al solito, a perdifiato, fece senza dubbio a causa dei palpiti disordinati del cuore, la milionesima ‘padella’, mentre l’abbaiare rotto e affannato si allontanava da capo, con mia grandissima ira.

    Intanto, a tutto quel diavoleto, sui portici dei casolari sparsi per i circostanti poggetti, si affacciavano frotte di ragazzi, cani rispondevano con mugolii e ululati; i contadini, pei campi, alzavano il capo dal lavoro e si fermavano a guardare, appoggiati al bidente o all’aratro; alcune lavandaie, con le braccia e le gambe ignude, correvano, traballando di sasso in sasso, lungo il borro, per assistere alla cacciata; e perfino un pecoraio galoppava colle sue pecore, a rischio di tagliare la strada alla lepre e farci rimanere con un pugno di mosche in mano.

    Erano venti minuti precisi che si svolgeva questo inseguimento, quando la lepre, sfiancata, disperata, esausta, riapparve a tiro del fucile di Foffo, il quale, questa volta, comodamente appoggiato alla inforcatura bassa d’un pesco, mirò e sfracellò il capo alla povera bestia, che giacque immobile fra due ceppi di querciolo, mentre la Diana leccava con avidità il sangue della gran ferita.

    Mi precipitai dal mio posto per brontolare col cacciatore, che, oltre ad aver corso rischio di perder la preda, mi aveva tagliato fuori dalla possibilità di fare un buon tiro; ma con mia gran sorpresa egli non mi lasciò il tempo di pronunziare neanche una parola.

    Con la lepre in pugno, il fucile a bandoliera, teneva, ora, al pecoraio, ai contadini, ai ragazzi che lo circondavano, una specie d’arringa, magnificando le proprie qualità, e anche, sì! anche l’infallibilità della sua imbracciatura, ma indugiandosi specialmente sui meriti della cagna, della quale raccontava vita e miracoli, come farebbe un cerretano, in una fiera, davanti a un leone intignato e ammansito dai digiuni.

    — L’avete vista? — urlava Foffo, delirante di gioia — l’avete vista con che malizia cercava la lepre? Sapeva che era a bacìo, e non ne cercava al solatìo; sapeva che era nel forte, e non ne cercava nel pulito.... Chi glielo avrà detto? Questa non è una cagna; è una persona umana! Guardatela qui, com’è graffiata, sanguinosa, ansante... L’avete veduta tuffarsi nel legname — il legname per Foffo era il fitto del bosco, fosse pure di semplici frasche, — l’avete veduta? pareva che nuotasse; faceva innamorare! E badate bene — urlò negli orecchi al pecoraio, che ascoltava rintontito, come se gli avessero dato una mazzata sul capo — notate bene, voi che ve n’intendete di cani, notate bene che questa bestia l’ho fatta io, soltanto io; l’ho tirata su da me, a furia di fegato e d’acqua con lo zolfo; e non la darei per mille lire: e voi — terminò, rivolgendosi a me — voi, che scrivete su per i giornali, lo potete anche pubblicare, ché nessuno ve lo potrà smentire! —

    Io ero rimbecillito.

    Da principio non seppi cosa rispondere, poi m’arrabbiai con me stesso, e, ricordandomi che da una diecina d’ore almeno si girava e non s’era messo in corpo altro che un pezzo di pan casalingo e qualche sorso d’acqua di borro,

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